Archivio di Gennaio, 2020

In Svizzera tra lavoro e associazionismo. La storia di Mosè D’Incà

La festa dell’Associazione Volontari Italiani del Sangue, sezione di Wil

La mia vita professionale è cominciata come apprendista muratore. Di giorno lavoravo e la sera frequentavo la scuola, all’Iti. Andavo a Santa Giustina in bicicletta, con la strada che non era nemmeno asfaltata. Dopo Santa Giustina mi hanno mandato a Longarone, sempre in bici, fino a quando, con l’aiuto del papà, ho comprato una moto. D’inverno, quando come muratore non lavoravo, andavo sulle piste in Nevegal: avevano appena allestito gli impianti. Concluso l’apprendistato ho fatto il militare. In quel periodo ne ho approfittato per prendere la patente del camion rimorchio, convinto che in futuro mi sarebbe servita a guadagnare di più. La prova del nove è arrivata subito dopo aver finito la naja, quando ho cominciato a fare l’autista. Pensavo di trovarmi bene, e invece… portavo cemento giorno e notte. Nei primi nove mesi ho percorso 8800 chilometri. Allora mi sono detto: vado un anno a Winterthur, magari prendo qualcosa in più e vedo come funziona il mondo fuori da Belluno e dall’Italia. Mi sono fatto mandare il permesso da qualche amico già emigrato e sono partito. La prima notte a Winterthur mi hanno messo a dormire in una soffitta da cui potevo vedere il cielo, dato che le tegole erano un po’ bucate. Casa mia, a Belluno, non era bella, ma almeno il tetto non aveva fori. Comunque, pazienza, mi sono messo addosso il cappotto e tutto quello che potevo. La mattina, al risveglio, avevo la brina sul naso. Non avrei potuto andare avanti così, per questo ho parlato chiaro al mio principale: o mi trovava una stanza buona o me ne sarei andato. Mi ha accontentato subito. A quell’epoca si lavorava e si risparmiava, senza muoversi mai di casa. D’altra parte, ero in un paese straniero e non parlavo una parola di tedesco. Alla fine dell’anno il padrone mi ha detto: «Ti ho aumentato lo stipendio di tre centesimi». Teniamo presente che mi dava il minimo. Poi ha aggiunto: «Ti ho preparato il permesso per l’anno prossimo».

Assolutamente no! Ho risposto. Non mi facevo prendere in giro. Era assurdo aumentarmi lo stipendio l’ultimo giorno di lavoro.

Così sono tornato in Italia, per poi chiedere a un cugino se riusciva a trovarmi un impiego a Wil, dove lavorava lui. Mi ha spedito il permesso e sono andato. Nella nuova città mi sono sentito subito a mio agio. Prima stavo come in convento, qui, invece, la vita era più interessante. Ero alloggiato da una famiglia del posto e mi trovavo benissimo. Persone squisite e indimenticabili. Sono rimasto lì un anno, poi la ditta ha messo in piedi degli appartamentini per gli operai e mi sono trasferito. Con i soldi messi da parte ho comprato una “Topolino” e l’ho inaugurata per tornare in Svizzera. Durante il viaggio non si sbrinavano più i vetri e ci ho dovuto mettere del sale. In Italia il tempo era abbastanza buono, ma arrivato ad Altdorf ho trovato un metro e mezzo di neve. Per fortuna avevo a portata le catene. Passato il confine ho dovuto cambiare la targa e metterne una svizzera provvisoria. Anche la patente ho dovuto rifare: è costata cinque franchi, non poco. L’ingegnere esaminatore mi ha chiesto dove abitavo. Lui faceva l’autista e conosceva Belluno, soprattutto il Cadore, meglio di me. Quando mi ha consegnato la patente mi ha fatto un sacco di raccomandazioni, come un padre a un figlio. Anche a Wil ho fatto il muratore, poi il capo ha visto che conoscevo il disegno e ha iniziato a darmi fiducia e sempre più responsabilità. Oltre al lavoro, con alcuni amici abbiamo fondato una squadra di calcio: la Folgore Wil. Prima disputavamo partitelle tra italiani, poi ci siamo iscritti a veri e propri tornei. Con noi giocava anche qualche croato e sloveno. Nel ‘64 è emersa la necessità di una casa per la Missione Cattolica. Bisognava raccogliere fondi e allora via, di paese in paese, a fare delle proiezioni per raggranellare denaro. Così abbiamo iniziato a ristrutturare un edificio, un po’ la sera e un po’ il sabato.

Lavoravamo come volontari e anche il missionario faceva il manovale. Poi, altra idea tra amici: formare un’associazione Alpini.

L’inaugurazione ufficiale si è tenuta nel ’68. Quando abbiamo avuto bisogno di una sede, ho chiesto al sindaco di Wil se ci concedeva un posto per montare un prefabbricato. Tempo quindici giorni e il posto ce l’avevamo. E fino all’anno scorso la sede era ancora lì, poi è stata spostata, ma di Alpini non ce ne sono più. Già dal ‘62, inoltre, eravamo donatori di sangue con un’associazione svizzera, finché nel ‘73 abbiamo dato vita a un gruppo tutto italiano. In Svizzera trattavano i donatori con un occhio di riguardo. Noi lo facevamo gratis, ma ricordo che alla fondazione più di qualcuno che voleva iscriversi ci ha chiesto quanto avrebbe guadagnato. Nel 1969 ho sposato una valtellinese. Le nozze le abbiamo celebrate in Italia, a Sondrio, e abbiamo avuto una figlia in Svizzera e un figlio in Italia. Nel ‘77 ho deciso di rientrare, ma sarei tornato anche subito in Svizzera. Ho avuto più difficoltà ad ambientarmi quando sono rientrato rispetto alla prima volta che sono partito. In Svizzera c’è meritocrazia, se vali ti valorizzano, ma devono prima riconoscere le tue doti. Insomma, è un Paese di cui ho sempre avuto tanta nostalgia, perché ci ho trascorso i migliori anni della mia vita.

La vita di Gemma Coletti, da Salce alla Svizzera

Davanti alla fabbrica di cioccolato “SPOSA”. Gemma è laseconda da sinistra

Mi chiamo Gemma Coletti, provengo da una famiglia di mezzadri che abitava a Salce. Avevo sedici anni quando iniziai a lavorare come cameriera in un albergo a Sappada. Prestai servizio per una stagione invernale e una estiva. Allora Belluno era ancora una città rurale che off riva poche opportunità lavorative. Quando un conoscente riferì a mio padre che in Svizzera cercavano dei dipendenti nella fabbrica di cioccolato SPOSA, lui decise di organizzare il trasferimento per me e mia cugina Mirella, di un anno più giovane. Così, nel settembre del 1954, a diciannove anni, partii per la Svizzera, dove trascorsi in tutto sei anni. Dopo dodici ore di treno per raggiungere la meta io e lamia compagna di viaggio ci sentivamo stanche e spaesate e una volta giunte a destinazione dovevamo percorrere ancora due chilometri a piedi per raggiungere l’abitazione che ci avevano assegnato: una casa fredda, riscaldata solo con una piccola stufa a legna. La fabbrica si trovava a Laupen, una frazione del piccolo paesino di Wald, nella periferia di Zurigo. La nostra casa, che condividevamo con altre ragazze, vi distava pochi metri. L’attività contava cinquanta dipendenti tra i quali solo cinque, comprese me e Mirella, di nazionalità italiana. Si lavora mediamente nove ore al giorno, ma durante i periodi di festività si raggiungevano anche le sedici ore. Ricordo che ad ogni pausa mangiavamo un po’ di cioccolato perché non c’era tempo di andare a comprare altro. Ovviamente, con questa cattiva abitudine mi rovinai i denti per il troppo zucchero e dovetti porre rimedio una volta tornata in Italia. All’interno della fabbrica si lavorava con grandi macchinari che davano forma e confezionavano il cioccolato. Dopo due anni ebbi un incidente sul lavoro nel quale persi i ldito medio della mano destra.

Tuttora ricordo il dolore acuto che provai in mancanza di rimedi analgesici, razionati il più possibile e somministrati solamente quando il dolore era insopportabile.

Tuttavia, i macchinari e il lavoro non ci preoccupavano: la principale difficoltà era la lingua. Riuscire a padroneggiare una lingua tanto diversa dall’italiano (e soprattutto dal nostro amato dialetto) sembrava impossibile. All’inizio non sapevo una paroladi tedesco e non c’era quasi nessuno che parlava la nostra lingua; di conseguenza, la comunicazione era ostacolata. Fortunatamente andavamo molto d’accordo con i responsabili, che erano socievoli e cercavano di coinvolgerci in ogni attività e di insegnarci la lingua, finché riuscimmo finalmente a impararla dopo circa un anno. Anche i colleghi erano molto disponibili e gentili, esclusi alcuni del posto che ci chiamavano “zingare”. Sentivamo nostalgia di casa e quasi ogni settimana scrivevamo alle nostre famiglie, ma, si sa, le corrispondenze di una volta non erano veloci come lo sono ora e le risposte ci arrivavano dopo due settimane. Passati circa tre anni in Svizzera, vennero a visitarci mia mamma e mia zia, la mamma di Mirella. Quel giorno fu una grande festa, accompagnata dalla felicità di ritrovarsi dopo così tanto tempo. Si lavorava molto, ma c’erano anche momenti di svago: i proprietari della fabbrica organizzavano spesso delle gite fuori porta per i dipendenti, era un’iniziativa che rendeva tutti felici. Alcune sere, poi, dopo il lavoro, io e Mirella andavamo a ballare in un edificio a due chilometri dalla nostra casa. Vi si giungeva percorrendo una strada sterrata che ci obbligava a indossare le ciabatte e portare lescarpe da ballo in una borsa perché non si impolverassero. Una volta arrivate a destinazione ci cambiavano. Ogni sabato sera veniva invitata un’orchestra diversa e si conoscevano nuove persone. Dopo cinque anni alla fabbrica SPOSA, mi trasferii da mia cugina Ida a San Gallo. Iniziai a lavorare stirando modelli di vestiti nella sartoria Stark, ma trascorso un anno decisi di tornare in Itali aa causa di un clima sfavorevole alla salute. Una volta rientrata a Belluno mi ripresi subito e ricominciai a lavorare. Si concluse così la mia esperienza all’estero. Mi ricordo la grande preoccupazione iniziale, la paura di non essere accettata in un mondo così diverso da quello a cui ero abituata.Mi ricordo di come queste paure si dissolsero col tempo, grazie a persone comprensive, pazienti e divertenti. Mi ricordo la difficoltà e la soddisfazione di imparare una nuova lingua che ancora oggi riesco a riconoscere.