Archivio di Marzo, 2020

Ottavio Romanel. Io, mancato “caregheta”

Cantiere in Nigeria, con la moglie e un dipendente locale
Cantiere in Nigeria, con la moglie e un dipendente locale

Mi chiamo Ottavio Romanel, sono nato a La Valle Agordina il 5 giugno 1935.e voglio raccontare la mia storia di mancato caregheta.
Figlio di careghete iniziai tale attività nel biennio 1949-50 in quel di Savona, dove mio padre aveva la zona di lavoro. Questo avvenne dopo aver frequentato l’avviamento professionale nella scuola di Agordo. Ma i tempi stavano cambiando e allora chiesi a mio padre di riprendere gli studi all’ITIM, Istituto Tecnico Industriale Minerario di Agordo.
Conseguii il diploma nel 1956 e a marzo del 1957 fui assunto dalla RAIBL, Società Mineraria di Cave del Predil, che estraeva i minerali di blenda e galena. In quel periodo la direzione tecnica era affidata alla Pertusola che sfruttava le miniere in Sardegna. Fui visionato ed assunto dall’Ing. Valdivieso, noto a noi studenti perché autore di una dissertazione riguardante la perforazione e le cariche di esplosivo inclusa nel “Gerbella”, la bibbia del perito minerario. Nel 1962 la concessione mineraria fu tolta alla Pertusola ed assegnata all’Amministrazione Società Stradale. Alla direzione della miniera arrivò l’Ing. Bonato, nostra conoscenza essendo stato insegnante all’ITIM di Agordo.

Alla fine del 1968 cambiò la mia storia: l’Ing. Bonato venne chiamato dal cognato Prof. Milli, nostro insegnante di geologia e mineralogia, per andare in Perù a risolvere certi problemi legati allo scavo di una galleria di 20 km per una centrale idroelettrica.

Milli, in qualità di consulente dell’Impregilo, chiese a Bonato di occuparsi della faccenda portandosi dietro dei tecnici minerari con le competenze necessarie ad affrontare la situazione. Io fui tra i prescelti e mi fu affidato l’incarico di scavare l’ultimo tratto della galleria, compreso il pozzo piezometrico e due camere di espansione. Dopo due anni di quel lavoro venni trasferito, sempre tramite l’Impregilo, in Colombia per i lavori di scavo del tunnel di deviazione ed altre gallerie inerenti alla costruzione di una diga sul fiume Chivor, nella zona smeraldifera a nord del Paese.
Alla fine del 1974 venni trasferito a Medellin, dove dovevo supervisionare lo scavo di una caverna sotterranea adiacente ad una centrale funzionante con quattro turbine. Naturalmente non si trattava di una cosa semplice e vennero ingaggiati dei tecnici svedesi della ditta Nitro Consult dai quali appresi le tecniche degli spari controllati. Alla fine del 1976 venni trasferito in Iran e fui addetto agli scavi del tunnel di deviazione per la costruzione di una diga in terra a nord di Teheran, vicino al Mar Caspio. A gennaio del 1977 fui trasferito in Nigeria con una società joint venture composta da Girola, Borini, Prono e il rappresentante nigeriano Hiconi. La ditta aveva in appalto la costruzione del ponte “Therih Milan”, in prossimità di Lagos. Io avevo l’incarico di Quarry Manager per lo scavo e la produzione degli inerti che servivano alla costruzione. Alla fine del 1979 fui trasferito in Argentina per la costruzione di una diga in terra nelle vicinanze di San Carlos de Bariloche. Ero addetto agli scavi di due tunnel di deviazione e a quelli inerenti le spalle della diga. A marzo del 1982, dopo una breve esperienza alle cave di marmo in Sicilia, trovai lavoro nelle gallerie autostradali della tratta Udine-Tarvisio fino a settembre del 1984 con la ditta Italstrade. Fui quindi trasferito a Napoli per la ristrutturazione della galleria Cumana, danneggiata dai bradisismi nella zona flegrea.

Miniera di Cave, con il collega Asquini sul filone mineralizzato di blenda
Miniera di Cave, con il collega Asquini sul filone mineralizzato di blenda

Alla fine del 1986 l’Impregilo mi richiamò per la costruzione di una nuova diga in Argentina, dove trovai impegnativo il lavoro di scavo di due gallerie nella zona alluvionale detta “il palecause” con una macchina tedesca del diametro di 5 m, detta “scudo”. Alla fine del 1987 mi ricercò l’Italstrade per inviarmi in Turchia per la costruzione di una diga in calcestruzzo arco e gravità alta 120 m simile a quella del Vajont. Rimasi fino al giugno del 1988, quando venni trasferito in Val d’Aosta per lo scavo di gallerie autostradali verso Courmayeur e verso il Gran San Bernardo con la mansione di direttore tecnico. Alla fine di quel periodo avevo maturato il diritto alla pensione, ma il Presidente Amato la bloccò per due anni. Dovetti preparare nuovamente le valigie e tramite l’Impregilo fui trasferito in Cile per lo scavo di un tunnel di desvio e di una caverna sotterranea per la costruzione di una centrale. Durante i miei trasferimenti sono sempre stato accompagnato dalla famiglia. Nel marzo del 1994 mi sono ritirato in pensione.

Solidarietà tra minatori emigranti

Arturo Costella a lato della tomba di Vittore Luigi Menegaz
Arturo Costella a lato della tomba di Vittore Luigi Menegaz

Raccontiamo in questo numero la straordinaria storia di Vittore Luigi Menegaz che nacque nel 1875 da una famiglia originaria di Caupo di Seren del Grappa. Nei primi anni del Novecento egli emigrò in Pennsylvania dove trovò impiego nelle miniere di carbone. Sposò per procura Amabile Zatta di Vellai di Feltre, che subito lo raggiunse in America dove nacquero i loro due figli, Anna e Vittore.
Nel giugno 1906, quando il secondogenito aveva solo tre mesi, Amabile e i due figli rientrarono in Italia, ignari di salutare per sempre il capofamiglia. Si sa, le comunicazioni allora non viaggiavano veloci come ora e la famiglia non ebbe più notizie del congiunto fino a quando, nel marzo dell’anno successivo, arrivò una lettera del datore di lavoro che annunciava la scomparsa di Vittore Luigi a seguito di un incidente in miniera: solo qualche riga per informare che era morto per annegamento causa l’apertura di un’improvvisa falla, non prima però di aver messo in salvo la squadra di operai di cui era responsabile. La vedova ed i figli furono sempre convinti che il congiunto fosse morto in una miniera statunitense, ma qualche anno fa, grazie ad Internet, una bisnipote fa una scoperta impensabile: la località menzionata sulla missiva non si trova in America, bensì in Sudafrica, precisamente nella località denominata Witwatersrand, nei pressi di Johannesburg.

E qui entrano in campo Oscar De Bona e la nostra Associazione che mettono in contatto la famiglia Menegaz con Arturo Costella, già presidente della Famiglia Bellunese del Sudafrica, anche lui con un passato da minatore.

Vittore Luigi Menegaz
Vittore Luigi Menegaz

Egli si mette subito alla ricerca e nel vecchio cimitero cattolico di Springs, al posto numero uno, sotto un’enorme pianta di eucalipto, trova le spoglie di Vittore Luigi Menegaz, come riportato nel registro ufficiale. La famiglia conosce finalmente il luogo dove riposa il familiare e deduce che in data imprecisata egli si è trasferito in Sudafrica per lavorare nelle miniere d’oro di Geduld, ritenute forse più redditizie e meno pericolose di quelle di carbone. Artuto Costella, a cui la famiglia sarà per sempre riconoscente, fa sistemare il luogo di sepoltura e questo accade proprio a cento anni dalla morte del povero Vittore Luigi. Un atto d’amore verso questo sfortunato emigrante che soddisfa il desiderio di una famiglia di testimoniare che il proprio caro non è mai stato dimenticato.

Storia raccolta da Luisa Carniel,
su informazioni di Annamaria e Susanna Zatta

Irma, Beniamino ed Eugenio. Persone diverse, ma con una storia comune: l’emigrazione

Qualche tempo fa la classe III C della scuola media “Ricci” di Belluno è venuta in visita al MiM – Museo interattivo delle Migrazioni. Tre alunni, una volta tornati a casa hanno chiesto ad alcuni parenti emigranti di raccontare la loro storia. Ecco qui il racconto dell’esperienza all’estero di due nonni e una zia.

Irma Brancher, emigrante in Germania
Sono nata il 18 gennaio 1966 a Sant’Antonio di Tortal (Trichiana). Ho dovuto partire perché avevo una famiglia numerosa e con dei genitori molto poveri. Quindi, quando ho avuto la possibilità di avere un lavoro, ho approfittato.Sono stata per cinque stagioni emigrante in Germania, vicino al Mare del Nord, ai confini con la Danimarca. Un posto bellissimo. Non riuscivo a capire come facessero i tedeschi, all’inizio della stagione, quando ancora le temperature erano molto basse, a mangiare così tanto gelato.
Lavoravo dalle sette della mattina fino a mezzanotte, con due pause, anche se spesso, visto il tanto lavoro da fare, le saltavo. La paga era sicuramente buona, ma non adeguata alla mole di lavoro che svolgevo. Comunque, con il piccolo quantitativo di denaro guadagnato riuscivo ad aiutare la mia famiglia. Dopo cinque stagioni difficili ho trovato lavoro in un bar a Belluno e così sono tornata in provincia. Credo che per i giovani in cerca di lavoro sia importante provare ad andare all’estero, magari anche per tempi brevi. È molto utile sia dal punto di vista professionale che dal punto di vista sociale.

Storia raccolta da Vittoria Marcolongo

Nigeria, 1963. Beniamino Fant con un collega. Lavoravano alla costruzione di una diga

Beniamino Fant, una storia di emigrazione lunga 35 anni
Nato a Sospirolo il 13 dicembre 1936, attualmente vive nella valle del Mis, ma in passato ha viaggiato molto all’estero per lavoro.
«Ho iniziato ad andare all’estero nel 1954, a 18 anni. Lavoravo per una azienda chiamata Impregilo, che costruiva dighe. Sono stato in giro per il mondo per circa 35 anni, tra Svizzera, Iran, Turchia, Sudan, Nigeria, Brasile, Ecuador, Honduras e infine Argentina e Cile. Quasi sempre portavo con me la famiglia, soprattutto nel Sudamerica. Lì le mie figlie hanno studiato per la maggior parte della loro carriera scolastica. In tutti i posti dove sono stato mi sono sempre trovato bene con le persone che ho incontrato. In Africa erano molto solidali, in Sudamerica erano molto accoglienti, ti facevano sentire a casa. Solo in Iran non mi sono trovato molto bene: le persone ti guardavano male, erano rigide e molto dubbiose nei confronti di noi Italiani.
Quando giri così tanti Paesi, non è sempre facile ambientarsi. In alcuni casi io e i miei compagni ci accampavamo nelle tende, altre volte avevamo le case mobili.
Inoltre, erano abbastanza frequenti gli incidenti sul lavoro. Purtroppo ho perso molti amici. Si sfidava ogni giorno la morte. Lavoravo quattordici ore al giorno e avevo una domenica libera ogni due settimane. È stata un’esperienza molto utile, anche se faticosa.
I climi erano differenti, si passava dal freddo al caldo estremo, in più c’era anche il fatto della fauna. In Brasile, ad esempio, trovavamo sempre serpenti! C’è un episodio che ricordo in modo particolare. È avvenuto appunto quando mi trovato in Brasile. Per lavoro ci avevano mandato nella foresta. Mentre camminavamo, un nostro amico ha iniziato ad urlare “aiuto”; io e i miei compagni ci siamo girati e abbiamo visto un pitone enorme. Abbiamo chiamato il resto degli operai che erano nella diga e l’abbiamo ucciso, poi ci siamo seduti tutti lungo il pitone; ci sono voluti 20 operai. Era veramente lungo!
Dopo essere stato emigrante per tanto tempo, non ho più voglia di viaggiare. Il mondo l’ho già girato! Però tornerei in alcuni posti per rivedere i miei amici.

Storia raccolta da Asia De Pellegrin

Parigi, 1956. Eugenio e Francesco Sacchet

Eugenio Sacchet, un emigrante della “terza grande ondata”
Eugenio Sacchet emigrò per lavoro in vari paesi. Tra il 1956 e il 1960 eseguì in Francia lavori di edilizia a Parigi, nel quartiere periferico di Senne-Ouase. Tra il 1967 e il 1974 lavorò in Turchia per la costruzione di una diga e di una centrale elettrica, in località Keban, sul fiume Eufrate, dove fu seguito dalla moglie e dai figli, tra cui mio padre. Proprio mio padre mi racconta di un posto splendido e fertile, contrariamente a ciò che si può pensare di una zona semi-desertica come il nord-est della Turchia. Tra il 1976 e il 1977 lavorò alla costruzione di un ponte sul fiume Nilo, in Sudan. Ricorda che il soggiorno fu piacevole, nonostante l’ostilità della fauna locale, in particolare serpenti e scorpioni. Alloggiò in un campo a quattrocento chilometri da Khartoum. Tra il 1978 e il 1979 fu invece in Libia con una ditta di Locarno, per la costruzione di una serie di condomini in pieno centro a Tripoli, la capitale.
Rientrato in Italia nel 1979, tornò al suo paese natio, Olantreghe, frazione di Longarone, e lavorò in una fonderia fino al pensionamento, avvenuto nel 1985. Operaio specializzato, instancabile lavoratore, che dai quattordici anni fino ai cinquantotto si guadagnò da solo “la pagnotta” – quarant’anni di lavoro sulla schiena, contando anche il servizio militare – è ora seduto in una poltrona a narrare al nipote la sua faticosa vita da emigrante.

Storia raccolta da Lorenzo Sacchet

La famiglia Nesello. Dal Bellunese al Brasile. Un viaggio di sola andata

Il capitello dedicato ad Augusta
Il capitello dedicato ad Augusta

Quella della famiglia Nesello è una storia-simbolo dell’emigrazione, che tocca diversi luoghi: Sospirolo, San Gregorio nelle Alpi (in Italia) e Otavio Rocha, Nova Prata e Faxinal do Soturno (in Brasile). Territori distanti tra loro, geograficamente, ma non per i legami parentali che si intrecciano a partire da metà Ottocento fino a oggi.
La storia parte dal bisnonno Norberto (nato il 6 agosto 1822); esposto, da Venezia, presso l’orfanatrofio del Pio Ospedale della Pietà – oggi S. Maria in Riva degli Schiavoni – viene accompagnato a Sospirolo in casa della famiglia di Domenica e Matteo Cadore il 27 agosto 1822, come è possibile leggere negli archivi della Parrocchia sospirolese. Norberto si sposa il 23 febbraio 1846 con Maria Mioranza e ha cinque figli, nati a Sospirolo, prima di rimanere vedovo. Nel 1854 Norberto sposa a S. Gregorio, in seconde nozze, Maria Caterina Cassol, da cui ha dieci figli. Si sposerà una terza volta, ma non avrà figli.
Dei quindici figli, avuti dai primi due matrimoni, ne restano in vita dieci; di questi, quattro uomini (Giovanni, Pietro Felice, Felice Francesco, Norberto) e quattro donne (Maria Apolonia, Anna Maria, Augusta, Libera Maria) emigreranno in Brasile, mentre due figli (Felice Antonio e Domenico Felice) restano a S. Gregorio.

luglio 1858; si sposa il 23 settembre 1875 con Domenico Bortoluzzi, da cui ha due figli: Paolo Domenico Tiziano (n. 1880) e Elisa Maria (n. 1882). Nel 1883 la coppia fu costretta ad emigrare a Nova Treviso (quarta colonia) e qui divenne una delle tre famiglie fondatrici della località. Augusta purtroppo fu sfortunata: incinta, trovò la morte il 1° dicembre 1885 sotto una pianta che il marito stava tagliando per disboscare.

La storia della famiglia Nesello è stata ricostruita, dopo 43 anni di ricerche, da Gianpietro Nesello, nipote di Domenico Felice, e dalla moglie Paola. Paola, Gianpietro e il fratello Berto Nesello sono stati per la prima volta in Brasile (a Caxias do Sul-Otavio Rocha) nel 1974 con l’Associazione Bellunesi nel mondo; in quell’anno Gianpietro ritrova la generazione di sei parenti (quattro uomini e due donne). Nel 2008, per mezzo di Tania ed Ervino Nesello – discendente del bisnonno Norberto, rettore dell’Università di Londrina e autore del libro contenente il primo albero genealogico della famiglia Nesello –, ritrova a Nova Prata la discendenza da parte di Libera Maria (terza donna ritrovata). Il cerchio si stringe sempre più nel 2014, grazie all’aiuto di Jardelino Menegat della Congregazione La Salle, dal quale Gianpietro viene a sapere dove si trova Nova Treviso: oggi è località Santa Maria, a Faxinal do Soturno, ed è il luogo dove emigrò Augusta (l’ottava persona mancante, la quarta donna). Nel 2015, proprio a Faxinal do Soturno, Gianpietro e Paola (con Ervino, Tania, Jurandir Nesello) incontrano Avida Brondani, presidente della Società Italiana di Faxinal, e con lei ritrovano la discendenza da parte dei Bortoluzzi (in quell’occasione si va a conoscere la 95enne Cecilia, figlia di Paolo, e Zair Ceretta, figlio di Cecilia) e dei Dal Molin (Elisa Maria Bortoluzzi sposò un Dal Molin).
Nel 2017 Gianpietro è tornato a Faxinal dove, durante un pranzo con una cinquantina di persone tra parenti e amici, ha saputo dell’esistenza di una cappella dedicata proprio ad Augusta, che si trova a Novo Treviso. Augusta, infatti, fu omaggiata all’epoca in quanto era la prima persona lì scomparsa, a seguito dell’emigrazione. Non solo: in un bosco poco distante, tra alti campi di soia, si trova la sepoltura di Augusta, segnata da una croce in ferro, dove ancora oggi, a distanza di oltre 130 anni, qualcuno porta dei fiori; fu sepolta qui perché all’epoca non vi era il cimitero. Sulla lapide, voluta probabilmente da un padre per il centenario dell’emigrazione (la dicitura recita “nell’anniversario dell’emigrazione italiana”), si trova anche scritto che era incinta (“con nascituro in grembo”). La scoperta è stata fatta parlando con un contadino del luogo; presso la sepoltura, Gianpietro e Paola si sono recati accompagnati anche da Zair, Ervino e Tania. Ora la famiglia Nesello si occuperà del recupero della lapide di Augusta, che spera sarà trasferita nella cappella, e si preoccuperà di far celebrare una Messa il 1°dicembre, nel giorno della scomparsa. Una sorpresa per tanti sospirolesi e sangregoriesi, ma anche per i parenti che ne ignoravano la storia. La vicenda della famiglia Nesello entra a far parte anche del patrimonio di saghe famigliari legate all’emigrazione, raccolte dall’Associazione sospirolese “Amici di Flores da Cunha”, di cui Gianpietro è consigliere.

Danilo Calonego. Una vita da emigrante

A sinistra Danilo Calonego con un suo collega

A causa del dopoguerra e della grande miseria ho iniziato presto a conoscere la vita e cosa vuol dire lavorare ed essere poveri. Il mio povero padre era un emigrante; avevo circa sei o sette anni e mi ricordo bene quando egli lavorava in Svizzera; partiva in primavera e rientrava in Italia per la fine novembre. Noi a quei tempi abitavamo alla Costa dei Viezzer (comune di Sedico); quando rientrava dalla Svizzera e bussava alla porta, mia mamma mi diceva: “Danilo ,vai a vedere chi è!”. “Mamma – le dicevo io – c’è qui un signore con dei lunghi baffi, uno zaino in schiena e una valigia legata con lo spago”: non riuscivo a riconoscere mio padre! Roba da non credere!
Io, per mia sfortuna, ho incominciato la vita da piccolo emigrante a soli otto anni, se non proprio emigrante nel vero senso della parola, a conoscere la vera vita da lavoratore. Tutti gli anni (per sei stagioni) dal 13 giugno fino al 7 settembre, i miei mi mandavano con un signore di Dussan –Meano, nella malga Grava al pascolo con le mucche. A undici anni, finita la scuola elementare, ancora a servire dal signore di Dussan, d’estate in malga e poi fisso a Dussan a fare il servitore, tornando a casa ogni tre settimane.

A quattordici anni il mio sogno era di fare il meccanico per poi prendere la strada di mio padre. Speravo sempre di andare un giorno in Africa. Dopo cinque anni di apprendistato a Camolino e il servizio militare, mi ero interessato per partire per l’Africa.

Ero anche stato fortunato perché un mio amico mi aveva presentato un direttore della C.S.C; quindi, superato il colloquio a Milano, dovevo partire il 5 settembre del 1969 per la Libia. Il mio sogno si stava avverando, ma purtroppo il 1° settembre 1969 scoppiava la rivoluzione in Libia. Allora la C.S.C mi ha mandato in Svizzera ed è da qui che è incominciata la mia lunga storia di emigrante. Fino al 1973 ho lavorato in Svizzera a Montreux, subendo anche tante umiliazioni dagli Svizzeri. Ho deciso quindi che sarei tornato in Italia, dove un mio lontano parente mi ha affittato l’officina che ho tenuto fino al 1978. Ero già sposato e anche con due figlie grandicelle, quando ho deciso di mollare tutto e ritornare all’estero; e cosi il 7 febbraio del 1979, a 31 anni, sono partito per la Libia ,finalmente! La mia destinazione era Zanzour ; malgrado anni duri, le umiliazioni e altro ancora, lo stipendio era buono; però il lavoro è terminato presto e mi sono trovato ancora in Italia dopo due anni. Ho quindi lavorato alla concessionaria Mercedes fino ai primi di febbraio del 1983, quando sono di nuovo partito per la Libia, dove sono rimasto fino al 2016. Ho avuto tanti problemi: il bombardamento nel 1986, poi la società in cui lavoravo mi aveva trasferito in Algeria a Bouira, in mezzo ai terroristi, dove per fortuna ho passato solo due anni. Sono ritornato poi in Libia, a Tazerbo, nel deserto del Sahara , poi a Caboverde per due anni e mezzo. Finalmente, nel 2011, mi ero messo tranquillo; avevo una seconda moglie, una figlia e lavoravo a Zanzour quando è scoppiata la rivoluzione. Il 21 di febbraio sono rientrato in Italia, ma non mi sono arreso; non me la sentivo di andare in cassa integrazione e quindi ho fatto domanda per andare nel Laos, dove ho fatto tutta l’estate in quei maledetti posti . Finalmente a dicembre la mia vecchia società Maltauro mi ha richiamato per ritornare in Libia: era il 2 dicembre 2011, Italiani non ce n’ erano! Ho lavorato sempre con la Maltauro , fino al 30 giugno del 2014, e al primo luglio sono andato in pensione!

Una recente foto di Danilo in uno dei cantieri in Africa dove presta servizio

Il destino ha voluto che la mia vecchia società Con.I.Cos (faccio anche presente che in tutti questi anni ho cambiato quattro società) mi richiamasse dopo tanti anni per recarmi a Ghat, a fare da consulente per dei mezzi e disporre per i meccanici, praticamente capo officina, ciò che del resto facevo da tantissimi anni. Lì – forse non tutti lo sanno – ho passato l’agosto del 2014 subendo con il Calsnicif, il rapimento di due Pick up, uno il 12 e uno il 29 di agosto: per fortuna mi è andata bene perché hanno sparato per aria, ma paura tantissima! L’11 di settembre, sempre del 2014, ho dovuto scappare a causa dei bombardamenti; gli aeroporti erano tutti bombardati e quindi sono fuggito per l’Algeria, attraversando tutto il deserto: un viaggio indimenticabile fatto di tante avventure. Avevo quindi deciso di dare un taglio alla Libia; ormai avevo raggiunto il mio scopo avendo fatto oltre 27 anni! Così, essendo residente in Marocco, mi sono fatto le meritate lunghe vacanze a Marrakech!
In Italia sono ritornato nel giugno del 2016; ero a casa tranquillo (mia moglie era rimasta in Marocco), quando, verso il 20 giugno del 2016, la società Con.I.Cos mi ha richiamato per andare una ventina di giorni a Ghat per programmare una finitrice, un lavoretto che avrei fatto volentieri, anche per rivedere un po’ la Libia. Invece la cosa è venuta lunga e mi è capitato quello che voi tutti sapete[si tratta del noto rapimento del 19 giugno 2016, conclusosi felicemente il successivo 4 novembre; n.d.r.].
Con questo racconto vi informo che è da anni che sto scrivendo un grande libro intitolato “Le mie memorie”. Adesso l’ho un po’ trascurato perché sto scrivendo un piccolo libretto sul sequestro del 19 settembre del 2016 e durato 47 giorni! Finalmente spero di riuscire a dimenticare la Libia, ma il “Mal d’Africa” rimane nel sangue per sempre!

Danilo Calonego