Archivio di Agosto, 2021

Una vita in memoria

Un sogno, un viaggio, una nuova vita. Così inizia la storia di emigrazione della famiglia Martini, proveniente dalla frazione di Fianema, nel comune di Cesiomaggiore. A raccontarla è Elsa Martini Colombo, mia nonna. Partita da Genova nell’aprile del 1910, la famiglia si stabilì a Santa Maria, Rio Grande do Sul, nel Comune di Restinga Seca.

Giovanni Ricciotti Martini lavorava nella coltivazione di tabacco, Elvira e i figli (Emilio di dodici anni, Irma di nove, Elsa di cinque e Alice di tre mesi, nata in Brasile) aiutavano nelle faccende domestiche, cercando di adattarsi alla nuova realtà. All’inizio della Prima guerra mondiale, Giovanni decise di rimanere a lavorare in Brasile, mentre Elvira diceva di non voler morire lì. Così, nel 1914 ritornò in Italia in compagnia dei suoi quattro figli.

«Eravamo già in guerra, il viaggio è durato più del previsto perché la nave doveva navigare lungo la costa per sfuggire ai sottomarini e ai bombardamenti», ricordava Elsa. Al suo ritorno in Italia, Elvira dovette affrontare con coraggio gli anni della guerra, proteggere i suoi figli e provvedere al loro sostentamento. Gli abitanti più facoltosi della zona andarono verso il Milanese, ma i piccoli contadini rimasero nei villaggi intorno al Monte Grappa, dove si svolse gran parte dei combattimenti e dove furono esposti a bombardamenti, saccheggi e conflitti.

Furono anni difficili. Affermava Elsa: «Essendo un territorio di combattimento, durante l’occupazione austriaca tutto il grano e il vino delle botti furono buttati via. In campagna, le coltivazioni venivano confiscate, non rimaneva nulla. Dovevamo stare zitti, loro comandavano». Alla fine della guerra, Giovanni fece ritorno in Italia, riprese le sue attività di Consigliere Comunale per l’Agricoltura di Cesiomaggiore e si prese cura della famiglia, provvedendo all’educazione dei suoi figli affinché imparassero un mestiere. Elsa parlava di suo padre con ammirazione. «Era un uomo colto, sapeva leggere e scrivere bene, era di bella presenza».

Elvira morì nel 1924 a causa di un infarto. Aveva quarantacinque anni. Giovanni, che diceva sempre di voler tornare in Brasile, decise di inviare Emilio per raggiungere i suoi parenti che si trovavano nel municipio di Tangará, stato di Santa Catarina, dove acquistare un pezzo di terra e preparare tutto per il suo ritorno insieme alle tre figlie. Partirono per il Brasile nell’aprile del 1925, arrivando nel Porto di Santos, nello stato di São Paulo. Il viaggio continuò poi in treno verso la destinazione finale, con una sosta a Ponta Grossa, nello stato del Paraná, dove Giovanni doveva prelevare dei soldi per cominciare una nuova vita.

La notizia del furto provocò una svolta nei piani, nell’armonia e nella vita della famiglia Martini.

Raccontava Elsa: «Mio padre era un uomo di mondo, sapeva tutto, ma sulla via del ritorno alla stazione ferroviaria fu derubato. Gli portarono via tutti i soldi. Aveva paura, parlava di quello che aveva vissuto, ma non era sicuro di cosa fosse successo». A Tangará, Emilio e la famiglia lo aspettavano. Nei giorni successivi, la notizia del furto provocò una svolta nei piani, nell’armonia e nella vita della famiglia Martini. Emilio partì per il Rio Grande do Sul in cerca di lavoro. Giovanni, come raccontava Elsa: «Cominciò ad impazzire. Usciva la mattina presto, tornava tardi la sera. Quanti pianti alla ricerca del padre. Così andammo avanti per un anno, il tempo in cui rimanemmo nella fattoria, finché un giorno non lo vedemmo più». Elsa e le sue sorelle parlavano solo italiano, non erano in grado di gestire la loro vita, erano ancora molto giovani. «All’inizio avevamo l’aiuto della famiglia, ma dovevamo trovare la nostra strada, e quindi andammo a vivere presso delle famiglie sconosciute per aiutare nelle faccende domestiche e avere un posto».

Fu vivendo a Tangará con la famiglia Tomazzi, discendente di italiani, che Elsa conobbe André Colombo, suo futuro marito, di mestiere calzolaio. Con lui visse sessantadue anni ed ebbe cinque figli. Dopo vent’anni, un giorno Elsa ricevette un messaggio: le si diceva che un uomo era arrivato nel negozio in città, chiedendo di lei. «Cominciai subito a tremare, ma dissi ad André: “Andiamo a vedere.” Quando arrivammo gridai: “Padre! Siete tornato!” Lui mi abbracciò, pianse a più non posso. Lo invitai a casa mia, ma lui mi rispose: “Non ci vengo, nessuno ha il diritto di comandare le mie figlie”. Dopo qualche giorno venne di nuovo a trovarci e rimase per un po’ di tempo a casa».

«Quando sollevai gli occhi e vidi che era Emilio, quasi impazzii dall’emozione».

Giovanni era già vecchio, i capelli bianchi, aveva settantasette anni. Parlava sempre di quello che era successo. Aveva un umore difficile, usciva senza dire dove andava e quando sarebbe tornato. Rimase con i figli per un po’, fino a quando non si seppe più niente di lui. A quel tempo i trasporti e le comunicazioni erano difficili. Emilio negli anni cercò le sue sorelle, e dopo trent’anni incontrò Elsa. Ricordava lei: «Quando sollevai gli occhi e vidi che era Emilio, quasi impazzii dall’emozione». Dopo questo incontro, i fratelli cominciarono a frequentarsi più spesso. Per Elsa la famiglia era il bene più prezioso. Il marito, i figli, gli amici, lavorare a maglia per passare il tempo, non voleva nient’altro.

Così Elsa continuò a vivere con semplicità e saggezza. «Ho affrontato la vita, ho imparato a vivere bene con quello che avevo. Ho trovato un modo per dimenticare, lasciarmi la tristezza alle spalle, guardare avanti pensando sempre al meglio». È deceduta a novantasei anni, ancora lucida.

Sua nipote, Luz Marina Colombo Gewehr – Maceio, Alagoas (Brasile)

La zia Adele

Adele Isotton, ottava figlia dell’ex combattente e sergente maggiore Giovanni Battista e di Donada Caterina, nacque a Mel il 27 settembre 1919, dieci mesi dopo la fine della Grande Guerra. Nel dicembre del 1934, all’età di quindici anni, lasciò il Castello di Zumelle e partì con la famiglia, composta da tredici persone. La loro destinazione era Borgo Hermada, l’azienda agraria più a sud dell’Agro Pontino Romano, dove al padre e ai fratelli venne assegnato il podere 1846 dall’O.N.C., l’Opera Nazionale Combattenti.

Dieci mesi dopo, su richiesta del fratello maggiore Giacomo, alla famiglia venne concesso anche il podere 1843, nel quale Adele si trasferì assieme a Giacomo, capo famiglia e conduttore, e a Pietro, Mario e Marcello, il fratellino più piccolo, deceduto nel 1940, a soli sedici anni, per malattia.

Adele aveva indole buona e da essa traeva incredibilmente la sua ragione di forza e di coraggio. Più che discutere, amava ascoltare gli altri. Era dotata di grande temperamento e duttilità sul lavoro. Emanava tranquillità e dolcezza, caratteristiche tipiche delle donne provenienti dalle montagne venete, e questo suo modo di essere le consentiva di svolgere con praticità i lavori domestici quotidiani e di portare il suo contributo in campagna alla pari di un uomo.

Alle esercitazioni paramilitari delle giovani italiane non mancava mai. Le manovre, promosse dal regime fascista, si svolgevano settimanalmente nel campo sportivo di Borgo Hermada e in queste esercitazioni Adele preferiva vestire abiti maschili, più adatti al suo carattere. Probabilmente, non avrebbe rifiutato nemmeno di andare a combattere come un vero soldato.

Adele Isotton

In piena guerra, nel 1943, con gli Alleati che avanzavano incontrastati dal sud Italia verso Roma, il 4 settembre alle ore 16:00 quaranta fortezze volanti americane bombardarono a tappeto la città di Terracina. Era una bella giornata che ormai volgeva al tramonto. Molti contadini avevano terminato di raccogliere nelle vigne i grappoli d’uva moscato e, caricati i cesti pieni sui carretti, li trasportavano alla stazione ferroviaria da dove venivano spediti al nord per arrivare nei mercati oltre frontiera. Lungo la via i grappoli dorati lasciavano una delicata scia aromatica e tanta gente per strada osservava questo rituale che si svolgeva ogni anno al tempo della vendemmia. Troppo tardi si accorsero dell’improvvisa incursione degli aerei americani e molti furono colpiti dalle bombe e dalle mitragliatrici.

Immaginate un soldato tedesco con elmo, gambali e mitraglietta portato sulla canna di una bici da una ragazza!

Fu il primo bombardamento subìto da Terracina. Dal podere 1843 si udirono distintamente l’eco delle bombe e il frastuono delle incursioni aeree, così Adele, con coraggio e audacia, indossata la divisa paramilitare – berretto, camicia e pantaloni – inforcò la bicicletta e corse in città, ansiosa di vedere cosa era successo e di prestare aiuto. Sul ponte del fiume Badino venne fermata da un giovane militare tedesco del comando locale che le intimò di consegnargli il mezzo per recarsi a sua volta in città. Con le “dovute maniere” lei lo costrinse invece a sedersi sulla canna e riprese a pedalare con maggior vigore, come se niente fosse. Immaginate un soldato tedesco con elmo, gambali e mitraglietta portato sulla canna di una bici da una ragazza!

Quello che apparve ai loro occhi fu indicibile, tale era la devastazione lungo la strada che dall’Appia Antica portava alla stazione ferroviaria. Adele si prestò in tutti modi aiutando i soccorritori a caricare i feriti sui carretti per condurli all’ospedale. Quella sera, sul tardi, quando tornò a casa esausta, i suoi famigliari a stento la riconobbero.
Con l’acuirsi delle incursioni aeree in città e lungo il litorale di Terracina, iniziò lo sfollamento degli abitanti verso i poderi, un’evacuazione forzata che dopo l’8 settembre 1943 divenne la premessa delle rappresaglie tedesche contro la popolazione italiana.

Gli anziani genitori, Giovanni Battista e Caterina, rimasti soli a condurre i lavori nel vecchio podere, chiesero ad Adele di trasferirsi da loro, poiché i fratelli erano impegnati sul fronte di guerra e Celestina, moglie di Rodolfo, era tornata a Mel dai parenti con i figli, di cui uno in arrivo. Così Adele, dopo circa nove anni, nell’estate del 1944 si ricongiunse con il babbo e la mamma bisognosi di aiuto e di compagnia. A guerra finita, nel 1948, all’età di ventinove anni, si sposò con Angelo Toso, del podere 1845, proveniente da Lusia di Rovigo. Dal matrimonio nacquero cinque figli: Iole nel 1949, Anna nel 1950, Gisella nel 1952, Luigino nel 1954 (purtroppo deceduto il 7 ottobre del 1958 in seguito al calcio di un cavallo) e Luigina nel 1959. L’anno successivo alla nascita di Luigina, non trovando riparo dalle brutte evenienze che li tormentava, con tanti figli piccoli da sfamare e il lavoro che non c’era, la famiglia Toso-Isotton decise di emigrare nel sud della Francia, a Bollène, adattandosi, marito e moglie, a ogni sorta di occupazione.

Rimase solo il tempo necessario a riprendere fiato e poi via di nuovo, questa volta con le ragazze in grado di lavorare e desiderose di tentare altrove la fortuna.

Nel 1962 Angelo rimase vittima di un incidente sul lavoro: mentre svolgeva mansioni di carpentiere venne colpito alla testa da un mattone caduto accidentalmente da un’impalcatura e morì qualche giorno dopo. Adele, con le figlie tutte minorenni, fu costretta a rientrare in Italia, dove fu accolta in casa della vecchia madre Caterina. Rimase solo il tempo necessario a riprendere fiato e poi via di nuovo, questa volta con le ragazze in grado di lavorare e desiderose di tentare altrove la fortuna. La destinazione fu Milano. Qui finalmente trovarono subito sistemazione, la tranquillità economica e la serenità che avevano lungamente desiderato. La grande metropoli milanese offriva infatti agli operai che piovevano da tutte le parti d’Italia molte opportunità di lavoro. Il resto fu una storia lieta per Adele e le figlie. Oggi Adele, mancata il 30 giugno del 2006, riposa la pace dei giusti accanto al marito, nel cimitero di Dugnano.

Lucia Isotton

Martina Crepaz. Emigrare è sinonimo di crescita, scoperta e conoscimento

Martina Crepaz

Sempre di più si parla di mobilità giovanile, più che di emigrazione. Ed è proprio quello che stanno vivendo diversi ragazzi e ragazze della community di Bellunoradici.net. Un esempio concreto è quello di Martina Crepaz: una laurea in economia in tasca, un’esperienza decennale per una multinazionale in Svezia e adesso… nuove valigie e nuova vita in Spagna.

Perché hai deciso di trasferirti da un Paese del Nord Europa a uno del Sud Europa?
Già da tanto tempo mi ero resa conto che i Paesi nordici offrono molto a livello economico, ma poco a livello sociale e personale.
Avevo bisogno di un cambio. Ho preso un periodo sabbatico dal lavoro e ho iniziato a viaggiare alla riscoperta di me stessa. Questo viaggio mi ha portato più volte in Spagna, inaspettatamente e senza pianificarlo. Ed è stato proprio durante uno di questi viaggi, durante il cammino di Santiago, che mi sono resa conto che in Svezia ero diventata una persona diversa in cui non mi riconoscevo. Durante gli 800 km che portano i pellegrini da Saint Jean Pied de Port a Santiago ho riscoperto una Martina allegra, entusiasta e leggera che avevo abbandonato poco a poco negli anni. Mi sono chiesta se fosse l’aria spagnola a far uscire questa parte di me dimenticata, ma ancora ben presente.
Ho così deciso di fare una lunga vacanza durante l’estate a Malaga, mi sono innamorata della città e soprattutto della sua gente… e senza pianificarlo, né desiderarlo, lì ho deciso di rimanere alla fine della vacanza… un mese in piú e poi un altro… che si sono trasformati in quasi due anni.
Non ho deciso di trasferirmi. È stata la spontaneità, l’allegria e la spensieratezza di questo Paese che mi ha invitato e rapito.

Qual è stato il primo impatto?
Primo impatto positivo. Improvvisamente sconosciuti mi parlavano. Erano anni che non mi succedeva di avere piacevoli chiacchierate alla fermata dell’autobus, o facendo la coda al supermercato. L’introversione, la chiusura e la riservatezza dei Paesi nordici erano diventati la normalità… e ora, d’impatto, mi ritrovo circondata di energia positiva, risate e voglia di vivere.
Chiaro non tutto è roseo. La burocrazia funziona a singhiozzo, la gente non è puntuale, i processi sono più lenti e complessi, i salari molto più bassi – soprattutto comparati al costo della vita -, ma non importa. Mi sono accorta che le cose importanti per me erano altre. Avevo voglia di sentirmi spensierata, di ridere se mi andava di ridere, di parlare con chiunque, di sentirmi viva. E la Spagna mi stava offrendo tutti questi stimoli a livello umano, che mancavano nel freddo nord dove sulla carta avevo tutto: un ottimo lavoro, una carriera in crescita, un buon salario, una casa, tecnologia d’avanguardia, trasporti pubblici efficienti 24 ore su 24, sette giorni su sette. Eppure tutto questo non mi rendeva felice.

Come vedi la Spagna? Offre opportunità per i giovani europei?
La Spagna è in difficoltà come l’Italia dal punto di vista economico, ma trovo che stia facendo dei grandi sforzi per migliorare. 
Mi ha sorpreso trovare un Paese molto pulito, organizzato e proiettato al futuro rispetto a quello che pensavo.
Il tasso di disoccupazione attualmente è al 13,78%, rispetto al 9,8% dell’italia. La Spagna è il Paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile (di età inferiore ai 25 anni) nell’intera zona euro. Non è semplice, soprattutto al sud: un giovane su tre che vuole lavorare non riesce a trovare un lavoro. Se la tendenza continua, il mercato del lavoro spagnolo si affermerà come il meno attraente per i giovani di età inferiore ai 25 anni. La crescita economica, che è già entrata in una fase di decelerazione, ha ridotto il tasso di disoccupazione giovanile negli anni peggiori della crisi, quando era superiore al 50%. Tuttavia, questi tassi di disoccupazione sono ancora superiori del 50% rispetto a prima dello scoppio della crisi. Come altri Paesi in Europa, anche il governo spagnolo ha attivato vari programmi per aiutare i giovani, promuovendo un piano di stimolo economico a sostegno di imprenditori e giovani per aumentare gradualmente la popolazione attiva nel Paese.

Adesso cosa stai facendo?
Inizialmente non è stato facile trovare lavoro, ma non mi sono scoraggiata. Con tanta energia ho ricominciato da zero, lavorando per sei mesi come cameriera in una pizzeria italiana.
Poi ho lavorato in una start up spagnola per altri sei mesi e ora ho fatto un salto… nel buio: stanca del classico lavoro 9-18 ho deciso di aprire partita IVA, mettermi in proprio e selezionare i miei clienti e soprattutto assicurarmi la flessibilità necessaria per prendermi cura del mio corpo e della mia salute. Le cose più importanti.
Da quando vivo in Spagna ho inziato a correre, prima dieci km, poi mezze maratone e infine, lo scorso dicembre, una maratona. Per allenarsi ci vuole molto tempo e il lavoro che ho ora mi permette non solo di lavorare su progetti che mi appassionano per davvero, ma anche di fare sport e portare avanti altre iniziative che potrebbero presto trasformarsi nel lavoro dei miei sogni

Un consiglio per un giovane bellunese in procinto di emigrare.
Non avere paura di provare, sbagliare, cadere, rialzarsi e riprovare. Nessuno conosce la formula magica, ma tutti conoscono il proprio corpo. Se ascoltato, il nostro corpo ci sa sempre dire se stiamo prendendo le decisioni giuste o sbagliate. Che poi di decisioni sbagliate non ce ne sono. Qualsiasi esperienza ci fa crescere, l’importante è trovare sempre il tempo per fermarsi, riflettere e imparare dal vissuto.
Emigrare è sinonimo di crescita, scoperta e conoscimento.
Improvvisamente la diversità non sarà più vista come un problema o un limite, ma un grandissimo valore aggiunto a livello umano, sociale ed economico. Ci si rende conto che tutti siamo uguali, che il mondo è uno solo e tutti siamo cittadini dello stesso mondo.
«La terra è un solo paese e l’umanità i suoi cittadini» diceva Bahá’u’lláh giá a metà del 1800.
Emigrare… un biglietto di sola andata per il futuro e, indipendentemente da tutto, un futuro più ricco e brillante, grazie alle esperienze che verranno vissute. Comprare quel biglietto non per cercare un lavoro, o un lavoro migliore, o per fuggire ai problemi… ma un biglietto comprato con la voglia di affrontare un percorso personale di crescita. Certo, non è una decisione semplice: nuove usanze, una nuova cultura, una nuova lingua, nuovi amici da trovare e tanta burocrazia. Una scelta che potrebbe scoraggiare anche i più volenterosi. Ma perché rinunciare a una grande opportunità solo per dei piccoli ostacoli, tutti ampiamente superabili?
Forza, non ci pensare due volte, corri verso il tuo futuro.

Il santaro Toni Triches

Furono molte le famiglie Triches di origine bellunese a partire alla volta del Brasile: tra loro anche Antonio, classe 1866, che divenne famoso in terra gaucha come scultore di arte sacra. Figlio primogenito di Vittore e Anna Mara Roldo, egli nacque a Sospirolo, ma prima di partire per il Sud America si trasferì più volte con la famiglia tra la Sinistra e la Destra Piave; a quattro anni subì la perdita del padre e dopo qualche tempo la madre si risposò con Giacomo Triches e allargò la famiglia con altri quattro figli.

Partirono tutti per Alfredo Chaves, nel Rio Grande do Sul, nel dicembre 1891, imbarcandosi a Genova sul vapore Orione. Nella città riograndese, oggi chiamata Veranópolis, Antonio si sposò due volte: la prima con Maria Ganzer, che morì nel 1909, e la seconda con Rosa Barratieri, che gli diede tre figli: Genarino Gentile, Adão Candido ed Eva Maria. Antonio morì a soli cinquantaquattro anni, il 22 giugno 1920. Nonostante la sua breve vita, Antonio Triches lasciò una vasta testimonianza della sua arte: sono moltissime infatti le chiese di Veranópolis e dei comuni limitrofi che possiedono ancora oggi crocifissi e statue fatte da questo santaro.

Con questa parola, che fa parte del taliàn ed è tramutata dal portoghese santeiro, si intende uno scultore di santi amatoriale, dotato artisticamente, ma senza una grande conoscenza teorica. I santari producevano perlopiù lavori spontanei e su commissione per l’abbellimento di capitelli e chiese; le facce dei santi non differivano molto tra di loro, ma erano gli indumenti ed altre caratteristiche che determinavano la loro identità: Sant’Antonio veniva raffigurato con il maialino, Santa Caterina veniva abbinata alla ruota di un mulino, solo per citare due esempi.

Antonio Triches abitava in una casetta di legno poco distante dal seminario di Alfredo Chaves. Era piuttosto basso di statura e tarchiato ed era solito portare gli occhiali appoggiati sulla punta del naso. In tasca aveva sempre la scatolina del tabacco e vicino a sé una bottiglietta di grappa. Era solito mettersi a lavorare davanti alla sua casa, al sole e senza alcun copricapo. Come tavola di lavoro aveva il tronco di una grossa pianta. Nel cortile della sua casetta aveva sempre tronchi e pezzi di legno, che poi squadrava con l’accetta. Lavorava soprattutto legno di cedro. Aveva il banco pieno di seghetti, scalpelli, trapani, chiodi, brocchette, martelli. Sui ripiani aveva colori, acquaragia, olio di lino e pennelli di tutti i formati e grandezze. Aveva poi carte, quaderni, libri di figure di madonne, santi e crocifissi, che gli servivano per ispirarsi.

Si dice che, una volta terminata l’opera, lui l’abbia guardata con stupore dicendo: «Óstia, go fato el diàolo pi bel che’l santo».

Dietro la sua casa aveva il pollaio e quando erano le dieci del mattino cercava un uovo fresco e lo beveva crudo, accompagnato da qualche sorso di acquavite. Venivano da lui anche da località lontane e gli chiedevano la statua di questo o quell’altro santo. Fu Toni Triches a scolpire la statua di San Giorgio che sconfigge il drago, presente nell’omonima cappella di Veranópolis. Questa costruzione, eretta in legno dai coloni già intorno al 1893, fu ristrutturata in pietra nel 1907, dopo un anno di miseria e fame dovute a un’invasione di cavallette.
Si dice che, una volta terminata l’opera, lui l’abbia guardata con stupore dicendo: «Óstia, go fato el diàolo pi bel che’l santo».

La cappella di San Giorgio, a Veranópolis, che custodisce la statua scolpita da Triches.

La chiesetta, che vede la presenza di altre statue in cedro scolpite da Triches, è tuttora un importante punto di riferimento della fede e della lotta degli emigranti italiani e dei loro discendenti. Una sera, durante un brutto temporale, Triches andò a bere un paio di bicchieri nell’osteria di Giuseppina migrante, ad Alfredo Chaves. Stava giocando a briscola coi suoi compagni, quando cadde a terra, vittima probabilmente di un infarto. Cercarono di rianimarlo, ma non ci fu niente da fare.

Aveva già preparato la sua tomba e aveva scolpito un angelo di cedro, alto circa ottanta centimetri, chinato su un ginocchio solo, col braccio dritto e il dito che indica il cielo; sull’altra mano, un libro aperto con la scritta RIP. La statua rimase sulla tomba del santaro bellunese Antonio Triches una cinquantina d’anni.

Luisa Carniel

Alessandro Piol. Da Belluno a Madrid, andata e… ritorno?

Continua a crescere la community di Bellunoradici.net, il socialnetwork dell’Abm dedicato ai bellunesi residenti all’estero. Questa è la storia di Alessandro Piol. Non un cervello in fuga. Piuttosto, un cervello in esplorazione. Alla ricerca di esperienze e competenze che un giorno – perché no? – potrebbero essere messe a frutto nel nostro Paese. Alessandro Piol, 28 anni, laureato in Bioingegneria all’Università di Padova, all’opzione rientro lascia aperto più di uno spiraglio. Perché se al momento ha un obiettivo ben chiaro – completare il dottorato in Scienze e Tecnologie Biomediche all’Universidad Carlos III di Madrid – per il futuro nulla è ancora deciso. Si vedrà. Quel che è certo è che i ponti con l’Italia non sono tagliati e che le porte a un ritorno sono tutt’altro che chiuse. «Molto dipenderà dalle occasioni che avrò qui, ma certo non escludo di rientrare. L’Italia e Belluno mi mancano. E poi è proprio vero quello che si dice spesso: più stai lontano e più ti rendi conto del valore di ciò che hai a casa».

Alessandro Piol

Intanto, però, sei a Madrid. Da quanto tempo ti sei trasferito?
Sono arrivato nell’agosto del 2018, dopo aver concluso gli studi a Padova.

Perché hai scelto di partire?
Due cose sono state decisive: la prima è aver fatto l’Erasmus in Portogallo tra il 2015 e il 2016. Da lì è nata la voglia di conoscere nuove realtà, nuove persone e nuove culture. La seconda sono state le parole della mia relatrice una volta laureatomi.

Ossia?
Mi ha consigliato di provare un’esperienza all’estero. «Se non lo fai ora – mi ha detto – non lo fai più, perché se trovi lavoro qui poi diventa difficile lasciarlo». Così ho deciso di partire. Madrid mi piaceva, essendoci già stato due o tre volte da turista, in più conoscevo delle persone che avrebbero potuto darmi una mano a integrarmi. E poi, in generale, mi piace la cultura spagnola.

Come è stato l’impatto con la nuova realtà?
Sono arrivato in un periodo in cui tradizionalmente la città è vuota. Fortunatamente ho avuto il tempo di sbrigare tutte le pratiche per i documenti e di trovare casa, cercando anche di non morire di caldo, che qui è davvero incredibile. Dopodiché, devo dire che ho trovato i coinquilini giusti, pian piano ho iniziato a farmi degli amici e quindi l’impatto non è stato difficile, anzi. Anche perché la cultura e lo stile di vita in Spagna sono simili a quelli italiani.

E in ambito accademico?
Da questo punto di vista, una cosa che mi ha sorpreso, e colpito positivamente, è il rapporto amichevole tra studenti e docenti. Un rapporto sempre rispettoso, ma molto meno formale. Per fare un esempio, qui è del tutto normale che gli studenti chiamino per nome i professori o che abbiano i loro numeri di telefono. La relazione è più diretta e credo che questo aiuti gli allievi a sentirsi a proprio agio.

Com’è vivere a Madrid?
La città è grande, molto bella e non ci si annoia mai. Mi piace.

Aspetti negativi?
Qui la gente va e viene e questo rende difficile creare dei rapporti stabili. Di sicuro non posso avere il gruppo di amici che avevo, e che ho ancora, a Castion, dove sono nato e cresciuto.

Di Belluno cosa ti manca?
A parte ovviamente famiglia e amici, la cosa che più mi manca è avere la natura a portata di mano. Qui, non avendo un mio mezzo, ho molte più difficoltà a spostarmi per fare una gita fuori dalla città o un’escursione in montagna. Certo, per trovare del verde posso andare al parco, ma non è affatto la stessa cosa. Ecco perché quando torno a casa resto sempre impressionato dalle nostre montagne, dalle ricchezze di Belluno, ma anche della vicina Venezia, una città che stando qui, a contatto con persone che la amano, mi sono reso conto di non aver visitato abbastanza.
Che consiglio daresti ai giovani più giovani di te?
Fare l’Erasmus. Un’esperienza fondamentale per far nascere amicizie, ma soprattutto per capire com’è vivere fuori dall’Italia. A tornare indietro si fa sempre in tempo, ma prima bisogna provare a uscire dal proprio contesto abituale.

E tu tornerai indietro?
Al momento non lo so. Quello che so è che a Belluno avrò sempre un appoggio su cui contare. E che quando torno mi fa sempre bene.