Archivio di Dicembre, 2021

I quattro di Zermatt

La storia dell’emigrazione italiana è purtroppo anche storia di tragedie sul lavoro. Famosa quella di Marcinelle, o quella di Mattmark, con quest’ultima che ha coinvolto pesantemente la provincia di Belluno. Anche il nostro territorio, infatti, segnato nei decenni da un massiccio flusso di partenze, ha visto tanti suoi figli perdere la vita all’estero. Un episodio poco noto e quasi dimenticato è quello avvenuto a Zermatt, nel Canton Vallese, il 14 maggio del 1963. Quel giorno, sorpresi dai fumi di monossido di carbonio, persero la vita quattro bellunesi, tutti molto giovani. Il più vecchio, infatti, aveva ventisei anni.

A riportare alla luce quell’indicente sono i fratelli Alberto e Mario Uliana, originari di Visome e anch’essi emigrati in terra elvetica, dove Mario – socio della Famiglia Bellunese di Lugano – ancora risiede. Nel cantiere teatro del sinistro, fino a un mese prima c’era anche lui, appena diciassettenne. Lì Mario e Alberto persero il fratello Alcide, morto da eroe nel tentativo di salvare i suoi compagni di lavoro. Fu proprio Alcide a consigliare a Mario di lasciare quel posto e a trovargliene uno a Zurigo. Alberto, invece, era occupato a St. Moritz, nei Grigioni. Nei Grigioni (a Ilanz) c’era anche il quarto fratello, Gino, mancato a Visome nel 1996.

«Io ero ancora minorenne – testimonia Mario tornando con la mente a quell’epoca – e mio fratello era il mio tutore. Era stato lui a firmare i documenti per farmi entrare in Svizzera e sempre lui mi aveva suggerito di cercare impiego da un’altra parte». 

Alcide Uliana

Non si sa se Alcide avesse intuito i pericoli che un ragazzo poteva correre lavorando in quel posto. Fatto sta che il 14 maggio avvenne la tragedia. È ancora Mario a raccontare: «Stavano costruendo una galleria di rimonta per una condotta che portava l’acqua dalla diga della Grande Dixance alle turbine di una centrale elettrica sotterranea. La squadra di mio fratello, composta da sette persone, faceva il turno di notte». Giunto sul posto, il gruppo si accorse che le cose non andavano come al solito, ma non ci dette particolare peso.

«C’era una colonna che bloccava il materiale delle esplosioni e un sistema di ventilazione che faceva fuoriuscire il fumo – spiegano Alberto e Mario -. Salendo, non videro il fumo, ma pensarono che la sciolta precedente avesse caricato di più e completato la foratura. D’altra parte, mancavano pochi metri, tanto che nella mensa era già pronta la festa per il raggiungimento dell’obiettivo.

Così entrarono e appena i primi varcarono la porticina iniziarono a cadere a terra. Il materiale degli spari aveva bloccato il tubo di areazione e il gas era intrappolato dietro la barriera di protezione». Fu allora che Alcide, rimasto un po’ più indietro, tentò il tutto per tutto per salvare i suoi compagni e amici.

«Riuscì a tirarne fuori tre. Poi cadde anche lui. Quando i superstiti ripresero conoscenza e allertarono i soccorsi era ormai troppo tardi. Alcide lo trovarono metà dentro e metà fuori». Gli altri a perdere la vita furono Sergio Bianchet, Giancarlo Cesa e Luigi Da Rold. I sopravvissuti, grazie ad Alcide, furono Angelo De Pellegrin, Giuseppe Borghetti e Bruno Gherardi, come riportato dai quotidiani svizzeri dell’epoca.

«Non dimenticherò mai il funerale – spiega ancora Mario – era il 18 maggio, il giorno del mio compleanno». Di lì a qualche mese la provincia di Belluno sarebbe stata funestata da un’altra sciagura, quella del Vajont. E poi ancora dal disastro di Mattmark. Ancora vittime. Ancora uomini caduti mentre svolgevano, lontano da casa, il proprio mestiere.

Visome, 18 maggio 1963. Due momenti del funerale di Alcide Uliana.
Immagini gentilmente concesse da Alberto Uliana

La notte di Natale del 1913

Era la notte di Natale del 1913. A Calumet, un villaggio nello Stato del Michigan, la comunità italiana si era trovata per una festa in allegria. C’erano uomini – quasi tutti minatori nelle locali miniere di rame -, donne e soprattutto bambini. Per i bambini, si sa, il Natale è sempre un momento magico, atteso con ansia.

Insomma, le famiglie di emigrati si erano date appuntamento all’Italian Hall, la sede della locale Società di Mutua Beneficenza Italiana. Un’occasione perfetta per stare in compagnia, santificare le feste e sciogliere un po’ le fatiche del duro lavoro e le tensioni di quei giorni. I minatori, infatti, che da diversi mesi non percepivano il salario, avevano scioperato per far sentire la propria voce. Quella festa era proprio ciò che ci voleva.

Il palazzo della Società di Mutua Beneficenza Italiana di Calumet.

Una festa povera, per gente umile: dolci, cesti di frutta secca, qualche musicista. Ma per loro, ultimi fra gli ultimi in quell’America in cui era così difficile integrarsi, era un modo per sentirsi a casa. Si ballava, si chiacchierava, i ragazzini giocavano spensierati mentre gli adulti dimenticavano per qualche ora la nostalgia del paese lontano e i sacrifici che la quotidianità da stranieri imponeva come una sentenza.

Tutto procedeva per il meglio, fino a quando si udì gridare: «Al fuoco, al fuoco!». In un attimo si scatenò il panico. Tutti i presenti tentarono di darsi alla fuga. Tentarono, ma senza riuscirsi: qualcuno all’esterno aveva sprangato le porte. Le fiamme non c’erano per davvero, era solo uno scherzo di pessimo gusto congegnato dall’industriale del rame Charles Moyer, il presidente della Western Federation of Miners.

Moyer aveva il dente avvelenato con gli italiani per via del danno economico che il loro sciopero stava arrecando ai suoi affari. E così, per fargliela pagare, aveva assoldato dei buontemponi, che privi di qualsiasi scrupolo avevano messo in atto quel perfido piano. Provate a immaginare una stanza stipata di gente festante che all’improvviso si sente in pericolo di morte. Tutti scappano, ma le uscite sono bloccate. Il disastro è inevitabile.

E infatti, nel parapiglia persero la vita settantatré innocenti, in gran parte bambini. Ecco come la notte di Natale del 1913 a Calumet, una notte di festa e allegria, finì in tragedia. Un triste pagina della storia dell’emigrazione italiana ricordata anche dal noto cantautore Woody Guthrie, che per denunciare l’accaduto fece ciò che meglio sapeva fare, scrisse una canzone intitolata “1913 Massacre“.

Quella notte «Il pianoforte suonò un lento motivo funebre, e la città era illuminata da una fredda luna di Natale. I genitori piangevano e i minatori gemevano: “Guarda cosa ha fatto l’avidità di denaro”».

Dalla falegnameria alla gelateria

Le storie di emigranti si snodano sempre tra appagamenti e nostalgia, valigie colme di speranza ed emblema di sacrificio. Giunti a una certa età si è portati a tracciare dei bilanci del passato, intrecciando emozioni e stati d’animo che rendono vivo il ricordo dei lunghi anni di emigrazione. La mia è una storia come tante, comune a quella di molti altri emigranti.

Sono nato a Fornesighe di Zoldo il 22 dicembre del 1930. Ho frequentato a Forno solo le elementari, perché a quei tempi, per le famiglie modeste, era impossibile mandare i figli a scuole di grado superiore. Mio padre Pietro faceva il falegname e così nell’età adolescenziale l’ho seguito nella sua attività. A Sondrio avevo uno zio e per due anni sono rimasto con lui a imparare il mestiere. Dopo questa parentesi mi sono trasferito a Firenze, impiegato nella costruzione di un ponte sull’Arno, in località Fucecchio. Ero forse il più giovane, ma essendo pratico nell’uso dei macchinari, il padrone mi consegnò le chiavi della falegnameria. Ritornato a Zoldo ho proseguito nell’attività di falegname.

Nel 1957 ho portato all’altare mia moglie Franca e, in seguito, la nostra unione è stata allietata dalla nascita di Mara, Pierina, Giovanni e Patrizia. Continuando a svolgere l’attività di falegname a Zoldo, mi sono reso conto che il lavoro era tanto, ma il profitto purtroppo non soddisfaceva le esigenze della famiglia. Così, dopo un paio d’anni, io e mia moglie abbiamo deciso di seguire la via di molti nostri compaesani che avevano avviato l’attività di gelatieri. Ho trovato un ambiente accogliente nella cittadina di Gifhorn, nella Bassa Sassonia, dove sono rimasto fino a pochi anni fa, quando ho lasciato l’attività a mio figlio.

… mi sono sentito appagato, pur provando nostalgia verso gli amici e i parenti lasciati nella natìa e suggestiva Fornesighe.

Non ho trovato difficoltà nell’inserirmi nella società locale, poiché i tedeschi apprezzavano il nostro gelato. Sono così cominciate a fiorire amicizie, si sono stretti i rapporti coi clienti. In poche parole, mi sono sentito appagato, pur provando nostalgia verso gli amici e i parenti lasciati nella natìa e suggestiva Fornesighe. Ho cercato di svolgere il mio lavoro con onestà, disciplina e professionalità, ho conosciuto una cultura diversa, senza mai dimenticare le mie origini, le tradizioni locali, gli insegnamenti delle vecchie generazioni. Qualche anno fa sono stato richiamato a Gifhorn per ricevere un riconoscimento da parte delle autorità locali, come segno di apprezzamento per quanto fatto in quella città. È stata una giornata meravigliosa, ricca di soddisfazione e di pathos, nella quale le corde delle emozioni hanno vibrato a lungo. La vita è fatta di innumerevoli parentesi, di traguardi raggiunti e di imprevisti, ma sempre bisogna superare i momenti delicati con la fede nel cuore.

Nel 2007 abbiamo festeggiato le nozze d’oro, un giorno memorabile in cui abbiamo ringraziato il Signore per tutto ciò che ci ha donato. Ora, da nonni, accudiamo i nostri nipoti quando i loro genitori sono all’estero per la stagione estiva. Ci sentiamo appagati e felici di poter aiutare ancora, di sentirci utili e uniti. Non ho abbandonato il mestiere del falegname e faccio lavoretti e oggetti, che magari poi regalo.

Ricordo le soddisfazioni avute, i momenti di felicità e anche quelli di dolore

Ma il profumo del legno mi attrae ancora, mi inebria e mi ricorda quel tempo ormai lontano. Dicevo che, a una certa età, si tirano le somme e, nel farlo, nulla del mio passato è offuscato dall’oblio. Ricordo le soddisfazioni avute, i momenti di felicità e anche quelli di dolore, come la ferita al cuore che ho provato con la prematura scomparsa di mia figlia Mara.

Ora vivo sereno con la mia coscienza, la mia vita è sempre stata dedicata al lavoro e alla famiglia. Questa è la mia storia, la storia semplice di un uomo, la storia di un emigrante.

Romano Giacomel

Fucecchio, 1957. Romano Giacomel al lavoro durante la costruzione del ponte sull’Arno.

Terra straniera… Quanta malinconia!

Sciacca, la mia città d’origine, si affaccia sul Mediterraneo come ultimo lembo d’Italia. Proprio lì, in quella terra piena di sole, sono nato il 1° aprile 1949. La mia famiglia era composta da otto maschi e una sola femmina. Cinque fratelli sono purtroppo mancati in tenera età, a causa di malattie per la cui cura all’epoca non esistevano ancora medicine. Mia madre era casalinga. Mio papà faceva il pescatore: lavorava per la Marineria di Sciacca. Lì si poteva pescare il famoso “pesce azzurro”, ovvero sardine e acciughe.

In giovane età lavoravo presso una fornace e seguivo a volte mio padre nelle uscite di pesca. Amavo la mia terra, fatta di gente umile e laboriosa. Mio padre, dotato di una voce dalla bellezza non comune, cantava volentieri, pur nella fatica del lavoro. Mi sembrava che nel suo canto rivolgesse preghiere al Signore, ringraziandolo di averlo fatto nascere in quell’ambiente ubertoso, ricco di fascino, abitato da gente umile e modesta.

Ero affascinato dal canto già da bambino e sin da allora venivo reclutato in occasione di sposalizi e feste. Un mio amico che lavorava in Germania mi fece sapere come in quel Paese ci fossero delle serie possibilità di lavoro, così come di tenere intrattenimenti musicali, dato che lì la canzone italiana era molto apprezzata. Era l’8 agosto del 1966 quando lasciai quella mia terra, che amavo tanto, ma che avrebbe potuto offrirmi solamente il mestiere di pescatore. Distaccarsi dai luoghi che ti hanno visto nascere diventa sempre un piccolo e intimo dramma. La valigia era pronta.

«Ma dove stai andando, Giovanni?» mi chiedevo. Arrivato al confine mi accorsi che piangevo.

Le onde di un mare increspato da un vento leggero sembravano portare un dolce canto sussurrato, che mi scendeva fin nel profondo dell’anima. Il profumo di zagara pareva farsi più intenso e le lacrime dei miei genitori erano come dolorose stilettate che ferivano il mio cuore. Il viaggio in treno fu lunghissimo. Guardavo continuamente dal finestrino. Scomparivano alla mia vista paesi su paesi e nella mia mente serpeggiavano mille pensieri: «Ma dove stai andando, Giovanni?» mi chiedevo. Arrivato al confine mi accorsi che piangevo.

Giunto a destinazione provai un senso di smarrimento, ma il mio amico mi trovò subito un posto di lavoro in una fabbrica metallurgica. Ben presto cominciai a conoscere circoli frequentati da italiani, accomunati dallo stesso destino. Sempre più spesso venivo chiamato a cantare canzoni nostalgiche che ricordavano la nostra Italia lontana. In principio cantavo in piccoli ritrovi, poi la mia fama si espanse e potei esibirmi nelle grandi piazze. La mia notorietà di emigrante si allargò e mi feci conoscere nelle città di Aschaffenburg, Francoforte, Würzburg. Ricevevo qualche compenso da aggiungere al mio stipendio e mi sentivo felice, perché potevo mandare qualche marco a sostegno della mia famiglia.

Nel 1969 venni invitato a Castrocaro, dove fra un migliaio di partecipanti, tra i quali figuravano i nomi di Michele e Rita Pavone, riuscii ad entrare nei dodici finalisti. Avevo già un’esperienza alle spalle, poiché nel 1964, alla festa degli sconosciuti a Reggio Calabria, condotta da Teddy Reno, riuscii a classificarmi al quarto posto. Quella manifestazione fu vinta da Dino, che sarebbe diventato poi un cantante di fama internazionale.

Il mio sole incominciò a risplendere quando incontrai sulla mia strada Maria Teresa Mosena, anch’essa emigrata.

In Germania la mia vita si divideva fra lavoro e canto. A volte provavo quella solitudine tipica di ogni emigrante quando si trova lontano. Ma il mio sole incominciò a risplendere quando incontrai sulla mia strada Maria Teresa Mosena, anch’essa emigrata. Lei era di Zoldo e ricordava i suoi monti che facevano da cornice alla borgata di Casal. Io ricordavo il mare che pareva accarezzare Sciacca. Una nostalgia in comune, lenita dal nostro amore. Ci sposammo a Forno di Zoldo nel 1972 e io continuai nel mio lavoro in fabbrica, lei in una sartoria, fino al momento del pensionamento. Il nostro amore fu completo con la nascita di due figlie.

Ma ciò che si ha nel cuore non si può abbandonare. Così continuai a cantare sempre per accontentare il pubblico, formato in gran parte da emigranti. Qualche anno fa venni chiamato persino a Miami Beach, a intrattenere gli invitati al matrimonio di un mio compaesano emigrato tanti anni prima negli Stati Uniti. Ora vivo tra Sciacca e Zoldo. Talvolta penso a quei giorni lontani della mia emigrazione, in special modo quando mi classificai secondo a un Festival in Germania nel 1976, per poi vincerlo l’anno seguente.

Ricordo sempre le fatiche di mio padre, che lavorava giorno e notte, l’amore di mia madre per la famiglia, gli amici emigranti incontrati nella mia vita. Non ho fatto del canto una professione. Tuttavia, mi sento onorato di aver allietato le serate dei miei connazionali in terra straniera, facendo conoscere quell’Italia che, attraverso le musica, viene sempre apprezzata e stimata. “Terra straniera… Quanta malinconia!”*. Mi torna ora alla mente questa canzone e mi accorgo che una lacrima scende dai miei occhi.

Giovanni Soldano

*”Terra straniera”, canzone di Claudio Villa.

Il girovagare del perito minerario

Frequentai le scuole elementari a Voltago e dall’autunno del 1949 fino all’aprile del 1952 feci il caregheta, due anni a Busto Arsizio e uno a Brescia. A Busto Arsizio ebbi modo di assistere al primo concerto di quello che sarebbe diventato uno dei più grandi violinisti italiani: Uto Ughi. All’epoca aveva otto anni.

Nel giugno 1952, da privatista, feci l’esame di terza avviamento, a settembre sostenni l’esame di riparazione e fui promosso. Subito dopo sostenni anche l’esame integrativo e potei esser ammesso a frequentare la prima classe dell’Istituto Minerario*.

Quando il responsabile vide che provenivo dall’Istituto “Follador” di Agordo mi disse che potevo considerarmi assunto.

Il 10 luglio 1957 mi diplomai e cinque giorni più tardi incominciai a lavorare come capo fabbrica in una fornace per materiali refrattari a Schio, dove rimasi fino alla fine del 1960. Dopo il servizio militare nel 7° Alpini, avendo sempre avuto la passione di conoscere il mondo fuori dall’Italia, decisi di tentare con l’Agip. Mi recai alla sede di San Donato Milanese e mi presentai all’ufficio personale dicendo che ero stato da loro convocato – non era vero – per un’eventuale assunzione. Mostrai copia del diploma e quando il responsabile vide che provenivo dall’Istituto “Follador” di Agordo mi disse che i periti agordini erano richiesti dall’azienda e per quanto lo riguardava potevo considerarmi assunto.

Nel pomeriggio avevo già fatto la visita medica e il 1° febbraio 1961 ero a Gela, con la qualifica di geologo di cantiere. Fui aggregato a un impianto di perforazione che operava in provincia di Enna. Passò un anno e partii per la Libia, con un contratto biennale che prevedeva tre mesi di lavoro nel deserto alternati a venti giorni di riposo in Italia. Alla conclusione, altro contratto biennale in Nigeria: dieci mesi di lavoro e venti giorni in Italia. Nel giugno 1965 dovetti interrompere per motivi di salute: avevo la malaria.

Trascorsi qualche mese in Italia, poi tornai in Libia, ricoprendo vari incarichi, fino al’11 settembre 1971. Quel giorno mi fu comunicato che il governo libico aveva decretato nei miei confronti un ordine di espulsione. Mi concedevano quarantotto ore di tempo per andarmene.

Giovanni Rivis (a destra) assieme a due colleghi (il primo a sinistra di Taibon, quello al centro un milanese) nel deserto libico, 1962
Giovanni Rivis (a destra) assieme a due colleghi (il primo a sinistra di Taibon, quello al centro un milanese) nel deserto libico, 1962

Ripartii il giorno successivo. Rimasi in Italia per circa due anni, operando in diverse piattaforme nel Mediterraneo. Dopodiché ricominciai a fare la valigia: Indonesia, Congo, Gabon, Ghana, Somalia, Spagna, Costa D’Avorio, sempre come responsabile di perforazione. Mentre ero in Costa d’Avorio, l’Agip mi disse che ero stato richiesto dalla Texaco-Shell per andare a perforare un pozzo al largo dell’isola di Terranova, in 1600 metri di acqua. Era il 1979 e all’epoca nessuno aveva mai perforato pozzi in simili profondità, era un record mondiale. Accettai l’offerta, contento che un agordino fosse stato richiesto dagli americani per aiutarli in una cosa nella quale loro si erano sempre ritenuti dei maestri.

Il pozzo iniziò a fine aprile e terminò a fine settembre. Gli ultimi dodici anni di permanenza all’Agip li passai ancora in giro per il mondo: Grecia, Yemen, Tanzania, Egitto, Cina, Algeria, Libia, fino a quando mi ritirai nel 1994. Da lì in poi continuai come consulente, sempre in paesi stranieri, fino al 2012.

Giovanni Rivis

*La Scuola Mineraria di Agordo, fondata nel 1867 e divenuta poi Istituto Tecnico Minerario “Umberto Follador”.

Provincia di Enna, 1961. L’impianto di perforazione dell’Agip in cui lavorava Giovanni Rivis.