Archivio di Febbraio, 2022

A piedi sulle Alpi

Era da poco finita la guerra e le risorse in famiglia scarseggiavano. Mio padre aveva combattuto sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale e tra le due era stato in Eritrea. Nell’ultima era finito prigioniero in India e ritornato nel ’46. Dove stavo io non c’erano le condizioni per poter vivere. La soluzione sembrava apparentemente semplice, andare in Francia, dove c’era richiesta di lavoratori. Solo un problema: bisognava partire clandestini.

Io ero giovane e quindi sono partito da Lentiai, nel ’46. Ero assieme ad altri miei compaesani. Bisognava pagare quelli che ti accompagnavano, i passeurs, cinque mila lire. Arrivato a La Thuile, in una stazione piccola come quella di Busche, dovevi saltar giù. C’erano delle persone che ti aspettavano in un bar e poi ti caricavano su un camioncino aperto, ti portavano fin dove potevano e poi ti consegnavano ad altre due persone, altri passeurs. Prima di tutto li pagavi, poi da La Thuile ti portavano fino al San Bernardo. Erano già d’accordo con le guardie di frontiera che effettuavano i controlli sui sentieri. Intascati i soldi, i passeurs tornavano indietro e andavano a prendere altri gruppi.

Dovevi camminare senza nessuno che ti conduceva, perché ai passeurs interessavano i soldi…

Io sono partito con il primo gruppo. Era settembre e arrivati sul Piccolo San Bernardo c’era acqua e faceva freddo. Ero malvestito, avevo un paio di mocassini che venivano dall’India, me li aveva portati mio padre. Siamo partiti alla sera e siamo arrivati la sera dopo, sempre a piedi – ovviamente – camminando tutta la notte. Dovevi camminare senza nessuno che ti conduceva, perché ai passeurs interessavano i soldi, dopodiché tornavano indietro e cercavano di trovare altre persone che avevano necessità di attraversare il confine.

Una volta giunti a Borgo Saint-Maurice ci hanno mandato a un campo fatto di baracche, dove ci hanno fatto le visite mediche. Al campo è arrivato il padrone e c’è stato uno smistamento. Ti selezionavano in base al lavoro che avevi detto di saper fare. Io sono andato a Marsiglia, a quell’epoca stavano facendo i ponti sull’autostrada. Ho lavorato lì per un periodo e poi sono stato a lavorare su un’isola dove c’era un faro che era stato fatto saltare dai tedeschi durante il conflitto. Poi sono stato a Cavaillon, a costruire un hangar, fino a che ho dovuto tornare in Italia per fare il militare.

Il lavoro era molto duro e pesante, facevo le notti.

Nel ’52 mi sono trasferito a Le Locle, in Svizzera, a lavorare come falegname. Sono andato avanti per sei anni, poi c’è stato un periodo di crisi e allora sono rientrato e sono andato prima ad Arquata Scrivia e poi nelle acciaierie di Genova. Il lavoro era molto duro e pesante, facevo le notti. Da lì sono andato a Milano come falegname e ci sono rimasto per un po’ di tempo, poi sono ripartito per la Francia, da solo, mentre mia moglie è rimasta a Milano e mio figlio era a Lentiai, con i nonni.

Sono andato a finire a Bagnols-sur-Cèze, con un’impresa che si chiamava Mione. Appena ho avuto modo di pagarmi una casa adeguata, mi hanno raggiunto mia moglie e mio figlio. Con la Mione bisognava spostarsi spesso e quindi, per non far girare mio figlio da un cantiere all’altro, ho cambiato impresa e sono rimasto per ventisette anni a Marsiglia.

Nel maggio 2011 sono tornato a Lentiai, perché io e mia moglie volevamo stare in un posto più tranquillo.

Marcello Mione

Alpi, 1946: disperati in fila nella neve.
Nella fotografia, tratta da una rivista francese del 1946 e conservata al “Corriere della Sera”, un gruppo di emigranti italiani percorre in fila indiana un sentiero di alta montagna, già coperto dalla prima neve, per passare in Francia.
Fonte: www.orda.it

L’angelo degli emigranti

Correva da poco il primo ventennio del Novecento quando una coppia di bellunesi, da poco emigrati in Canada e residenti a Glace Bay, nell’isola di Cape Breton in Nuova Scozia, decise di mettere su famiglia. Erano entrambi di Fonzaso e portavano un cognome italianissimo: Bianchi, Antonio lui e Rina lei. Fu così che nel 1923 nacque la loro primogenita, Mary, la prima di altri cinque figli, un maschio e ben quattro femmine.

Nel 1936 tutta la famiglia rientrò in Italia, a Fonzaso, e pochi anni dopo visse il tragico evento della Seconda guerra mondiale. Mary era un’adolescente con una marcia in più, anche per il fatto di essere in possesso di un invidiabile bilinguismo, a quegli anni davvero insolito e raro. E fu proprio grazie alla lingua inglese, oltre che al suo fascino, che conobbe Albert “Lofty” Shipp, un soldato inglese di stanza in Italia durante il conflitto. Fu il classico colpo di fulmine. Si innamorarono e alla fine della guerra si sposarono e andarono ad abitare in Inghilterra.

Al momento dell’ingresso nel Regno Unito, Mary rischiò di essere scambiata per la Mata Hari del dopoguerra. Era in possesso di ben tre passaporti: canadese, italiano e inglese, che innocentemente esibì alla dogana. Si susseguirono telefonate alle varie ambasciate finché tutto venne a fatica chiarito e da quel momento Mary optò per l’uso esclusivo del passaporto canadese, così da evitare guai peggiori.

Mary Bianchi Shipp divenne a Niagara un punto di riferimento per tutti gli italiani

Nel 1954, Mary e suo marito decisero che il Canada, che lei conosceva benissimo, era un grande Paese, sicuramente il posto giusto anche per loro. Scelsero l’est, dove Mary aveva altri parenti. Si stabilirono a Niagara Falls, uno dei luoghi più suggestivi al mondo, da dove non si mossero più per il resto della loro vita. Mary Bianchi Shipp divenne a Niagara un punto di riferimento per tutti gli italiani che nel dopoguerra emigrarono in quella zona. La sua competenza a proposito di iter burocratici, fiscali e contabili la portò a occupare impieghi di prestigio, senza mai trascurare di impiegare parte del suo tempo alle problematiche relative all’immigrazione.

Fu sempre attenta e disponibile a trarre d’impaccio chi ne aveva bisogno, tanto da essere la storica fondatrice della Famiglia Bellunese di Niagara Falls. Ospitò regolarmente nella sua casa parenti lontani e amici pressoché sconosciuti, trattando tutti con garbo, gentilezza e disponibilità fuori dal comune.

Ancora a novantadue anni suonati amava sedersi di fronte al computer, navigare in internet, spedire email ad amici e parenti

L’improvvisa scomparsa di Lofty la mise a dura prova, ma anche in quell’occasione seppe reagire facendo appello alla sua grande forza. Ancora a novantadue anni suonati amava sedersi di fronte al computer, navigare in internet, spedire email ad amici e parenti, collegarsi con loro e soprattutto dialogare in dialetto bellunese o in italiano, sempre con una proprietà di linguaggio perfetta.

Quando si spense, l’8 ottobre 2015, le campane di Fonzaso suonarono per lei, rendendo doveroso omaggio a una figlia lontana che tenne alto il senso di appartenenza alle radici bellunesi. Nell’alto del cielo, lanciando lo sguardo oltre il campanile, verso il monte Avena, durante i rintocchi qualcuno giura di aver visto un sorriso tra le nuvole: di certo Mary era lì e ascoltava felice.

Mara Slongo

Mary Bianchi Shipp

Un Natale pieno di speranza – parte 2

Ecco la seconda parte della storia. La prima è disponibile QUI.

Al mattino, alle prime luci del sole, ecco la sveglia dei tropeiros, le guide locali che con i muli accompagnavano le famiglie al Campo dos Bugres. Qui, un “baracon” di legno grezzo, in mezzo alla foresta, accoglieva le famiglie destinate alle colonie. Oggetti e bambini più piccoli venivano posti su muli, in delle ceste. Così fu per Antonia, di cinque anni, e per Domenico, di dodici mesi. Andrea, di dodici anni, andava a piedi assieme agli adulti, avanti per una stradina accanto alla foresta vergine. Gli uomini portavano i machete per tagliare i rami, procedendo sui sassi, attraversando fiumi, sotto il sole e la pioggia, con il pericolo degli animali: serpenti, zanzare, scimmie, giaguari, tigri, finché, ecco spuntare il “baracon dei bugri a Caxias”. Era il 20 dicembre del 1876.

Mancava tutto, ma Dio aveva lasciato il pinhão

Qui molte famiglie, sopratutto donne e bambini, aspettavano il giorno di partenza per il lotto di terreno promesso. Gli uomini erano andati avanti prima, assieme alle autorità, per vedere i terreni. Dopo la decisione sul posto, si iniziava presto a tagliare il mato, abbattere la foresta, cercare di costruire una baracca primitiva di legno per proteggere la famiglia. I primi mesi in colonia erano stati molto difficili. Mancava tutto, ma Dio aveva lasciato il pinhão, il frutto dei pini presenti in abbondanza, e quello fu la salvezza di molti Italiani, assieme alla caccia e alla pesca.

Partiti dall’Italia in cinque, in meno di cinque mesi si erano ritrovati in tre.

Per i bambini, però, non c’era latte. Non resistevano alle malattie, alle puntare degli insetti, alla variazione climatica, alla stanchezza dei viaggi. Domenico, il bimbo di tredici mesi, era morto a gennaio nel 1877. La tristezza aveva invaso la famiglia. Di notte l’assaliva un pensiero: «Che cosa abbiamo fatto?». Ma ormai non era più possibile tornare indietro. Tre mesi più tardi, quello stesso anno, era morta anche Antonia, di cinque anni. Partiti dall’Italia in cinque, in meno di cinque mesi si erano ritrovati in tre.

A giugno, però, era nato Giovanni, primo figlio in terra brasiliana. Nel 1879 era arrivata Maria, mentre nel 1890 Andrea, il primogenito, si era sposato con Angela Zatti, italiana di Sospirolo. Nel 1901 era stata la volta di Maria, sposatasi con Domenico Silvestrin, e nel 1904 di Giovanni, unitosi ad Amalia Cassol, di San Gregorio. Giovanni e Amalia si trasferirono a Nova Prata, poi a Lagoa Vermelha e infine a Erechim, dove nacquero i loro dodici figli, i quali – imparato a camminare e a parlare – si diffusero per il Brasile, in cerca di nuove terre più fertili, più grandi, colonizzando nuovi stati come Santa Catarina, Paraná, Mato Grosso do Sul, Mato Grasso, Rondonia, Roraima, Pará, Amazonas.

Oggi, soltanto nel ramo famigliare di Giovani e Amalia, c’e un totale di oltre mille discendenti, che ancora si moltiplicano. Tutti brasiliani sì, ma con radici profonde in Italia.

Isair Dallazen, nipote di Giovanni e Amalia

Amalia Cassol e Giovanni Dall’Asen

Un Natale pieno di speranza – parte 1

Era il primo giorno di novembre del 1876. Freddo e nebbia delle Dolomiti. La famiglia non aveva mai vissuto un bel Natale. Niente Babbo Natale, né cioccolatini per i bimbi, che non avevano mai conosciuto quei dolci, forse appena qualche caramella o dei biscotti fatti in casa. Ma quello del 1876 sarebbe stato sicuramente un Natale diverso, molto diverso.

Dopo molte riflessioni, la decisione era stata presa: partire per il Brasile. Passati i giorni di afflizione, quando la nostalgia invade il cuore, c’era ora la speranza di un futuro migliore per i figli. In Italia le prospettive erano di fame e difficoltà, senza terra, senza niente, solo debiti. Niente da mangiare, niente lavoro, niente speranza. Così, preparati i pochi oggetti di cucina e i pochi vestiti da lavoro, il giorno della partenza era finalmente arrivato.

Davanti alla chiesa di San Michele Arcangelo, nella piazza di Alano di Piave, un bacio alla mamma e un altro al papà, rimasti a piangere. La mamma aveva consegnato un rosario e un libro di preghiere di Sant’Antonio da Padova, poi ecco il treno per Genova, un ultimo sguardo al fiume Piave: «Forse um giorno ti rivedremo».

Al porto di Genova, quattro giorni di attesa, poi via sul vapore “Salier”. Un’avventura nell’ignoto. «Come sarà questa America? Come sarà il nostro nuovo paese?». Preghiere. A ogni porto, salivano nuove famiglie, e il piroscafo si riempiva, finché non c’era più posto. Poi l’approdo, al porto di Rio de Janeiro, 25 novembre 1876. Subito la ricerca di un po’ d’acqua fresca, di un po’ di latte per i bambini, di un po’ di cibo per tutti, niente di speciale, solo molta fame.

Adulti e bambini erano morti e i loro corpi erano stati lanciati in mare.

Sul vapore, sottocoperta, insieme alle bestie, con i pasti serviti soprattutto alla prima classe e anche il sole razionato, erano state tante le difficoltà, tra fame e malattie. Adulti e bambini erano morti e i loro corpi erano stati lanciati in mare. All’arrivo, dopo qualche giorno a terra, le autorità portuali avevano fatto i raggruppamenti delle famiglie. Di nuovo partenza, su un altro vapore, destinato al Rio Grande do Sul. Lì c’erano il nuovo paese e la nuova casa.

Quello che si poteva vedere durante il viaggio era molta foresta, nessuna casa, nessuna piantagione, nessuna famiglia.

Dopo due giorni e mezzo di mare, ecco il porto di Porto Alegre. Tutti nella casa degli immigrati, in attesa delle decisioni del governo e delle autorità sanitarie. Poi ancora un piccolo vaporetto che portava le famiglie alla terra promessa. Quello che si poteva vedere durante il viaggio era molta foresta, nessuna casa, nessuna piantagione, nessuna famiglia.

Giunti a una piccola stazione di commercio, accanto al fiume, tutti erano scesi, ma non c’era posto per dormire, per mangiare, non c’era un bagno. Assieme ai bagagli, affamati e sopraffatti dalla fatica, i nuovi arrivati avevano dormito sotto le stelle.
(Continua…)

Isair Dallazen

Caçador, Santa Catarina. Foresta di pino brasiliano (Araucaria angustifolia).
(Archivio Famiglia Barzotto. Foto: Silvio A. De Boni)