Archivio di Giugno, 2022

Una famiglia di Cencenighe

Prima parte

Sebbene io ami Bologna, città dove sono nata e in cui ho trascorso più di sessant’anni, c’è un piccolo paese delle Dolomiti al quale mi sento legata in modo del tutto speciale: si tratta di Cencenighe Agordino, “Cence”, come lo chiamava affettuosamente Lieta, mia madre, fiera di esserne originaria. Benché fosse stata costretta ad abbandonarlo quando era ancor giovane per lavorare, le era rimasto nel cuore: lì aveva lasciato i suoi adorati genitori, Serafino e Vittoria Soppelsa, alcuni dei suoi fratelli e i cari amici con i quali aveva condiviso l’infanzia e l’adolescenza.

Di quel periodo amava narrare, a me e a mia sorella Maria Vittoria, curiosi aneddoti, e anche raccontarci, non senza una vena di nostalgia, tradizioni e abitudini che le erano care, così come le piaceva utilizzare il suo dialetto non appena se ne presentava l’opportunità. C’è un episodio che meglio di ogni altro dimostra quanto tenesse a Cencenighe: quando, nel novembre del 1966, esso fu vittima di una terribile inondazione, incurante del pericolo, convinse mio padre a raggiungere il paese su una piccola automobile carica di provviste.

La distruzione e le scene macabre che si offrirono ai suoi occhi – l’acqua aveva spazzato via il cimitero – le procurarono un’angoscia dalla quale si liberò a fatica. Raccontò che durante quel tragico evento la nonna aveva generosamente dato asilo a molti compaesani che si erano rifugiati nella sua modesta abitazione ai Coi, dato che si trovava in una posizione elevata rispetto alla piazza invasa dall’acqua e dai detriti.

Sin da quando ero piccola, la famiglia formata dai miei nonni (entrambi del 1872) mi è parsa, a suo modo, speciale. Sebbene come tanti loro compaesani abbiano dedicato tutta la vita al lavoro e alla famiglia, la loro storia, per alcuni aspetti, è alquanto singolare. Serafino e Vittoria si sposarono contro il volere del mio bisnonno materno, il cavalier Giovanni De Biasio, segretario comunale a Cencenighe e uomo di un certo prestigio, come attesta il suo elegante necrologio pubblicato nel 1919. Una foto che conservo gelosamente, nella quale appare con la prima moglie, Giuseppina Riva, ne dimostra il carattere orgoglioso e deciso: elegante e sicuro di sé, ostenta, non senza fierezza, un bel paio di baffi a manubrio, di moda all’epoca.

Perché mai, se non per un sentimento autentico e profondo, una ragazza con le sue qualità avrebbe scelto di unirsi a un giovane di condizione sociale modesta rispetto alla propria, mettendo al mondo con lui, nell’arco di ventisette anni, ben diciassette figli, tanto da divenire una delle donne più prolifiche dell’Agordino?

Il cavaliere non vedeva di buon occhio il fatto che sua figlia si unisse in matrimonio a un semplice scalpellino, mentre si racconta che mia nonna non avesse gradito le sue seconde nozze, ma non voglio credere che si sia sposata per una ripicca, anzi, sono fortemente convinta che quello tra Vittoria e Serafino sia stato un grande amore. La nonna, quando io venni al mondo, era ormai anziana, sfiancata dal lavoro e dalle ravvicinate gravidanze. Nulla era rimasto della sua giovanile bellezza che mostra in una foto in cui appare elegante e acconciata con cura. Perché mai, se non per un sentimento autentico e profondo, una ragazza con le sue qualità, e di ottima famiglia, avrebbe scelto di unirsi a un giovane di condizione sociale modesta rispetto alla propria, mettendo al mondo con lui, nell’arco di ventisette anni, ben diciassette figli, tanto da divenire una delle donne più prolifiche dell’Agordino?

Grazie a questo soggiorno, imparò la lingua tedesca, la cui conoscenza mise più volte a disposizione degli uffici comunali di Cencenighe, dando prova della sua intelligenza pur non avendo potuto studiare

Dal padre, la nonna aveva certamente ereditato il carattere forte, forse temprato dai lutti che si susseguirono nella sua vita, durante la quale – fatto non trascurabile – dovette affrontare anche due conflitti bellici: dapprima la morte della madre, poi quella di numerosi figli in tenera età. Della sua tenacia e del suo coraggio, testimonia il trasferimento che effettuò, assieme ai figli, in Svizzera, ove visse per molti anni, seguendo Serafino a Rorschacherberg, città in cui lui si era recato per lavoro. Grazie a questo soggiorno, imparò la lingua tedesca, la cui conoscenza mise più volte a disposizione degli uffici comunali di Cencenighe, dando prova della sua intelligenza pur non avendo potuto studiare come invece avevano fatto i suoi fratelli, in particolare Silvio, per anni maestro elementare a Falcade-Caviola e autore di interessanti saggi sul territorio, tra i quali La valle del Biois (1928), La valle del Cordevole (1929), La valle fiorentina (1939), oggi reperibili presso la Biblioteca civica di Belluno. Detto per inciso, fu proprio grazie a lui che, assieme a mio marito, ebbi l’onore di stringere amicizia con il grande scultore falcadino Augusto Murer, che gli era stato particolarmente legato.

Vittoria De Biasio Soppelsa

Tornando alla nonna, ella non era avvezza a smancerie e fronzoli, bensì schietta ed essenziale. In tutte le foto che la ritraggono quando non era più giovane indossa lo stesso abbigliamento severo, consistente in un vestito lungo con sopra una traversa, e copre il capo con un fazzoletto annodato dietro alla nuca, che le cinge la fronte fino alle sopracciglia. Non amava manifestare le sue emozioni, tanto da sembrare rigida a chi non la conosceva bene, preferendo esprimersi con i gesti piuttosto che con le parole.

A questo proposito, ricordo un fatto che mi lasciò molto commossa: mentre la mamma, mia sorella e io eravamo in partenza per Bologna, Vittoria mi prese da parte, mi mise tra le mani un pacchettino, dicendomi che era “par el viazz”. Salita in auto scoprii di cosa si trattava…
(continua…)

Patrizia Garelli Rossi

La famiglia Soppelsa durante il soggiorno in Svizzera

Una vita spezzata

Faceva caldo quel venerdì del 26 luglio 1974. Avevo quindici anni. Con mia sorella di sei e i miei genitori eravamo a Belluno, in vacanza dalla Svizzera. Papà e mamma erano emigranti. Abitavamo in un paesino vicino a Berna. Mio padre era capocantiere in una ditta che si occupava della produzione di cordonate stradali.

Quel venerdì decise di fare una passeggiata sul Nevegal. Questa volta non lo accompagnai, perché dovevo incontrarmi con gli amici per ascoltare le canzoni in voga con il nostro mangiadischi. Ognuno esprimeva i suoi desideri futuri, i possibili progetti da intraprendere una volta finita la scuola. Parlavamo per ore.

Stranamente, mio padre ritardò come non era solito fare. Mia madre subito si preoccupò e di lì a poco fece scattare le ricerche, dato il perdurare del ritardo. Lo trovarono in fondo a un burrone, dove era accidentalmente scivolato. Morì sul colpo sbattendo la nuca su un sasso.

Ecco, questo mi piaceva di lui, il fatto di non arrendersi mai davanti alle piccole, ma anche alle grandi difficoltà che la vita ci riserva.

Io adoravo mio padre, avevamo anche un’affinità caratteriale che ci univa ancora di più. Mi ero inserita molto bene nella scuola svizzera e lui ne era profondamente orgoglioso. Saremmo rimasti lì per sempre se non fosse successo l’imponderabile.

Abitavamo in un piccolo e grazioso condominio con a fianco un parco giochi dove la mia sorellina si divertiva con i suoi amichetti. Qualche volta andavo nel suo ufficio e lo sentivo parlare al telefono. Parlava un discreto tedesco, ma col francese mi faceva fare certe risate! Lui diceva che l’importante è farsi capire anche se non si conosce perfettamente una lingua. Ecco, questo mi piaceva di lui, il fatto di non arrendersi mai davanti alle piccole, ma anche alle grandi difficoltà che la vita ci riserva.

Quel maledetto venerdì fu la fine della mia adolescenza. Io, mamma e Daniela, la mia sorellina, avremmo dovuto affrontare la vita senza la presenza fisica di papà, ma la forza del suo ricordo ci accompagna ancora oggi, giorno dopo giorno, e ci aiuta a superare i momenti bui. Proprio come avrebbe voluto mio padre.

Lorella Sovilla

Remo Sovilla con la moglie Irma Candeago, a Cortina nel 1957.

Magari col mus de trumboviza*, ma… in America voio andar!

«Carissima Madre Vi vengo a fare sapere che io stago molto bene così spero simile di voi… Cara Mamma io mi spero che me sposerò presto ma non credo di vignir a casa perchè io stago molto bene qui in America… Se per caso mi vengo a casa me tocaria lavorar come un cavallo (presumo intendesse trasmettere una traduzione più raffinata di mus, Ndr) e credo che si sta assai malamente da quelle parti…».

Così inizia una lettera, datata 5 settembre 1923, indirizzata a mia nonna Meniga dal figlio Antonio Solis. Antonio che, dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale per conto del governo asburgico, al suo ritorno a Cherso si ritrovò ad affrontare una vita molto dura e senza alcuna prospettiva futura. 

Sua madre era rimasta vedova in giovane età, con due figlie ancora piccole e un maschio più grandicello: lui, Antonio, che praticamente avrebbe dovuto reggere le sorti di tutta la famiglia in un contesto di miseria e di superinflazione economica. Molti giovani chersini erano nelle sue stesse condizioni e solo il lavoro della campagna e della pesca aiutavano a soddisfare i principali bisogni della loro grama esistenza.

L’attrazione dell’America era molto forte, anche perché altri chersini, già emigrati prima della guerra, mandavano dollari e manifestavano benessere, libertà e lavoro assicurato grazie all’enorme progresso industriale di quel Paese.

La chimera a stelle e strisce rappresentava una forte calamita già verso la fine del IX secolo, ulteriormente ingigantita all’inizio del XX, quando le notizie da oltre oceano riferivano di una spasmodica richiesta di manodopera che procurava facili guadagni, una vita estremamente agiata, con sprechi inimmaginabili e possibilità di ingrumar dolari a palade (raccogliere dollari con la pala).

Così lo zio, poco più che ventenne, grazie all’aiuto del risparmio della madre e al lavoro delle ancor giovani sorelle, racimolò le famose cento lire che in America voio andar e con altri giovani chersini, con il coraggio della disperazione, mista a tanta speranza, salutò la madre, il molo, le Purpurele, la lanterna, S. Salvador e s’imbarcò, con “la valigia di cartone”, per quella che, nel suo pensiero, sarebbe stata la soluzione di tutti i suoi sogni di giovane ambizioso.

Affrontò un viaggio disagiato con altri ragazzi, ma anche assieme a donne e bambini. Tutti stipati nella terza classe di un piroscafo che in due settimane e più di navigazione oceanica, spesso burrascosa, li condusse, esausti e affamati, a “Nova York”.

Non conoscevano l’inglese e alcuni erano semi – o completamente – analfabeti, terrorizzati dall’eventualità di non venir accettati e di essere rimandati al paese di provenienza.

Dormivano su cuccette di ferro, sottocoperta, come topi in una trappola. Mangiavano minestre con contorno di gallette e acqua, rare volte spaghetti. Stringevano amicizie che sarebbero tornate utili all’arrivo per sostenersi e aiutarsi nelle difficoltà del primo periodo e, per far passare prima il tempo, giocavano alla ”mora”, alle carte, a “chi ti ha dato il botto sul palmo della mano girata dietro la schiena”, ma pure si azzuffavano per un nonnulla, avvolti da un tanfo pesante di sudore misto a zaffate di odori sgradevoli.  Era una festa quando potevano recarsi sul ponte esterno!
Non conoscevano l’inglese e alcuni erano semi – o completamente – analfabeti, terrorizzati dall’eventualità di non venir accettati e di essere rimandati al paese di provenienza.

Sbarcarono disorientati con i loro fagotti, in mezzo ai bauli e agli eleganti bagagli dei passeggeri di prima classe, guardati sdegnosamente e scansati come appestati.
Dopo un primo controllo, soprattutto per assicurarsi che i denti e la vista fossero sani, che i documenti fossero corretti e che non appartenessero a partiti politici indesiderati negli USA, vennero trasferiti nella sala di registrazione di Ellis Island, “l’Isola delle lacrime”, quella che veniva considerata la prima importante tappa verso la nuova vita.

Alcuni dei respinti, pur di non ritornare al loro paese, scappavano o cercavano di attraversare a nuoto le acque gelide della baia, trovandovi talvolta persino la morte.

Li attendevano visite accurate, ispezioni attente e precise. Coloro che non le superavano in quanto affetti da malattie curabili venivano segnati sulla schiena con una croce di gesso bianco e avviati all’ospedale. In casi più gravi di malattie ”ripugnanti, contagiose o mentali”, scattava invece il temutissimo rimpatrio.
Alcuni dei respinti, pur di non ritornare al loro paese, scappavano o cercavano di attraversare a nuoto le acque gelide della baia, trovandovi talvolta persino la morte.

Non la conosco esattamente, ma posso immaginare la risposta della madre che, pur nel dolore della lontananza, sarà stata un po’ rassicurata nel sapere il figlio sano e contento, e forse anche disposto a farle avere qualche dollaro o qualche sacco di farina, come annunciavano soddisfatte altre madri di figli o di mariti emigrati chersini.

Prima della lettera era pervenuta pure una foto post card, di quelle classiche da studio fotografico, con il vestito della festa, la penna stilografica che sbucava dal taschino, il cappello di feltro, le scarpe stivaletto e tutti gli accessori che facevano ritenere un raggiunto benessere. Sul retro, ancora rassicurazioni:

«Cara Madre
ti vengo a fare sapere che son san e che non mi manca gniente. In un anno vegnierò. Adio il tuo figlio Antonio Solis».

C’era quindi la speranza di un ritorno!

Dalla speranza alla disperazione
Ma non fu così, e il seguito degli scritti portò tante preoccupazioni e affanni:

Io stago ben, però non lavoro… per un anno e mezzo iero amalato, dunque non sta mi domandar soldi perché non ghe n ò, dunque pensa di non disturbarmi… Io vivo così così perché mia morosa mi dà da mangiar. Io non lavoro e non ti posso mandar niente affatto, nemmeno un soldo».

Da quel momento nella famiglia cominciò l’angoscia e, naturalmente, l’invito pressante a ritornare a Cherso, dove c’erano comunque una casa e delle campagne.

«A mè non importa per la terra e nemeno per la casa, io la mia parte ghe la dò a Concetta (mia madre, la più piccola, Ndr).
Cara mamma fammi a sapere come si trovano le mie sorelle io non so gniente afatto di esse e credo che son sposate (ai nostri opure ai taliani?… dunque fammi assaper… Io volario sapere come si trovano i miei cugini e la cugina, pure zia Mare e il mio zio Francesco o pure i miei amici, dunque non fare a meno di scrivermi».

Le sorelle erano già sposate. Mia madre nel 1921, a 19 anni, aveva sposato mio padre il quale, dopo aver assolto il servizio militare in marina, aveva ottenuto a Trieste la matricola per potersi imbarcare sulle navi della Compagnia di Navigazione Generale Italiana.

Conosceva poco il cognato, ma subiva con dispiacere la tristezza della moglie e della suocera, sempre in grande apprensione per l’incerta sorte del fratello e figlio.

Il destino volle che dopo alcuni anni, con il piroscafo Conte di Biancamano sul quale era imbarcato, proprio mio padre giungesse a New York e, senza riflettere molto, con l’impulso e l’incoscienza dei giovani, abbandonasse la nave per cercare il cognato, ma anche con la speranza di far fortuna.

L’indirizzo in tasca e un po’ di denaro accantonato grazie al lavoro, si avventurò – da irregolare – in quella terra anche per lui sconosciuta, con la speranza di ritrovare Antonio, ma anche Prospero Duda, il marito di sua sorella, emigrato da poco e residente nel New Jersey, dove venivano inviati molti di coloro che non avevano una sistemazione o dei parenti presso i quali alloggiare. 

Non lo trovò all’indirizzo indicato, però venne a contatto con altri chersini che gli diedero ospitalità e lo aiutarono a trovare un’occupazione per un primo periodo di permanenza in America. 

Il lavoro era molto duro, spesso a cottimo, ma mio padre, forte e instancabile lavoratore, pur di guadagnare accettò più occupazioni, anche da sfruttatori, e in poco tempo potè mandare del denaro a mia madre, che da giovane sposa senza figli continuava a vivere a casa della madre. 

Erano rimaste solo in due, dato che la sorella più grande, Anna, si era trasferita con il marito a Fiume e, avendo quattro figli, poteva raramente spostarsi a Cherso.
Mio padre, intanto, appena possibile, continuava la ricerca del cognato, finché riuscì a trovarlo a Newark, dove faceva saltuariamente il pittore. 

diceva di non aver alcuna intenzione di ritornare nella sua isola, pur facendo trapelare un’acuta e quasi patologica nostalgia. 

Non gli sembrò che se la passasse molto bene. Viveva modestamente in casa della fidanzata americana, diceva di non aver alcuna intenzione di ritornare nella sua isola, pur facendo trapelare un’acuta e quasi patologica nostalgia.  Chiese notizie di tutti e si lasciarono con profonda tristezza.
Anche mio padre inviò a mia madre la classica foto con vestito elegante, orologio d’oro con catena al taschino, cappello a larga tesa, scarpe bicolori, sinonimo del conquistato, ambito benessere. Assieme alla foto, l’invito a partire e a raggiungerlo, con la promessa di una vita agiata e comoda. Ma mia madre rispondeva sempre più tentennante. Preferiva rimanere a Cherso, anche per non abbandonare sua madre.

Intanto gli anni passavano e le opportunità di lavoro cominciavano a scarseggiare anche nell’opulenta America. Perlomeno si intuivano dei profondi cambiamenti in una società talvolta cinica e spietata, dove i valori morali e sociali erano in forte declino e dove, a causa di corrotti speculatori, molte imprese senza crediti e liquidità cominciarono a fallire, provocando il suicidio di parecchi imprenditori e la conseguente disoccupazione, con effetti devastanti sull’economia. 

La crisi del 1929
Alcuni risparmiatori, presi dal panico, ritennero opportuno ritirare il loro gruzzolo dalle banche e alcuni emigranti, intuendo il pericolo della disoccupazione, pensarono di abbandonare l’America!

Mio padre lo fece quando la grande depressione del 1929 aveva già prodotto profondi cambiamenti, ma prima di subirne personalmente dei danni irreparabili. 
Arrivò a Cherso con tanti dollari, anche di seta, la valigetta del grammofono e molti dischi 78 giri che, con testi di canzoni amorose e sentimentali, allietarono le feste e fecero cantare mia madre, finalmente contenta di avere il marito con sé. Dopo 11 anni di matrimonio, nacque la prima figlia: Concettina.

Molte banche chiusero i battenti, trascinando con sé altri istituti e l’economia di tutto il mondo

Negli USA erano iniziati i biblici 7 anni di vacche magre. Molte banche chiusero i battenti, trascinando con sé altri istituti e l’economia di tutto il mondo, proprio come avviene oggi in un succedersi di corsi e ricorsi storici. Non solo, l’Europa fu quell’anno duramente colpita dal gelo che imperversò nei mesi di gennaio e febbraio anche a Cherso, quando l’11 di febbraio l’acqua ghiacciò nei bicchieri posti sul comodino delle stanze da letto e fuori si scatenò una tormenta di neve gelida con raffiche fortissime di bora che resero polare il molo e le Purpurele.

Mio zio non fece mai più ritorno e l’ultima sua lettera scritta da New Bedford, nel Massachusset, gelò il sangue nelle vene di tutti i familiari:

«Cara Madre io son molto disperato che non vi posso veder, dunque pazienza, qualche giorno si vedremo e quel che io credo sempre. Non piangere per me io sono vivo per adesso non mi disturbar per i soldi si no non scriverò più. Well… Salutami a tutti addio arrivederci Mamma tanti baci dal tuo filio Antonio Solis xxxxxxxxxxx
Adio Concetta e Anna. baci da me xxxxxxxxx».

Le croci, forse, simboleggiavano i tanti baci. In ogni caso, non si ebbero più sue notizie, nonostante le insistenti ricerche dei miei genitori presso il Consolato americano e presso alcuni chersini diventati nel frattempo cittadini americani.

Il suo sogno americano, illusione dei poveri, speranza e miraggio dei diseredati, si era infranto in chissà quale tragico e crudele destino.

Annamaria Zennaro Marsi

* Era l’asino che trainava il carro delle salme dei Chersini verso il cimitero

Dal “Pino Solitario” alla Logan Road

Se vi capitasse di andare a Brisbane, in Australia, e transitare per la sua strada principale, la Logan Road, potreste ammirare un elegante edificio con ben visibile una grande insegna: “Da Rin Professional Centre”. Si tratta di un complesso di negozi voluti e realizzati da Giuseppe Da Rin De Barbera, originario di Laggio.

Bepi è scomparso all’età di ottantotto anni. La sua storia è quella di un ragazzo che, lasciato giovanissimo il paese di origine, ha saputo raggiungere, con intelligenza e coraggio, i traguardi che si era prefisso, ottenendo per sé e la sua famiglia un riscatto non solo economico, ma anche sociale e culturale.

“Bepi De Barbera” è nato a Laggio l’8 aprile 1931, terzo dei cinque figli di Antonio e Maria Da Rin Perette. Il padre, boscaiolo, morì all’età di quarantadue anni, quasi contemporaneamente alla scomparsa del figlio Mario, cosicché la famiglia si trovò in condizioni davvero difficili.

Finite le scuole elementari, “Bepi” fece il pastore sui pascoli di Razzo, Piniè e Ciampon fino all’età di sedici anni, poi andò a lavorare con la “Squadraccia Da Rin” alle teleferiche di Lasa, in Val Venosta, e come carpentiere nelle gallerie nei dintorni di Bolzano. A ventidue anni, nel 1952, pensò di aprire un bar sopra Piniè: il locale, inaugurato nel 1953 e chiamato “Pino Solitario”, funziona tuttora e costituisce ormai un capitolo di storia del turismo all’ombra del Tudaio. Per onorare gli impegni economici contratti fu però costretto a emigrare in Australia, lasciando in gestione il bar al fratello Gaspare.

… la vita fu molto dura: dopo una giornata di sfiancante lavoro si era costretti a dormire su giacigli luridi in baracche di lamiera infestate dai topi.

Nel dicembre 1955 si imbarcò a Trieste su un bastimento svedese e dopo quaranta giorni di traversata giunse a Melbourne, subito smistato prima al campo di raccolta di Bonegila e quindi in una fattoria a Robinvale, nello stato del Victoria, per essere impiegato nella raccolta dell’uva. Qui la vita fu molto dura: dopo una giornata di sfiancante lavoro si era costretti a dormire su giacigli luridi in baracche di lamiera infestate dai topi.

Con l’aiuto di un amico di Lorenzago riuscì a procurarsi un altro lavoro. «Senza conoscere l’inglese – raccontava – sono andato a Sydney, dove sapevo dell’esistenza di un’impresa italiana, la E.P.T., che si occupava di linee elettriche. Qui, mi sono detto, riesco a farmi capire e a parlare con qualcuno. Mi sono presentato a un capocantiere, un emiliano simpatico, che mi ha chiesto che cosa sapevo fare. Gli ho spiegato che sapevo aggiustare i cavi di acciaio delle funivie e quando ha visto la rapidità con cui riuscivo a ridare efficienza ai cavi spezzati, mi ha ingaggiato subito con una paga che io consideravo “da sogno”, tanto che ogni due settimane mandavo un assegno a mia madre perché pagasse i debiti del bar, saldati in cinque anni».

La Transfield non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire un elemento così qualificato e gli fece una allettante proposta: restare il tempo necessario alla costruzione dell’impianto e poi, oltre all’ottima paga, gli avrebbe dato pure quattro mesi di vacanza…

Dopo dodici mesi andò a lavorare per la Transfield con una paga più alta, restandovi per dieci anni. Al quarto anno, però, “Bepi” manifestò il desiderio di far ritorno a casa. La Transfield, tuttavia, non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire un elemento così qualificato e gli fece una allettante proposta: la società doveva realizzare una seggiovia in una stazione turistica, la prima di questo genere in Australia, e gli propose di restare il tempo necessario alla costruzione dell’impianto e poi, oltre all’ottima paga, gli avrebbe dato pure quattro mesi di vacanza compreso il giro del mondo. Il nostro accettò, alla fine si prese le meritate vacanze e fece ritorno a in Italia.

Nella terra d’origine un’altra tappa fondamentale della sua vita: a Laggio conobbe la friulana Alberta Persello. Fu un vero colpo di fulmine, i due si fidanzarono e nel settembre 1961, dopo soli due mesi, si sposarono. Tre settimane dopo gli sposi erano già di ritorno a Sidney, dove Bepi riprese servizio con la Transfield, che lo inviò prima a dirigere i lavori di oltre 250 chilometri di linee elettriche, poi a costruire una seconda seggiovia e infine a realizzare gli impianti di una miniera d’oro.

Nel marzo del 1966, stanco di peregrinare, decise di mettersi in proprio: insieme a due geometri della Valtellina, Guido Zuccoli e Italo Speziale, fondò la Steelcon (ferro e cemento) e il successo arrivò presto con la realizzazione di ponti, scuole, stazioni radio, bacini idrici, ferrovie, impianti idroelettrici, apparati meccanici ed edili per le miniere di uranio. Nel 1977 Giuseppe cedette le sue quote e si stabilì a Brisbane, dove comprò la tenuta agricola Mount Side a Cambooya.

Nel 1979, durante una vacanza in Italia, il cugino Antonio Da Rin Vidal, comproprietario dell’occhialeria Luxol di Lozzo di Cadore, gli propose di portare in Australia un campionario di occhiali di sua produzione per metterli sul mercato. Giuseppe intuì subito le potenzialità e con rinnovato entusiasmo si lanciò in questo nuovo settore. Creò, nel 1979, la Da Rin Fashion Eyewear e nell’arco di qualche anno il giro d’affari assunse proporzioni tali da richiedere nel 1990 un complesso di uffici e negozi: il centro ottico Da Rin Professional Centre.

Ai suoi due figli, Dennis, nato nel 1964, e John Martin, nato nel 1970, fece studiare optometria. Oggi entrambi hanno una prospera attività con due negozi di occhiali ciascuno. La figlia Diane, nata nel 1966, si è invece laureata in architettura e ha sposato un architetto.

Giovanni De Donà

Betti e Bepi De Barbera a Laggio il 15 settembre 2006.