Il suo monumento è in bella mostra nel centro storico e gli abitanti lo ricordano come l’anima della città. Stiamo parlando di Primo Capraro, il padre di San Carlos de Bariloche, in Patagonia, oggi famosa località turistica ai piedi delle Ande ma, all’epoca di Primo, villaggio sconosciuto in una sorta di sperduto Far West sudamericano.
Una regione tutta da scoprire e da esplorare, con grandi opportunità per pionieri dallo spirito avventuroso e dalle capacità imprenditoriali. Doti che non mancarono a Primo Capraro, nato a Castion il 12 marzo 1875 e giunto in quelle terre nel 1903, quando la città, fondata solo un anno prima, contava appena qualche decina di casette in legno.
Non a caso è soprannominato “El Emperador de Bariloche”.
Ad attrarlo in Argentina fu un vecchio amico conosciuto durante il servizio militare che gli propose di acquistare della terra in società. Grazie al duro lavoro, alle sue idee decise e lungimiranti, alla capacità di cogliere al volo le opportunità che gli si facevano incontro muovendosi agilmente tra un’attività e l’altra a caccia di occasioni di guadagno, Primo Capraro riuscì a dare enorme sviluppo a Bariloche, costruendo un vero e proprio impero. Non a caso è soprannominato “El Emperador de Bariloche”.
Ovviamente non fu solo in questa impresa. Fu il primo bellunese ad arrivare e una volta giunto chiamò amici e parenti a dargli una mano.
Catalizzatore di tutte le principali attività di Bariloche, se da un lato questo lo rese un esempio e un modello per gran parte dei suoi concittadini, dall’altro gli attirò le antipatie di quanti vedevano con invidia il suo crescente successo e lo reputavano un pericolo per i loro interessi.
Segnali di questa ostilità si ravvisarono nello strano incendio che nel 1924 mandò in fumo la sua segheria con le attrezzature e le abitazioni degli operai, fino alle oscure circostanze della sua morte, avvenuta il 4 ottobre 1932. Ufficialmente fu suicidio, ma la questione rimane tuttora avvolta in una nube di mistero.
Custode di un segreto racchiuso con sé nella tomba. Una tecnica tuttora misteriosa che gli valse l’appellativo di “Pietrificatore”. Girolamo Segato, nato a Sospirolo il 13 giugno del 1792, l’aveva appresa nelle sue spedizioni archeologiche in Egitto, durante le quali studiò a lungo i sistemi di mummificazione.
Il suo metodo, però, era diverso. Una procedura che ancora oggi, nonostante analisi, studi e tentativi di imitazione susseguitisi negli anni, nessuno è stato in grado di svelare. Permetteva di pietrificare gli elementi, arrestando la decomposizione della materia organica. Una tecnica che Segato applicò soprattutto a parti di corpo, umane e animali.
Esempi tuttora perfettamente integri del suo lavoro si trovano tra il Museo del Dipartimento di Anatomia, Istologia e Medicina Legale dell’Università degli Studi di Firenze – città in cui Segato si stabilì per portare avanti le proprie attività scientifiche -, Palermo e la Reggia di Caserta. Proprio all’interno della Reggia, nella Sala dell’Estate, è esposto un tavolino il cui ripiano è costituito da una sezione di quercia pietrificata, opera di Segato.
Gran parte dei suoi ritrovamenti, lasciati al Cairo al momento del ritorno in Italia, furono purtroppo distrutti in un incendio avvenuto nella città egiziana nel 1823.
Cartografo, topografo, naturalista, egittologo, studioso degli antichi metodi di produzione dei papiri, nei suoi viaggi in Africa esplorò regioni sconosciute della Nubia e dell’Oasi di Siwa, tracciando carte e raccogliendo reperti archeologici di vario genere, molti dei quali contribuirono a far nascere il primo fondo della sezione egizia del museo di Berlino-Charlottenburg. Gran parte dei suoi ritrovamenti, lasciati al Cairo al momento del ritorno in Italia, furono purtroppo distrutti in un incendio avvenuto nella città egiziana nel 1823.
Autore dei Saggi pittorici, geografici, statistici, idrografici e catastali sull’Egitto (1827) e dell’opera pubblicata postuma Atlante monumentale del Basso e dell’Alto Egitto (1837-1838), morì prima dei quarantaquattro anni, il 3 febbraio 1836, a Firenze.
Fu sepolto nella basilica di Santa Croce, dove il monumento a lui dedicato recita: «Qui giace disfatto Girolamo Segato da Belluno che vedrebbesi intero pietrificato se l’arte sua non periva con lui».
Che cosa unisce il Piave, “fiume sacro alla Patria”, e il Little Bighorn, fiume americano nel Montana? Un Conte nato a Belluno il 26 agosto 1832, Carlo Camillo di Rudio, un uomo la cui biografia sembrerebbe il soggetto ideale per un romanzo o, ancor meglio, per un film hollywoodiano sul vecchio West. Un uomo d’azione che si nutriva di avventura e che con le sue gesta scrisse pagine epiche capaci di risuonare tra i continenti.
Patriota mazziniano dalle mille peripezie, protagonista dei principali eventi della Storia del suo tempo, di Rudio impresse il proprio nome sulle due sponde dell’Atlantico, partecipando prima alle battaglie per il processo di unificazione nazionale italiano, poi alla guerra di secessione americana e infine alle guerre indiane.
Scampato alla ghigliottina, fu condannato a scontare l’ergastolo in una colonia penale della terribile Isola del Diavolo, nella Guyana francese…
Ultimo esponente di rilievo dell’antico casato bellunese dei Nossadani, da convinto sostenitore della causa per l’unità d’Italia lasciò il suo segno nel Risorgimento, tra i Cacciatori delle Alpi di Pier Fortunato Calvi e al seguito di Giuseppe Garibaldi. Fu in questo contesto che il 14 gennaio del 1858, a Parigi, prese parte, assieme a Felice Orsini e ad altri congiurati, al fallito attentato all’imperatore Napoleone III. Scampato alla ghigliottina, fu condannato a scontare l’ergastolo in una colonia penale della terribile Isola del Diavolo, nella Guyana francese, dalla quale riuscì nell’impresa di evadere suscitando grande clamore e sorpresa.
Fuggito in Inghilterra, grazie all’aiuto di Mazzini emigrò in America, dove si arruolò e fece strada nell’esercito. Combatté tra le fila dell’Unione nella guerra civile con i Confederati e nei conflitti di conquista a stelle e strisce ai danni dei nativi americani. Fu ufficiale nel 7º Cavalleria del generale Custer, quello della sonora e leggendaria sconfitta nella battaglia del Little Bighorn del 25 giugno 1876, scontro nel quale persero la vita 268 soldati – e lo stesso Custer – ma non di Rudio, uno dei pochi superstiti, per questo finito sulle prime pagine di tutti i giornali statunitensi.
Congedato nel 1896 dopo una brillante carriera, nel 1904 gli fu riconosciuto il grado di maggiore. Morì a Pasadena, in California, il 1º novembre del 1910. Le sue ceneri riposano in un cimitero militare di San Francisco.
«Venite a costruire i vostri sogni con la famiglia». L’accattivante invito era stampato su un manifesto di fine Ottocento che pubblicizzava le partenze dal porto di Genova verso il Brasile. La descrizione della meta era ancora più seducente: «Un paese di opportunità. Clima tropicale, vitto in abbondanza. Ricchezze minerali. In Brasile potete avere il vostro castello. Il governo dà terre ed utensili a tutti». Il titolo, in grande, garantiva: «Terre in Brasile per gli italiani».
Il fine era ovviamente quello di incoraggiare l’emigrazione. Perché? Volendo pensar male, per riempirsi le tasche con le speranze dei disperati. L’emigrazione, infatti, era un affare redditizio e i piccoli paesini di tutta Italia, da Nord a Sud, cominciavano in quell’epoca a brulicare di nuovi personaggi un po’ loschi e pronti a tutto: gli Agenti di Emigrazione. Una rete di soggetti che, fiutate le opportunità di guadagno, formavano un vero e proprio apparato economico non ufficiale fatto di agenzie e subagenzie. Un mondo parallelo che agiva nell’ombra, in contatto con gruppi affaristici legati alle compagnie di navigazione italiane e straniere. L’obiettivo era riempire i bastimenti e moltiplicare i profitti. I piroscafi solcavano l’oceano carichi di migranti, mentre i potenti proprietari delle società facevano il carico di bigliettoni e navigavano in un mare d’oro.
Agli occhi degli emigranti erano un punto di riferimento perché offrivano assistenza nelle complicate procedure burocratiche da sbrigare per la partenza e facevano da mediatori con il luogo di destinazione.
Un settore talmente fiorente che i dati di fine Ottocento stimavano in 20.000 il numero di intermediari attivi in tutta Italia. In questa intricata macchina da soldi, gli agenti rappresentavano l’elemento di aggancio con il territorio, i procacciatori del business. Conoscevano alla perfezione le zone in cui operavano, avevano contatti e capacità di persuasione, erano costantemente aggiornati sul mercato del lavoro europeo e americano e riuscivano a raggiungere le aree più remote della Penisola. Agli occhi degli emigranti erano un punto di riferimento perché offrivano assistenza nelle complicate procedure burocratiche da sbrigare per la partenza e facevano da mediatori con il luogo di destinazione. Spesso, però, il loro unico scopo era lucrare sulla gente che fingevano di aiutare.
«Ogni genere di truffe fu commesso in spregio della legge, si facevano pagare i noli a coloro che avevano diritto al passaggio gratuito pel Brasile; si speculava sui treni speciali, sulle spese impreviste, sull’albergo, con relativo fattorino, facchino, liquorista a Genova».
Si aggiravano tra mercati, piazze, strade e sagrati delle chiese raccontando di ricchezze straordinarie per coloro che si fossero diretti in America. Senza alcuno scrupolo, promettevano meraviglie e incanti, convincendo interi nuclei famigliari a imbarcarsi verso luoghi in cui ad attenderli c’era invece un destino completamente diverso da quello prospettato. Il 9 settembre del 1898 Luigi Einaudi (futuro Presidente della Repubblica) scriveva sul quotidiano “La Stampa”:
«La legge vigente sull’emigrazione del 1888 riconosce e quasi favorisce legalmente la classe degli agenti e subagenti di emigrazione con cauzione fruttifera ma senza alcuna reale responsabilità. L’effetto della nuova legge fu immediato. Spostati, analfabeti, truffatori di ogni fatta, riusciti a strappare dalle prefetture 20.000 patenti di agente e subagente, si sbandarono per le campagne italiane a fare propaganda presso gli ignoranti contadini, allettandoli con fallaci promesse verso le plaghe più inospiti del Brasile, i cui governanti ad alta voce chiedevano braccia umane a surrogare gli schiavi redenti, fuggiti nei boschi o nelle città! Ogni genere di truffe fu commesso in spregio della legge, si facevano pagare i noli a coloro che avevano diritto al passaggio gratuito pel Brasile; si speculava sui treni speciali, sulle spese impreviste, sull’albergo, con relativo fattorino, facchino, liquorista a Genova. Sistematicamente gli agenti, per spolpare con più agio gli emigranti, li spedivano a Genova una settimana prima dell’imbarco e li indirizzavano a quei tavernieri che loro promettevano una più larga percentuale sugli utili. Da vent’anni a Genova durava lo spettacolo delle pubbliche strade e delle chiese piene di gruppi di disgraziati emigranti affamati, seminudi o tremanti di freddo in balia di una banda avida di danari. Negli alberghi centinaia di famiglie si vedevano sdraiate promiscuamente sull’umido pavimento o sui sacchi o sulle panche, in lunghi stanzoni, in sotterranei o soffitte miserabili, senz’aria o senza luce, non solo di notte ma anche di giorno. Le derrate, vendute a prezzi favolosi, non sfamavano mai gli infelici. I cambiavalute davano monete false od esigevano grosse usure. L’agente, il subagente, il fattorino, il facchino, il liquorista, il cambiavalute, il taverniere esigevano fino al sangue e l’onore delle loro vittime, perché avevano da pagare e da contentare alla loro volta un’altra turba di vampiri e sottovampiri grossi e piccoli che procuravano i clienti; sicché, a tutti i costi, dalle vene isterilite di quegli infelici doveva uscire sangue e poi sangue per tutti».
Nel 1901 si cercò di porre un freno all’azione degli speculatori con l’adozione della Legge generale sull’emigrazione, che diede vita a un ente di controllo diretto dal Ministero degli Affari Esteri e incaricato di tutelare i diritti di quanti lasciavano l’Italia: il Commissariato Generale dell’Emigrazione (CGE). Per la prima volta una normativa si proponeva di proteggere gli emigranti. Il Commissariato rimase attivo fino al 1927, quando fu trasformato in Direzione Generale degli Italiani all’Estero (DGIE).
Prosegue la storia “Una famiglia di Cencenighe”, di cui abbiamo pubblicato la prima parte nella precedente newsletter. Eravamo rimasti con la narratrice che, in partenza per Bologna assieme alla mamma e alla sorella, rievoca un gesto della nonna: «A questo proposito, ricordo un fatto che mi lasciò molto commossa: Vittoria mi prese da parte, mi mise tra le mani un pacchettino, dicendomi che era “par el viazz”. Salita in auto scoprii di cosa si trattava…»
Un sacchetto di pastiglie di menta, di quelle grosse e bianche con impressa l’effigie dell’Italia. Si producono ancora e ogni volta che le vedo il mio pensiero vola a Cencenighe. Sebbene fosse riservata, Vittoria era socievole e anche in tarda età non rinunciava a far visita ad amici e parenti che le offrivano il caffè, bevanda da lei prediletta assieme alla sgnapa. Lei stessa preparava una grappa ai mirtilli, le giàsene, dal bel colore rosso rubino e ce ne regalava una bottiglia quando tornavamo a Bologna.
Ci teneva molto a restare aggiornata e ogni mattina aspettava con impazienza di leggere “Il Gazzettino”. Quando ero bambina, l’appartamento dei nonni, per me che venivo dalla città, era fonte di grande curiosità, in particolare la cucina, un antro scuro dal pavimento di ardesia e col camino annerito dalla fuliggine. C’era anche una stua, adibita a camera da letto e da pranzo, una specie di moderno open space dalle pareti impiallacciate, solcate da eleganti colonnine che il tempo aveva reso eburnee.
Il ricordo più vivo che ho di mia nonna Vittoria in questi ambienti, la vede intenta a preparare nel paiolo di rame la polenta, che poi tagliava con lo spago a spesse fette per tutti noi…
Oltre al ritratto giovanile di Vittoria, spiccavano una riproduzione di un dipinto di Raffaello, La Madonna della Seggiola, e un solenne orologio a pendolo. Sulla parete di fianco all’ampio letto matrimoniale, c’era una testa d’angelo, che fungeva da mensola, sapientemente intagliata nel legno. Il ricordo più vivo che ho di mia nonna Vittoria in questi ambienti la vede intenta a preparare nel paiolo di rame la polenta, che poi tagliava con lo spago a spesse fette per tutti noi, condendola col tocio di carne o col burro fuso. Più tardi, quando i residui della polenta si staccavano dal paiolo – antenati delle moderne tortillas – la nonna li dava a noi bambini, che li aspettavamo con impazienza. Oppure, la vedo sul fornel, riscaldato dalla pietra refrattaria, mentre cuce alla luce di una debole lampadina.
Alla nonna piaceva ascoltare le nostre chiacchiere quando stavamo sedute attorno al larin…
Quel posto piaceva anche a me perché, oltre a godere del calduccio, mi consentiva di guadagnare uno spazio tutto mio dal quale dominare l’ambiente, fingendomi una principessa nel suo castello. Alla nonna piaceva ascoltare le nostre chiacchiere quando stavamo sedute attorno al larin e ci raccomandava di fare attenzione a non bruciare le calze a causa di qualche favilla levatasi dal ciocco che ardeva, legno che, almeno in parte, lei stessa si procurava andando nei boschi con una gerla che stazionava perennemente accanto alla legnàra. Ricordo che, quando ero molto piccola, per paura le chiedevo di accompagnarmi su in soffitta, dove c’era l’unico rudimentale gabinetto…
E, ancora, alla nonna sono debitrice delle mie prime nozioni di orticoltura: ella, infatti, in un fazzoletto di terra sopra il vecchio cimitero, coltivava fasoi, bisi, insalata, cipolle e tegoline da consumare in famiglia. E fu così che un giorno, accompagnandola, appresi dell’esistenza di un insetto a me sconosciuto, la dorifora, responsabile, come mi spiegò arrabbiata, del mancato raccolto delle patate che aveva seminato.
Vittoria è stata senza dubbio una eccezionale compagna per Serafino, uomo di grande bontà, ma certamente meno deciso di lei. Indossava sempre una coppola scura, calata sugli occhi. Di bassa statura rispetto alla nonna – fatto che gli aveva procurato la delusione di non essere accettato nel corpo degli Alpini che teneva in grande considerazione – fumava la pipa e certi sigari toscani dei quali mi pare di sentire ancora l’odore. Il suo nome ben si addiceva al suo carattere: la sua semplicità e il suo candore, infatti, erano disarmanti. A prova, voglio raccontarvi un episodio narratomi dalla mamma.
A una certa età si era dedicato all’allevamento dei canarini, ai quali, con un fischietto, insegnava a cantare. Ebbene, un giorno una delle figlie che aveva invano cercato il suo reggiseno, lo trovò nella gabbia degli uccelli. Serafino, senza alcun imbarazzo, ammise di averlo prelevato perché i volatili avevano bisogno di un nido e quell’aggeggio gli era parso molto adatto allo scopo…
Questa passione per gli uccelli che aveva trasmesso a mia madre, ma soprattutto al figlio Colombo, che in realtà si chiamava Tranquillo, ma aveva ricevuto quel soprannome per la cattiva abitudine di mangiare in fretta come il volatile, mi porta a ritenere che amasse gli animali, e che, anche se da giovane era stato cacciatore, lo avesse fatto per procurare un po’ di carne alla famiglia più che per passione. Lo rivedo, ormai anziano e magro, in piedi accanto alla finestra della stua, mentre si sbarba, immergendo con calma il pennello nell’acqua calda di un piccolo bricco di rame che conservo ancora. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo quando era giovane, così come appare in una foto con i suoi fratelli, tra i quali spicca per gli occhi vivacissimi, così simili a quelli della mia mamma. L’unico difetto che gli ho sentito attribuire è quello, da buon veneto, di aver frequentato l’osteria per farsi qualche ombra, a volte, tuttavia, eccedendo un po’, pur restando sempre un uomo mite e pacato, com’era sua natura.
Nel 1956 i nonni festeggiarono i sessant’anni di matrimonio. Purtroppo, solo due anni dopo, come già era accaduto ai tempi della cosiddetta influenza spagnola, responsabile della morte di alcuni dei miei zii, un nuovo virus, l’asiatica, colpì la famiglia Soppelsa, portandosi via Serafino. Messa ancora una volta a dura prova dalla vita, Vittoria gli sopravvisse undici anni, fortunatamente potendo contare sull’amorevole assistenza della figlia Alma, custode della loro memoria nella casa ai Coi che ancor oggi, malgrado alcuni cambiamenti di poco conto, rende viva testimonianza delle abitudini e del carattere di questa famiglia cencenighese che in essa ha trascorso tanti anni della propria vita. Una famiglia, i Soppelsa, la cui onestà, laboriosità e dignità mostrata nelle dure avversità che ha dovuto affrontare, mi riempie d’orgoglio per esserne discendente.