Archivio di Novembre, 2022

La memoria di Marcinelle

di Walter Basso

Si dice che la storia sia maestra di vita, ma molte volte, purtroppo, la storia ha la memoria corta. O meglio, gli uomini che la fanno, hanno la memoria corta. Nel corso degli anni, dei secoli, sono state innumerevoli le stragi che hanno colpito l’umanità: a volte sono state provocate dalle guerre, altre volte da calamità naturali o dall’incuria dell’uomo. Nella maggior parte dei casi questi eventi si ricordano negli anniversari, con interventi politici che talvolta sono semplicemente appuntamenti di routine in un mondo dominato dalla velocità e dall’interesse.

Si tiene un breve discorso davanti ai monumenti che riportano sfilze di nomi e di date, si appoggia una corona di fiori e poi via al prossimo impegno. Ma chi non dimentica sono i familiari delle infinite vittime, per i quali il tempo si è congelato nel dolore per la perdita di un figlio, di un padre, un marito, un fratello. E poi ci sono coloro che quella particolare strage l’hanno vissuta, o perché hanno avuto la fortuna di essere stati graziati, oppure per aver partecipato ai soccorsi, al recupero di chi è rimasto ferito o peggio ha perso la vita.

Questa mia riflessione è nata quando gli Amici della Sezione Alpini di Vigonza Padova mi hanno invitato a partecipare al compleanno di un ex minatore che già conoscevo, ma solo telefonicamente, perché mi aveva dato una mano per raccogliere i dati per il mio libro Carne da miniera dedicato ai minatori morti in incidenti nelle miniere belghe.

La persona straordinaria alla quale voglio dedicare quest’articolo si chiama Lino Rota. Abita a Nembro con la moglie Mariuccia, una donna dolcissima, il suo braccio destro di tutta la vita. Ma perché voglio parlarvi di lui e cos’ha di straordinario Lino? Beh, per me tutta la sua vita è straordinaria, ma l’apice lo ha raggiunto quando nel 1956, esattamente l’8 agosto, è stato chiamato come soccorritore alla miniera Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio, nel tragico teatro della terza più grande strage che ha coinvolto i nostri avi, dove hanno trovato la morte ben 262 uomini, dei quali 136 italiani.

Lino oggi ha occhi saggi e sereni, ma questi suoi occhi hanno visto l’orrore puro, la disperazione di tante, troppe donne, ha visto piangere troppi orfani, ha respirato l’odore della morte, ha rischiato la vita per cercare qualcuno vivo nell’inferno.

Tutti noi abbiamo sentito parlare, letto o visto film di questa immane tragedia che ha reso martiri tutti questi uomini (il più giovane aveva quattordici anni) condannati a una morte orrenda tra fiamme e fumo da un patto scellerato tra i due Stati, Italia e Belgio. Ma una cosa è sentirne parlare o leggerne, un’altra è viverla. Lino, il minatore italiano entrato nel ’48 nel bacino carbonifero di Charleroi, il soccorritore, il porion poi, dal sorriso limpido, oggi ha occhi saggi e sereni, ma questi suoi occhi hanno visto l’orrore puro, la disperazione di tante, troppe donne, ha visto piangere troppi orfani, ha respirato l’odore della morte, ha rischiato la vita per cercare qualcuno vivo nell’inferno.

Lino da giovane nel bacino di Charleroi

Lino è stato davanti a me, a raccontarmi il buio dei pozzi, mentre i tanti che hanno vissuto quegli infiniti giorni di fuoco e fumo come sconosciuti eroi non ci sono più. È uno degli ultimi preziosi testimoni e merita di essere ringraziato ancor oggi, oltre che essere ascoltato, soprattutto dalle nuove generazioni. Inoltre, dovrebbe essere onorato come si onorano gli eroi veri: perché lui, dopo aver visto l’inimmaginabile a Marcinelle, non ha mollato tutto, ma ha continuato a lavorare in miniera, non un mese o un anno, ma fino al ’74, quando è tornato in Italia.

Ma dal suo cuore i ricordi del carbone, delle gallerie, dei vagoncini, delle lampade, non mai è riuscito a cacciarli e così, pezzo su pezzo, con il supporto della sua Mariuccia, a Nembro ha costruito il “suo” museo, riassunto completo di una vita sì di sacrificio dentro e sopra una miniera, ma soprattutto di coraggio, di dignità, di amore. Il museo, allestito in una cavità della roccia e denominato dal Comune di Nembro “Piazzetta dell’Emigrante”, è stato ricostruito come l’entrata di una miniera di fronte alla quale poteva trovarsi un emigrato italiano.

Questi sono i veri eroi: Lino, mio padre, mio zio e tutte le migliaia di minatori di tutto il mondo.

Nel corso di tutti questi anni è stato fortemente arricchito di testimonianze preziose e dal grande valore storico (attrezzi, materiali, documenti e foto), grazie all’impegno della famiglia Rota nel recuperare oggetti direttamente in Belgio. Tutti gli elementi che compongono il museo sono stati catalogati come “Collezione Lino Rota”. Un riassunto visivo, che merita di essere visitato con lo stesso spirito con il quale si visita una chiesa: rispetto e riflessione.

Lino davanti al museo creato da lui e Mariuccia

Io quel 3 aprile, al pranzo, ho visto un momento Lino commuoversi e vedendo quelle lacrime solcare il suo viso, per un attimo ho rivisto mio padre, anche lui minatore, e così impulsivamente l’ho stretto a me immaginando di stringere lui. Per immaginare di ringraziarlo dopo tanti anni che è lontano da me. Ecco, questi sono i veri eroi: Lino, mio padre, mio zio e tutte le migliaia di minatori di tutto il mondo. E anche se le istituzioni non sempre se ne ricordano, siamo noi figli di questi uomini, spesso abbandonati dalle loro patrie, che ci hanno lasciato morendo sotto terra comi i topi, o soffocati negli ospedali, nell’indifferenza dei grandi politici, che li ammiriamo e li ringraziamo.

Per questo io dico: grazie Lino per quello che sei stato e per quello che sei, grazie Mariuccia per il tuo amore e l’aiuto che gli dai, e grazie a voi amici Alpini di Vigonza per avermi voluto insieme a condividere il compleanno di un Uomo Vero che non dimenticherò.

Mariuccia e Lino

Da Valmorel alla Svizzera

Giacomo De Barba nacque a Valmorel il 9 novembre 1934 e fu battezzato con il nome di Giacomino. Era il quarto di cinque fratelli. La sua era una famiglia contadina e tutti i figli, fin da piccoli, hanno dovuto dare il loro contributo al bilancio familiare. Di tanto in tanto affrontavano a piedi diversi chilometri per arrivare fino a Belluno, dove vendevano polenta e formaggio.

All’età di quattordici anni, Giacomo si trasferì con la famiglia a valle, a Limana, dove presero in gestione una fattoria. A vent’anni ebbe un’ulcera gastrica che lo costrinse a rimanere in ospedale per sei settimane. Quell’esperienza lo portò a rimanere affascinato dalla medicina, tanto che si iscrisse a un corso di formazione come infermiere a Belluno.

L’idea iniziale era quella di un’emigrazione temporanea, ma le cose andarono diversamente.

Il lungo cammino tra la fattoria paterna e la sede del corso lo percorreva sempre a piedi. Nacque così il desiderio di possedere una Lambretta per potersi spostare più agevolmente. Si presentò l’occasione di poter guadagnare in breve tempo i soldi necessari a realizzare questo desiderio. Dopo alcuni mesi di frequentazione del corso, arrivò infatti a Belluno la signora Ines Mayer, la delegata dell’allora Viscosuisse, la fabbrica di filati di Emmen, in Svizzera. La signora Mayer aveva il compito di reclutare nuovi operai e Giacomo approfittò di questa opportunità lavorativa e si candidò per un posto. Tra duecento persone, ne furono selezionate venti, e lui fu tra queste.
A ventun anni, quindi, lasciò l’Italia. L’idea iniziale era quella di un’emigrazione temporanea, ma le cose andarono diversamente.

In quel periodo a Emmen andava spesso a pranzare al ristorante Sonne. Fu lì che si innamorò di Margrith Stadelmann. Presto i due si sposarono e nel 1957 nacque la loro prima figlia, Carmen. Un anno dopo arrivò Ingrid. Nel 1965 nacque infine la terza figlia, Antonietta. Per la giovane famiglia non furono anni facili. Oltre che nel lavoro a turni, Giacomo era impegnato anche presso la libreria Stocker e nel frattempo svolgeva un percorso di formazione come capo reparto.

Nel 1983 riuscì a fare una grandiosa scoperta nel campo della ricerca sul filo, che fu successivamente brevettata. Da allora in poi lavorò nel reparto interno di ricerca e aiutò a sviluppare il monofilo, che tuttora è l’unico prodotto che l’azienda porta avanti.

Il suo vecchio sogno di ritornare in Italia dopo il pensionamento e vivere nella casa che aveva costruito negli anni ‘60 non si realizzò mai.

Il movimento era tutto per lui. Infatti, oltre al lavoro, Giacomo aveva numerose attività e hobby: andare in bicicletta, andare a sciare, andare in montagna e nuotare. Se si fossero contati tutti i chilometri percorsi, avrebbe certamente fatto più volte il giro della terra. Amava la natura, il mondo dei volatili e curava con grande amore il suo splendido orticello. Trascorreva con piacere parte del suo tempo libero presso la Missione Cattolica Italiana, dove aveva modo di incontrare i suoi amici connazionali. Cucinava con passione e deliziava centinaia di persone con la sua ottima cucina.

È stato socio, per decenni, di diverse realtà: i Donatori di sangue, gli Alpini e la Bellunesi nel Mondo. È stato per anni attivo anche nel corpo dei vigili del fuoco aziendale, dove ha conseguito il ruolo di “comandante”. Il suo vecchio sogno di ritornare in Italia dopo il pensionamento e vivere nella casa che aveva costruito negli anni ‘60 non si realizzò mai. Margrith e Giacomo rimasero in Svizzera accanto ai loro figli e nipoti.

In Italia, come in Svizzera, Giacomo non si sentiva più pienamente a casa, pertanto, più volte l’anno, lui e Margrith facevano i pendolari tra un Paese e l’altro. L’ultima volta che venne a Belluno volle assolutamente visitare, assieme ai nipoti, il MiM Belluno, il museo dell’Associazione Bellunesi nel Mondo.

Dal ricordo delle figlie

Giacomo De Barba
Giacomo De Barba

Vent’anni di vita in Svizzera

Era arrivata una richiesta al Comune di Alleghe per delle ragazze che volessero lavorare a Rehetobel in una fabbrica tessile, la Volkarht.

Così sono partita nel novembre del 1950. Con me altre compaesane: Cesarina Bertoncini e le sorelle Saminiatelli, Luigina e Isolina. Poi sono arrivate anche Antonietta Dell’Antone, Maria Pellegrini e mia sorella Romana. Dato che la richiesta era arrivata già nel 1946, le prime quattro ragazze erano partite in quell’anno. Tra queste c’era anche mia zia Carmela. Loro però erano già sposate e sono rimaste solo un anno.

La richiesta era arrivata al nostro Comune perché il proprietario della fabbrica, uno svizzero, ad Alleghe aveva un amico.

Francesca Callegari
Francesca Callegari al lavoro sui telai della Volkarht

All’inizio non è stato facile ambientarsi. Non conoscevamo la lingua, il paese era piccolo e ricordo che quando passavamo per strada, da dietro le tendine delle case si vedeva la gente che ci osservava. Eravamo un po’ delle mosche bianche.

Però alla fine abbiamo animato il paese. La domenica andavamo ad aiutare i contadini nei loro lavori, era un po’ il nostro unico svago. Siamo state anche fortunate, perché la moglie del padrone era un’oriunda italiana, e tra l’altro era di Facen, dunque questo ci è stato di grande aiuto e ha fatto sì che ci trovassimo bene.

Sono stati anni davvero molto belli.

Lei parlava italiano e quindi eravamo in una botte di ferro. Poi noi abbiamo pian piano imparato il tedesco. Avevamo anche dei bellissimi appartamenti vicino alla fabbrica. Sono stati anni davvero molto belli. A Rehetobel sono rimasta sette anni, poi ho conosciuto mio marito, Dante Zanella, di Lozzo di Cadore, che lavorava nell’edilizia a Sciaffusa.

Ci siamo sposati il 9 aprile del 1960 e mi sono trasferita lì per tredici anni. Ho lavorato prima alla Bindfaden e alla Schaffhausen Wolle e poi, negli ultimi anni, essendo diventata residente, ho avuto la possibilità di cambiare lavoro senza il permesso della Polizia degli stranieri e quindi sono andata a lavorare in una sartoria, proprio il lavoro che volevo fare. Sono stati gli anni più belli. Purtroppo, però, mio marito si è ammalato e nel 1972, un po’ a malincuore, siamo dovuti rientrare in Italia.

Francesca con un gruppo di colleghe e compaesane davanti alla fabbrica tessile in cui lavoravano

Una giovane nella grande città

Angela, classe 1923, si sta avvicinando al traguardo dei cent’anni. La memoria, a quell’età, a volte vacilla un po’, come è normale. Non potrà mai dimenticare, però, quando nel 1939, appena sedicenne, fece le valigie e partì per Roma, assunta a servizio da una ricca famiglia. Per lei, giovane contadina che fino a quel momento non aveva mai visto altro che il piccolo paesino di Caleipo in cui era nata, il richiamo della capitale, la grande città, era sembrato un’occasione da non perdere, un sogno. D’altra parte, anche le ristrettezze economiche in una famiglia con cinque fratelli, orfani di padre, pesarono sulla scelta.

L’impatto con la realtà, tuttavia, si rivelò più simile a un incubo. «Il padrone – è la prima cosa che racconta, malvolentieri, se le si chiede di parlare di quell’esperienza – tentò di violentarmi. Io scoppiai a piangere e gli dissi che l’avrei riferito alla signora, sua moglie». A portarla nella “città eterna” era stato l’invito di una compaesana, presentatasi un giorno con la notizia che cercavano una “serva” a Roma.

Appena arrivata Angela si era già pentita della sua scelta: «Volevo tornare indietro, ma ormai era troppo tardi».

«Mia mamma non voleva che partissi, perché ero troppo giovane, ma a me sembrava una gran cosa e dissi subito di sì». Così, accompagnata dalla futura padrona, salita a Belluno, fece il tragitto in treno fino a quella che per un anno sarebbe stata la sua nuova casa. Un anno interno. Un’eternità, se si pensa che appena arrivata Angela si era già pentita della sua scelta: «Volevo tornare indietro, ma ormai era troppo tardi».

Con il passare dei giorni le cose non migliorarono. Oltre al comportamento inqualificabile del padrone, il cibo che le fornivano era scarso e la paga era bassa. «Mi davano sessanta lire al mese, mandando tutto direttamente a mia mamma, quindi a me non restava nulla, nemmeno il necessario per comprare un francobollo e spedire una lettera. Per fortuna, due volte ho trovato dieci lire in strada. La prima volta erano sotto un’auto. La seconda, le ho viste mentre andavo a fare la spesa. Il vento le trascinava via e io le rincorrevo», ricorda ridendo. «Con quei soldi sono andata a comprarmi un po’ di pane».

Dopo la disavventura romana, tutta un’altra storia furono i tre anni trascorsi tra Milano e Como. «A Milano, ero da una contessa in via Monte Napoleone, facevo la cameriera. La cuoca era una mia amica e poco distante, da un famoso avvocato, lavorava mia sorella. Lì mi sono trovata davvero bene. Guadagnavo centocinquanta lire al mese ed ero trattata con affetto. Ricordo che un giorno la cuoca era assente. Ho cucinato io e la signora mi ha fatto i complimenti: “Questa minestra è più buona di quella che fa la cuoca”, mi ha detto».

«I padroni erano amareggiati, perché si erano affezionati. Ma mia mamma era malata e dovevo tornare per assisterla. Mi è dispiaciuto andarmene, ma non potevo fare altrimenti».

Nel 1940 l’Italia entrò in guerra e il capoluogo lombardo iniziò a subire i bombardamenti alleati. Chi poteva, fuggiva. «La contessa aveva una villa a Como. Ci siamo trasferiti lì, in un posto bellissimo». Un po’ a malincuore, nel 1943 Angela dovette fare le valigie e rientrare a Belluno. «I padroni erano amareggiati, perché si erano affezionati. Ma mia mamma era malata e dovevo tornare per assisterla. Mi è dispiaciuto andarmene, ma non potevo fare altrimenti». Da Roma, intanto, i vecchi datori di lavoro avrebbero voluto riavere Angela con loro. «Hanno scritto chiedendomi di tornare. Gli ho risposto che non ci sarei andata per nulla al mondo».

L’esperienza di emigrazione si concluse così. Una volta a Belluno, dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca, nel 1944 Angela si unì alla Resistenza come staffetta, nome di battaglia: Novella. «Mio fratello Gino era a capo di un gruppo di partigiani di stanza a Cirvoi. Per loro andavo fino a un deposito poco fuori Belluno a prendere prosciutti. Li mettevo in una borsa e li portavo a casa, riposti nel foro di una stufa a mattoni. Lui veniva a prenderli e mi consegnava le missive da recapitare a Quantin. Quelle le portavo nascoste negli scarponi». Non solo messaggi e rifornimenti. «Una volta Gino mi aveva portato un sacco pieno di bombe a mano da nascondere in soffitta. Mi aveva anche spiegato, nel caso ce ne fosse stato bisogno, come usarle», le torna in mente con un pizzico di allegria.

Un giorno, durante una rappresaglia nazista nella vicina Castion, sentì gli spari e il sibilo dei proiettili. «Sono corsa a recuperare le bombe per nasconderle. Se le avessero trovate, ci avrebbero incendiato la casa». Tutto finì con la Liberazione. «Un giorno felice. Con mia sorella abbiamo raggiunto una collina dalla quale potevamo osservare Belluno. Si vedevano i tedeschi sfilare in ritirata, con cavali e camionette. Uno spettacolo». A ostilità terminate si sposò, fece famiglia e rimase sempre nella “sua” Belluno.

Nel dopoguerra fu il fratello Giovanni a fare le valigie e a salpare verso l’Argentina, «dove ha vissuto sempre con una forte nostalgia, tanto che l’unica volta che è venuto in Italia per una vacanza, arrivato si è inginocchiato a baciare la terra», spiega Angela. Giovanni non tornò mai più al suo paese. Morì dall’altra parte dell’oceano. Ma questa è un’altra storia.