Archivio di Aprile, 2023

Le memorie dal sottosuolo di Amedeo Grillo

Una frase che fa impressione. E che permette di comprendere quanto terribile potesse essere la vita del minatore. «C’era un collega toscano. Malediva i suoi genitori per averlo fatto nascere perché lavorava in miniera». A pronunciarla è Amedeo Grillo, ricordando gli anni trascorsi in Belgio. Otto ore al giorno, tutti i giorni, nelle viscere della terra. 

Oggi Amedeo, partito da Alano di Piave per faticare e respirare polvere nel sottosuolo del Pays Noir, non c’è più. Se n’è andato già da qualche anno ma, per fortuna, ha lasciato la sua testimonianza, ritratto del sacrificio di centinaia di bellunesi e di migliaia di italiani che, come lui, sono stati protagonisti di quella pagina della nostra emigrazione significativamente ribattezzata “Uomini in cambio di carbone”.

Lui era uno di quegli uomini che il protocollo tra Italia e Belgio del 1946 spedì proprio a cavar carbone. Giù, con «un grande ascensore», fino a settecentocinquanta metri di profondità. «Mi hanno consegnato a un altro minatore che aveva esperienza e mi hanno fatto fare due-tre giorni di tirocinio, dopodiché ho cominciato». Il primo giorno di “mina” è un’esperienza che non si dimentica facilmente.

«Quando ho iniziato è stato brutto perché mi hanno portato in una galleria con un polacco con il quale non riuscivo a parlare. Mi ha accompagnato in questa galleria solo per farmela vedere, e mi sembrava che a battere sarebbe cascato tutto». 
In miniera, il rischio è sopra la testa, è tutto intorno, ma guai a pensarci. «Se pensi ai pericoli – assicura Amedeo – non entri più». 

«Ho avuto tanta paura perché credevo di non uscirne più. Un’altra volta è franato tutto e mi sono fatto male, tre vertebre fratturate».

Lui di spavento ne ha preso un bel po’. «Il sole non arriva mai laggiù, è sempre buio. La lampada è come un fiammifero e bisogna vedere con cosa si lavora. Ho lavorato un mese su un filone alto venti centimetri, cose che uno non ci crede se non lo vede. La lampada non stava in piedi e bisognava lavorare con una mano sola. Una volta sono venuti giù dei pezzi di roccia, da sopra, che pesavano tre o quattro chili.

Ero buttato giù, con la pancia di sotto, perché bisognava lavorare così. Si sono staccati questi blocchi di roccia e non potevo andare né avanti né indietro. Ho chiesto aiuto e un polacco che era lì vicino è venuto con un pezzo di legno a liberarmi. Ho avuto tanta paura perché credevo di non uscirne più. Un’altra volta è franato tutto e mi sono fatto male, tre vertebre fratturate». 

Amedeo lavorava a Boussu, non troppo distante da Charleroi. L’8 agosto del 1956 andò a vedere ciò che era accaduto a Marcinelle. «Ma non si poteva pensare a quanto successo, perché altrimenti non ci vai più a lavorare. Ovviamente c’era tanto pericolo e bisognava sempre avere la testa sulle spalle. Si contava ogni minuto, perché a volte finivi dopo le otto ore, altre volte finivi presto e dovevi aspettare il resto del tempo». 

La miniera di La sentinelle, dove Amedeo lavorava

Addirittura, in qualche modo si è sentito fortunato. «Nella mina dove ho lavorato io mi pare ci siano stati due morti in cinque anni, mentre nelle altre ce n’erano tanti di più».

Dopo cinque anni di Belgio, il ritorno in Italia, per poi ripartire di nuovo. «Un amico mi ha chiesto se volevo andare in Svizzera. Abbiamo fatto un contratto e in due mesi sono andato, per rimanere undici anni. Ho trovato un lavoro da tessitore, facevo tappeti in una fabbrica». 

Là – ricorda Amedeo – non era pericoloso. Però anche in terra elvetica le cose non erano semplici. Qualche guaio c’era. «La vita in Belgio era meglio che in Svizzera, perché tra gli svizzeri non ho trovato tanti amici. In Belgio si facevano delle feste fenomenali, ad esempio per Santa Barbara, mentre in Svizzera, i primi tempi, non si poteva andare neanche al bar, si andava solo in quelli con gli altri italiani».

Meglio evitare, insomma, l’ostilità xenofoba che in quegli anni prendeva di mira gli immigrati italiani, quelli che – diceva qualche svizzero, aizzato dalla ben nota propaganda politica nazionalista – “rubavano il lavoro” alla gente del posto.

Ritornando con la mente al Belgio, Amedeo ricorda perfettamente il motivo per cui era emigrato. E soprattuto la necessità di accettare un mestiere particolarmente difficile. «Sapevo già che sarei andato a lavorare in miniera, perché avevo dai cugini là, anche loro lavoravano in miniera. Mi avevano spiegato che il lavoro era brutto e pericoloso, ma a quei tempi bisognava adattarsi». 

Amedeo Grillo alla fine del suo turno

Il massacro di Ludlow

I never will forget the look on the faces / Of the men and women that awful day / When we stood around to preach their funerals / And lay the corpses of the dead away. “Non dimenticherò mai lo sguardo sui volti / Degli uomini e delle donne quel terribile giorno / Quando ci fermammo a predicare i loro funerali / E deponemmo i cadaveri dei morti”.

È un verso della canzone Ludlow Massacre, di Woody Guthrie, canzone che ricorda il massacro di Ludlow, in Colorado, avvenuto il 20 aprile del 1914. 

It was early springtime when the strike was on, cantava Guthrie. “Era inizio primavera quando lo sciopero era in corso”. They drove us miners out of doors / Out from the houses that the Company owned, “Hanno cacciato noi minatori fuori di casa / Fuori dalle case che la Compagnia possedeva”, We moved into tents up at old Ludlow, “Ci siamo trasferiti nelle tende nella vecchia Ludlow”.

Lo scenario è questo. I minatori di Ludlow sono in sciopero. Protestano per il trattamento riservato loro dai proprietari delle miniere e dalle loro guardie private, e soprattutto per la situazione di insicurezza nella quale sono costretti a lavorare. 

… le famiglie dei lavoratori erano state sloggiate dalle case dove abitavano, di proprietà delle compagnie minerarie. Si erano rifugiate in un accampamento nonostante le temperature rigide…

«Agli inizi del Novecento – scrive Enzo Caffarelli nel Dizionario enciclopedico della migrazioni italiane nel mondo – il tasso di incidenti mortali nelle miniere del Colorado era circa il doppio della media nazionale». 

Le proteste dei lavoratori vengono represse con i metodi più brutali. Ed è così che avviene il tragico episodio ricordato nella canzone. «A causa dello sciopero – ricorda ancora Caffarelli – le famiglie dei lavoratori erano state sloggiate dalle case dove abitavano, di proprietà delle compagnie minerarie. Si erano rifugiate in un accampamento nonostante le temperature rigide, su un terreno pubblico coperto dalla neve». 

Ai proprietari (guidati dalla Colorado Fuel and Iron Company), però, non bastava aver lasciato i dipendenti in mezzo a una strada. «Con un attacco ben organizzato – riporta Caffarelli – le guardie spararono sull’accampamento e poi gli diedero fuoco, provocando la morte di venti persone, di cui dodici fra donne e bambini. I lavoratori in sciopero erano italiani, greci, slavi e messicani. Tra i cognomi italiani delle vittime: Bartolotti, Pedregon, Petrucci, Rubino». 

Nei giorni successivi, altre persone coinvolte nelle proteste furono sequestrate e assassinate.

We took some cement and walled that cave up / Where you killed these thirteen children inside / I said, “God bless the Mine Workers’ Union,” / And then I hung my head and cried. “Abbiamo preso del cemento e murato quella caverna / Dove sono stati uccisi quei bambini / Ho detto: “Dio benedica il sindacato dei minatori” / Poi ho abbassato la testa e ho pianto”.

Monumento eretto dalla United Mine Workers of America.
(By M. W.; derivative work: Ori.livneh – Ludlow_monument_2.jpg; original source: ludlow monument 2 in Flickr, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10112105)

I Centri di emigrazione

Risale al 15 aprile del 1948 il decreto legislativo (numero 381) con cui di fatto si istituivano i Centri di emigrazione. L’obiettivo era raggruppare, selezionare e assistere in tutte le fasi della partenza e del rimpatrio gli emigranti e le loro famiglie. 

Centri di emigrazione furono attivi a Genova, Milano, Torino, Napoli, Messina e Verona. 

«Queste strutture – spiega Toni Ricciardi nel Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo – erano organizzate e concepite in ogni singolo dettaglio, tanto da essere provviste di ampi dormitori, di mense, di sale mediche in cui venivano effettuate le visite da parte delle delegazioni straniere e dove non mancavano mai spazi dedicati alla cura delle anime e dello spirito». 

L’Italia fu probabilmente il primo Paese occidentale a darsi un sistema di collocamento internazionale.

Delegazioni straniere. Erano quelle dei Paesi con cui l’Italia aveva stipulato degli accordi di reclutamento di manodopera. Grazie a tali Centri, dunque, – scrive ancora Ricciardi – «l’Italia fu probabilmente il primo Paese occidentale a darsi un sistema di collocamento internazionale». 

Oggi queste strutture sono state dismesse o si sono trasformate in Centri di gestione dei flussi in ingresso.

Conclude Ricciardi: «Se per quanto concerne l’emigrazione transoceanica questi Centri assolsero a pieno alle funzioni per le quali furono realizzati, per quanto concerne l’emigrazione continentale (stando alle cifre del flusso che interessò queste direttrici) gli stessi Centri non furono in grado di gestire l’enorme quantità delle uscite verso l’Europa, nonostante gli ingenti investimenti da parte dello Stato».

Stazione Centrale di Milano, 1963. Foto di Uliano Lucas tratta da www.milanoattraverso.it.

Pasqua alla fine del mondo

Di Ernestina Dalla Corte Lucio

La Pasqua in Argentina rappresenta per tutti un momento di pausa, famiglia, relax e tante delizie. 

L’Argentina è un Paese cattolico con all’interno – tra le tante – due collettività di migranti molto importanti che celebrano la Pasqua: gli spagnoli e gli italiani. Più della metà degli argentini ha almeno un antenato italiano. Tanti sono veneti e bellunesi che hanno cercato di mantenere vive le tradizioni religiose e gastronomiche dei territori di origine. Ecco allora che il tempo pasquale è particolarmente sentito e partecipato per le famiglie italo argentine anche alla fine del mondo.

Nell’emisfero Sud, questo periodo non segna l’inizio della primavera, come in Italia, bensì dell’autunno. In ogni caso, il bel tempo di fine estate ancora ci accompagna e sebbene le foglie inizino a cadere, si cerca di allestire le proprie case con uova colorate e fiori.

È tradizione passare la Pasqua in famiglia, pranzando insieme all’aria aperta. Sfortunatamente, una tradizione che non abbiamo conservato dall’Italia è quella della Pasquetta: niente lunedì dell’Angelo, qui. Si compensa, però, con un weekend “extra large” che nemmeno a Natale è così lungo. Quattro giorni festivi: giovedì, venerdì Santo con la Via Crucis, il sabato di Gloria e la domenica di Pasqua.

… in Argentina non c’è la Colomba. Qui c’è la “Rosca di Pascua”, una deliziosa ciambella con canditi

Di solito le famiglie approfittano del fine settimana per trascorrere delle mini vacanze, mentre altri restano a casa e si preparano per la festa più importante della domenica. 

Proprio la domenica, si scambiano uova tra familiari e amici, accompagnati da un buon asado, empanadas de vigilia e una torta speciale di Pasqua.

Un’altra differenza nell’ambito culinario è che in Argentina non c’è la Colomba. Qui c’è la “Rosca di Pascua”, una deliziosa ciambella con canditi. Dentro è vuota e sopra ha la crema pasticciera e delle ciliegie con della granella di zucchero. Riservato ai tempi di Pasqua e all’Epifania, questo dolce di origine galiziana ha subìto alcune modifiche: oltre alla ricetta tradizionale, troviamo quelle fatte con cioccolato e dulce de leche

Visto che durante la settimana Santa la carne viene evitata, una tradizione che si mantiene ogni anno è quella di mangiare il pesce. Protagoniste sono le empanadas de vigilia, ossia empanadas con il ripieno a base di pesce (tonno o sgombro tra gli altri), più cipolla, aglio, peperoni dolci e altre verdure. 

Famiglia, religione, relax e buon cibo sono alcuni degli ingredienti di una Pasqua in Argentina. Una festa che cerca di tramandare le tradizioni ereditate dagli antenati europei mantenendole vive ancora oggi nei discendenti, come fanno tanti dei “nostri” bellunesi nel mondo. 

Rosca di Pascua, immagine tratta da www.sbs.com.au