Archivio di Luglio, 2023

I tumulti antiitaliani di Aussersihl

Una Little Italy, o forse sarebbe meglio dire una Klein Italien, visto che siamo a Zurigo. Questo era il quartiere di Aussersihl. «Una sorta di baraccopoli di italiani», lo definisce lo storico delle migrazioni Toni Ricciardi nel Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo.

Non solo. Era una «“zona rossa”, vista la massiccia presenza di operai socialisti e anarchici». Furono forse queste caratteristiche a farne il teatro di una delle più gravi violenze xenofobe che la storia zurighese abbia mai conosciuto: i cosiddetti “tumulti antiitaliani”.

Alla fine di luglio del 1896, infatti, ad Aussersihl andò in scena una vera e propria “caccia all’italiano” che costrinse centinaia di famiglie a mettersi in fuga.

Ad accendere gli animi e a innescare l’incendio fu l’accoltellamento di un arrotino alsaziano, morto durante una rissa nella notte tra il 25 e il 26 luglio. Il sospetto ricadde su un muratore italiano. Da qui la rivolta, che finì per investire non solo il presunto assassino, ma un’intera comunità.

Il delitto, in sostanza, fece esplodere la rabbia popolare che covava contro gli immigrati giunti dal Bel Paese, capri espiatori di una guerra tra poveri provocata da datori di lavoro interessati ad abbassare il più possibile i salari approfittando della disponibilità degli italiani a lavorare per paghe che gli svizzeri reputavano troppo basse.

Anche allora, una frase che si è poi ripetuta spesso nella storia e che riecheggia ancora ai giorni nostri iniziò a insinuarsi nei discorsi della gente: gli stranieri “rubano il lavoro” ai locali. 

L’irritazione dettata da insicurezza economica e sociale sfociò così nella violenza fisica.

“Il Corriere della Domenica” dà notizia degli scontri.

«La reazione da parte svizzera – scrive Ricciardi – fu molto dura: tutto ciò che nel quartiere era italiano fu distrutto, tanto che l’esercito dovette intervenire per fermare la rappresaglia e riportare l’ordine». Nel frattempo, però, centinaia di persone erano state costrette a lasciare Zurigo per sottrarsi a quelle ritorsioni.

La giornalista Maria Miladinovic, in un articolo del 2021 pubblicato su tvsvizzera.it, riporta: «Il più importante giornale locale, la Neue Zürcher Zeitung (NZZ), in quel periodo scrisse: “Ad Aussersihl, si è gradualmente sviluppata una profonda amarezza contro i lavoratori italiani immigrati, muratori e lavoratori della terra. La ragione di questa agitazione non ingiustificata sono i numerosi tafferugli notturni in cui i focosi figli del Sud, che sanno come evitare le liti e gli scontri da sobri, fanno uso dei loro coltelli, e in cui sono stati commessi cinque omicidi in poco tempo, sempre per mano di italiani ubriachi”».

Tallulah

Tallulah, Louisiana, 21 luglio 1899. Sono le coordinate di un massacro. Un massacro costato la vita a cinque immigrati italiani di Cefalù: Francesco, Giuseppe e Pasquale Di Fatta, proprietari di botteghe di frutta e verdura, Rosario Fiduccia e Giovanni Cerami, anche loro commercianti.

A quanto pare, la scintilla che innescò la tragedia fu provocata da una capra. Proprio così, la capra di Francesco Di Fatta, sorpresa per l’ennesima volta dal dottor Hodge, il coroner della cittadina, sul suo terreno. 

Hodge uccise l’animale, scatenando l’ira del proprietario. Di Fatta e il coroner ebbero un diverbio animato, che prestò sfociò in uno scontro fisico e poi a fuoco: Hodge, infatti, iniziò a sparare dentro la bottega dell’italiano, mettendo in allarme i fratelli di quest’ultimo. 

Giuseppe e Pasquale accorsero in aiuto di Francesco. Con loro anche Rosario e Giovanni. Questi ultimi e Francesco finirono in carcere. 

Carcere che, nottetempo, fu preso d’assaltato da una folla di circa trecento persone, decise a farla pagare agli italiani. Una volta prelevati i tre detenuti, gli assalitori andarono in cerca degli altri due presunti responsabili di aver attentato alla vita del dottor Hodge. Tutti e cinque furono portati nel bosco e impiccati.

L’episodio suscitò indignazione e sconcerto in Italia. Il Governo avanzò richiesta di risarcimento per le famiglie delle vittime, ottenendolo nel 1901. Risarcimento tuttavia misero, come testimonia con cinismo una vignetta apparsa su un giornale dell’epoca: «Costano così poco questi italiani, che si potrebbe ammazzarli tutti». Gli autori del linciaggio non pagarono mai per il loro crimine.

A ricordo dei cinque morti, il cantautore Gualtiero Bertelli ha musicato il testo “I cinque poveri italiani linciati a Tallulah in America”, scritto da Antonio Corso:

«Canto per quei linciati, / che laboriosi e onesti, / perché italian nomati / non fu pietà per questi; / In tanta strage, perfidia, orror! / uccisi, appesi qual malfattor, // […] Tradotti alla foresta / son tutti e cinque appesi, / di colpi una tempesta, / atrocità palesi. / Grida di gioia? Infamia, orror! / Aimè! che sento mancarmi il cuor».

Dall’Illinois, una storia tragica ma di grande umanità

di Luisa Carniel

Due fratelli di Arsié sono protagonisti di questa toccante storia di emigrazione: si tratta di Giuseppe e Antonio Arboit, che all’inizio del secolo scorso lasciarono definitivamente il loro paese per trovare lavoro nella contea di Le Salle, Illinois. 

Qui Giuseppe, classe 1875, dopo alcuni anni come dipendente, divenne un commerciante, mentre il fratello minore Antonio, prima della sua tragica fine, era impiegato come autista per un mercato di carne italiana nella cittadina di Oglesby, poi rinominata Portland. Erano figli di Pietro (emigrato anche lui e morto in America) e Maria, i quali avevano avuto dieci figli, metà dei quali erano approdati in Illinois: tra questi, Santo (1880-1968), Angela Teresa (1880-1973, sposata con Giovanni Battista Turra) e Beniamino (1889-1970). 

La sera del 5 aprile 1910 Antonio Arboit e quello che poi diventerà il suo assassino, Modesto Zilioli, un emigrante italiano originario della provincia di Bergamo, si erano ritrovati in un bar e la serata pareva si svolgesse tranquilla, tra chiacchiere e qualche bicchiere. Poco dopo le ventidue i due furono visti uscire insieme dal locale, incamminandosi verso casa in compagnia di un’altra persona. Non si sa cosa sia successo e il motivo che possa aver scatenato la tragedia, ma ad un certo punto Zilioli estrasse un coltello e inferse pochi ma letali colpi alla gola e alla nuca del povero Arboit.

Passarono i giorni, i mesi, gli anni: il fatto fu quasi dimenticato, eccetto che dal fratello Giuseppe, il quale aveva fatto voto di trovare l’assassino di Antonio.

Gli furono prestate cure immediate e poi fu portato in ospedale, dove i medici cercarono in tutti i modi di salvarlo, ma le ferite erano troppo profonde e il malcapitato aveva perso molto sangue, per cui sopraggiunse la morte. Qualcuno disse che forse il movente del folle gesto fosse da ricercare nella gelosia di Zilioli, che aveva visto Arboit parlare con la sua fidanzata: in realtà i veri motivi non sono mai stati chiariti. Nel frattempo l’assassino aveva fatto perdere le sue tracce, come anche il terzo uomo, il possibile testimone. 

Antonio Arboit, che aveva solo venticinque anni, fu sepolto nel cimitero di Oglesby, dove è ancora presente la sua lapide, sulla quale i parenti vollero scrivere “Rapito dalla mano brigantesca nel bel fiore della vita”. Fu emesso un mandato d’arresto per Zilioli (nella foto) e ci fu un’intensa caccia all’uomo con il dispiego di numerose forze di polizia, ma non si riuscì a catturarlo. Passarono i giorni, i mesi, gli anni: il fatto fu quasi dimenticato, eccetto che dal fratello Giuseppe, il quale aveva fatto voto di trovare l’assassino di Antonio. Per questo, segretamente continuava nelle sue ricerche, seguendo ogni pista, non lasciando niente di intentato. 

Un giorno, quasi diciassette anni dopo, venne a sapere che Zilioli era stato visto per le strade di Great Falls, in Montana: così si recò lì e lo affrontò. Giuseppe gli disse apertamente che aveva intenzione di consegnarlo alla polizia. L’uomo non negò di essere stato lui e si scusò dicendo che era stato uno stupido e che era ubriaco, poi aggiunse: «Cosa ne sarà ora della mia famiglia? Ho moglie e cinque figli». Dopo una breve conversazione, Giuseppe si recò nella casa di Zilioli, il quale gli presentò i suoi familiari. «Aveva una brava sposa e bambini educati e gentili» disse Giuseppe Arboit quando ritornò in Illinois.

«Ho riflettuto un po’ e poi mi sono detto che, se lo avessi mandato in prigione, a quella famiglia sarebbe mancato il padre, l’avrei spezzata, mentre niente avrebbe potuto riportare in vita mio fratello Toni. Così me ne sono tornato a casa senza fare niente». Aveva però fatto una grande cosa, non da tutti: aveva saputo perdonare. 

Il fabbricante di distillati

È nelle Dolomiti che ha origine la nostra tradizione familiare di lavorare con le nostre mani. Gli stagnini erano artigiani che fabbricavano e riparavano pentole e padelle di rame. Percorrevano le Alpi innevate con un emporio di attrezzi legati alla schiena per svolgere il loro lavoro.

Valentino Zannantonio Martin era uno di quegli uomini, e questa è la sua storia. Valentino era solo un ragazzo di tredici anni quando i tedeschi invasero il suo villaggio durante la Prima guerra mondiale. Miracolosamente, riuscì a sfuggire alla cattura e a morte certa.

Dieci anni dopo, nel 1927, colse al volo l’opportunità di trasferirsi nel “Paese fortunato” e fare di questa terra la sua nuova casa. Lasciandosi alle spalle Casamazzagno e la moglie incinta, si recò dall’altra parte del mondo, nel remoto deserto di Simpson, nell’Australia centrale.

Per due lunghi anni Valentino sopportò giornate calde e notti solitarie, moscerini e polvere rossa costruendo la Old Ghan Railway Line da Port Augusta ad Alice Springs. Valentino era un uomo di bassa statura, ma il suo senso dell’avventura e la sua determinazione erano enormi. Sapeva che l’Australia era un posto dove con il duro lavoro un uomo poteva costruire una buona vita per la sua famiglia.

All’inizio degli anni Trenta Valentino aprì un laboratorio a McCormac Place, Melbourne, una zona squallida di indesiderabile notorietà. I tempi erano duri e questo era il meglio che poteva permettersi. Tuttavia, la sua reputazione nel campo dell’artigianato superava l’ambiente misero da cui il suo laboratorio era circondato.

I ristoranti iconici di Melbourne, tra cui Florentino e il Victoria Coffee Palace, riconobbero le sue capacità e furono suoi clienti abituali. Valentino era anche noto per fare lo “strano alambicco o due”, abilità – queste – molto “utili” ai migranti italiani che distillavano grappa di contrabbando. Era l’epoca della Grande Depressione e l’alcol di contrabbando era valuta di baratto.

Valentino era “The Stillmaker” e sono orgoglioso fosse mio nonno. La nostra distilleria è dedicata a Valentino, a riconoscenza della sua maestria, del suo carattere forte e del suo cuore gentile. E proprio come il nonno, anche noi siamo artigiani con la passione per la produzione di whisky eccezionale.

Fu dura per mio padre Elio, cresciuto a Melbourne durante la Seconda guerra mondiale come figlio di migranti italiani.

Seguendo le orme di Valentino, mio padre e i suoi fratelli fecero tutti i commercianti, con mani dotate e lo stesso spirito imprenditoriale. Benedetti da una mente brillante per le grandi idee, non avevano paura di correre dei rischi e di “provarci”.

Fu dura per mio padre Elio, cresciuto a Melbourne durante la Seconda guerra mondiale come figlio di migranti italiani. Come la maggior parte degli uomini della sua generazione, non aveva molto da dire sulla sua vita personale. Sono state le cose che abbiamo condiviso a parlarmi di più.

Abbiamo condiviso l’amore per la vita all’aria aperta, il campeggio e il sogno di possedere una fattoria. Alcuni dei miei momenti più felici con mio padre sono stati trascorsi condividendo un whisky accanto al fuoco.

Quando io e Sandy ci siamo conosciuti, lei era ancora al liceo e io ero un apprendista elettrico al primo anno. Eravamo solo una coppia di adolescenti, ma in quei primi giorni sapevamo di essere destinati a stare insieme. Siamo in attività da quarant’anni e abbiamo sperimentato gli alti e bassi tipici della conduzione di piccole imprese.

Sono un uomo di grandi dimensioni, proprio come mio padre e mio nonno. Mentre io ho i sogni, è compito di Sandy far sì che diventino e rimangano reali! Lei gestisce i piccoli dettagli.
Siamo sempre stati una buona combinazione, e più che mai lo siamo stati nel creare la nostra distilleria di whisky single malt australiano su misura.

Nel 2021, in occasione del nostro quarantesimo anniversario di matrimonio, abbiamo riempito una delle nostre bellissime botti di Ruby Port/Rum. Sarà un giorno molto speciale quando imbottiglieremo questa produzione.

Ora sono un nonno con una famiglia meravigliosa e sto realizzando il mio sogno di mantenere in vita le tradizioni della mia famiglia.

Michael Zannantonio Martin, Whisky Maker