Archivio di Settembre, 2023

La chitarra e il mandolino

di Giovanna De Marco

Mio nonno, Attilio De Marco, nato a Seren del Grappa, proveniva da una famiglia di buon livello culturale ed economico che però non aveva saputo gestire le risorse né capire il cambiamento sociale in atto.

Per non perdere il benessere assaporato nell’infanzia, si tuffò nell’avventura dell’emigrazione. Fu ripagato con la realizzazione del suo sogno: una piccola proprietà agricola a Feltre.

Tramite conoscenti trovò lavoro in una miniera di carbone: lavoro pesante, pericoloso per i crolli e per gli scoppi da gas grisù. Erano gli anni Dieci del Novecento, in America, nella città di Thurber, stato del Texas, sede della compagnia mineraria “Texas Pacific & Oil Company” per la quale mio nonno lavorò otto anni consecutivi, tra il 1910 e il 1918.

Le condizioni di lavoro erano comunque decisamente migliorate rispetto alla fine dell’Ottocento e gli orari più ragionevoli.

Trovò vitto e alloggio presso una “Farma” gestita da una famiglia toscana: sicuramente una situazione di privilegio rispetto a quanti viveano in dormitori sovraffollati.

Nel tempo libero, con amici, si dedicava alla caccia, alla pesca, alla musica. Quest’ultima ebbe anche una funzione socializzatrice e – lontano da casa – fu più che mai importante. Dalle fotografie di quel periodo traspare una grande classe e perfino eleganza nel gruppo.

Attilio portò con sé, in Italia, la chitarra e il mandolino, che conserviamo sempre con cura. Non conosciamo purtroppo le musiche che eseguivano. Si presume fossero canzoni napoletane, canti popolari, mazurke e qualche aria d’opera. Tutto aiutava a sentire vicine patria e famiglia, a superare la malinconia e l’isolamento, a rallegrare la compagnia.

La guerra mondiale li colse all’estero. Alcuni dovettero interrompere il loro sogno e tornare in Italia ad arruolarsi e combattere. Altri vennero ingaggiati nelle fabbriche d’armi nel paese in cui si trovano e non combatterono. Mio nonno Attilio fu tra questi ultimi.

Tornò in patria il 3 settembre 1919 con il vapore “Regina D’Italia”, scalo Azzorre e Gibilterra, velocità 143 miglia all’ora, durata del viaggio quattordici giorni.

Thurber, 1916. Attilio De Marco, al centro con il mandolino, assieme ad alcuni amici e colleghi.

Thurber, 1916. Attilio De Marco seduto, a sinistra.

La posta può fare miracoli

Un espresso impiega tre giorni da Piacenza a Belluno. Grazie al ritardo delle poste italiane…

Mi chiamo Lidia Bergonzi. Avevo diciannove anni nel 1956 quando venni a La Chaux-de-Fonds, in Svizzera. Tramite amici conobbi un bellunese, Giuseppe De Biasi, detto Peppino. Ci frequentammo e ci piacemmo, promettendoci mille cose. 

Nel ’58, all’arrivo delle vacanze estive, ognuno partì con la propria famiglia, con il progetto che Peppino venisse a conoscere mia mamma, per poi ripartire con me verso la Svizzera.

Arrivata a Settesorelle, nel mio paese, mia sorella mi propose di trascorrere con lei una settimana nella residenza della sua padrona, sul lago di Como.

Scrissi subito a Peppino di non venire a Settesorelle, spiegando che avevo dei dubbi sulla nostra relazione: io non mi sentivo pronta e invece Peppino, avendo sette anni più di me, era molto più maturo e prendeva la nostra storia troppo sul serio. Nella lettera spiegavo che era meglio lasciarsi. 

Questa famosa lettera arrivò a Belluno poche ore dopo che lui aveva preso il treno. Dopo un lungo viaggio e un paio di scarpe nuove rovinate sul sentiero che portava a casa mia, arrivò finalmente in un paesino sperduto nelle colline piacentine.

Mia mamma lo accolse per la notte e gli disse di lasciar perdere perché io ancora non sapevo cosa volevo. Ma lui, da buon testardo bellunese, voleva avere la mia versione a viva voce. 

L’indomani s’incamminò di nuovo, riprese la corriera, il treno e il battello e arrivò da me a fine giornata, dopo un viaggio sotto un sole soffocante. 

Per me fu una sorpresa vedermelo davanti. Ci spiegammo e capii che mi voleva bene, e che il sentimento era reciproco. Tornammo in Svizzera il giorno dopo. Ci fidanzammo l’anno seguente e, recandomi per la prima volta a Belluno, conobbi la sua famiglia.

Nel ’61 ci sposammo e un anno dopo nacque nostra figlia Daniela, che ci ha portato tante gioie.

Lei ha sposato un bravo ragazzo svizzero e ci ha regalato due meravigliose nipoti, Giulia e Nella, che vengono con piacere a Belluno e cantano tutt’ora le canzoni degli Alpini imparate dal nonno. Nonno in ricordo del quale hanno espresso il desiderio di tenere la casa a Belluno. 

Pur con due caratteri diversi, il nostro percorso è stato felice. Assieme facevamo parte di diverse attività ed eravamo bene integrati in questo paese, a cui abbiamo dato tutto ciò che abbiamo potuto. 

Abbiamo avuto la gioia di festeggiare sessant’anni di matrimonio e i novanta di Peppino. 

Il 23 maggio 2021, Peppino ci ha lasciato dopo quattro anni di malattia. Per noi tutti è stata una grande perdita, però i suoi passi hanno lasciato delle belle impronte. 

Sono fiera di avere sposato il miglior “Belumat”. Se dovessi rifarlo, partirei da capo. Anche lui diceva che ne era valsa la pena, aver rovinato quel paio di scarpe. Cosa sarebbe successo, se la lettera fosse arrivata in tempo? Mistero.
A volte la posta può fare dei miracoli. 

Giuseppe e Lidia

La “nave delle spose”

Il suo viaggio inaugurale avvenne il 14 settembre 1951. Partita da Genova, per la prima volta la turbonave “Sydney” della Flotta Lauro solcò l’oceano in direzione Australia. Giunse a Fremantle il 17 ottobre, per poi continuare verso Melbourne, Sydney e Brisbane.

Il suo nome era appunto “Sydney”, ma era anche conosciuta come la “nave delle spose”, poiché a bordo portava centinaia di ragazze italiane, spesso giovanissime, sposatesi per procura, una tipologia di matrimonio che proprio in quegli anni divenne un fenomeno di massa. Gli uomini, già emigrati e insediatisi nel nuovo Paese, una volta raggiunta una certa stabilità decidevano di sposarsi.

Tuttavia, dato che il biglietto per il viaggio di rientro era costoso, diventò un’abitudine unirsi per procura con donne del paese di provenienza.

«Centinaia di ragazze – scrive Mina Cappussi nel Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo – partirono così per la lontana Australia, salite nei porti di Genova, Napoli, Messina e Malta. Ragazze sprovvedute, ma anche donne navigate per le quali l’Australia rappresentava una possibilità di rifarsi una vita dignitosa. Qualcuna tornò indietro, la maggior parte restò per non deludere la famiglia, per non doversi sottomettere al giudizio del paese e del parentado».

Altre giovani si imbarcavano da nubili e raggiungevano i fidanzati, sposandoli dopo qualche settimane o perfino il giorno stesso dell’arrivo, nella chiesa più vicina alla banchina di attracco.

«È questo il senso – spiega ancora Mina Cappussi – del nomignolo affibbiato alle giovani italiane che giungevano in Australia, ribattezzate, appunto, “spose delle banchine”».

Mattmark. Sdegno e amarezza

Così si pronunciò il Consiglio Comunale di Feltre dopo la sentenza emessa al processo di appello per la tragedia di Mattmark: 

«Il Consiglio comunale di Feltre appresa la notizia riportata dai giornali della sentenza del Tribunale di Sion in Isvizzera dove si è tenuto il processo di secondo grado contro i presunti responsabili della sciagura di Mattmark; 

constatato che detto Tribunale ha confermato l’assoluzione degli imputati per “imprevedibilità del caso”; 

che il Tribunale, superando ogni ragionevole aspettativa dei familiari, i quali si attendevano, non tanto una esemplare condanna, quanto il riconoscimento del loro diritto al risarcimento del danno morale e materiale nei confronti di coloro che omettendo di attuare forme di protezione del lavoro in zone pericolose come il cantiere posto alla base del ghiacciaio Allalin, hanno indirettamente aperto la strada alla sciagura, ha addirittura addebitato con la sentenza le spese processuali ai familiari delle vittime, già provati, oltre che sul piano morale e degli affetti, anche su quello economico per la morte del familiare che in molti casi era l’unica fonte di sostentamento; 

manifesta lo sdegno di tutti i cittadini per questa sentenza che oltre a lasciare impuniti i responsabili, introduce un principio punitivo e scoraggiante per chi ricorre alla Magistratura per far valere i propri diritti umani e civili; 

protesta per le conseguenze che detta sentenza provocherà tra i nostri connazionali che lavorano all’estero in condizioni di costante pericolo, essendo sancito dalla sentenza che i responsabili di cantieri non possono prevedere fatti eccezionali come una frana. 

Invita le autorità del Governo Centrale e di quello Regionale a fare i passi necessari per tutelare e i diritti dei familiari delle vittime e la sicurezza dei lavoratori italiani occupati nei cantieri della Svizzera. 

Feltre, 7 ottobre 1972».

Fonte: Archivio di Stato di Belluno, Prefettura di Belluno, fascicolo: “Sciagura di Mattmark. Assistenza ai familiari delle vittime”.

Clicca QUI per leggere il precedente articolo sul processo di appello.

Mattmark. La beffa

«Un uomo non ha il cartellino del prezzo. Adesso tutto mi sembra addirittura pazzesco. Ho perso un fratello ed ora devo pagare la sua morte. Mai sentita una cosa del genere. Ha il sapore di una crudele buffonata». 
Così un bellunese esprimeva ad un giornalista del Corriere della Sera la propria incredulità e rabbia dopo la sentenza del processo di appello per la catastrofe di Mattmark. Era il 6 ottobre 1972, sette anni dopo quel tragico 30 agosto, e il tribunale cantonale di Sion aveva emesso il suo verdetto. 

Assoluzione di tutti gli imputati, confermando quanto stabilito in primo grado. In più, spese processuali per metà a carico del fisco elvetico e per metà dei parenti delle vittime. Una mazzata inattesa che andava ad aggiungersi all’amarezza per la riconferma che non era possibile avere giustizia. 

Il processo iniziò il 27 settembre. Gli imputati (impresari, tecnici, funzionari federali e della cassa infortuni elvetica, ispettori della sicurezza) erano diciassette, accusati di omicidio “per negligenza”. Come sei mesi prima (il processo di primo grado si era svolto a fine febbraio), il p.m. Antoine Lanwer pronunciò una requisitoria severa contro gli accusati, per poi limitarsi a chiedere semplici pene pecuniarie. Da mille a duemila franchi (circa 150-300 mila lire). 

Gli avvocati di parte civile rinnovarono la loro richiesta di una condanna per il reato di omicidio colposo. La controparte sostenne invece che nessuno avrebbe potuto prevedere la catastrofe. «Per garantire l’incolumità degli operai occupati nei cantieri di Mattmark – affermò uno degli avvocati – sarebbe stato necessario vietare i lavori. Sarebbe stata l’unica garanzia». 

I dibattimenti si conclusero il 29 settembre, e il 5 ottobre arrivò la sentenza, che suscitò reazioni di costernazione e sconcerto in Italia e tra i numerosi lavoratori italiani in Svizzera. I giornali elvetici quasi ignorarono la vicenda, mentre quelli italiani si fecero interpreti del sentimento dell’opinione pubblica, scossa dalla decisione. 

L’Unità titolava: «Per Mattmark nessun colpevole: i familiari pagheranno le spese», La Stampa definiva la sentenza «triste e iniqua», Il Popolo, organo ufficiale della DC, «scandalosa e offensiva». 

Anche tra i parlamentari trapelò irritazione. Il capogruppo socialdemocratico alla Camera, Cariglia, sollecitando il Ministro degli Esteri, Medici, ad un intervento immediato presso il governo svizzero, rilevò come il verdetto costituisse «un ennesimo episodio che confermerebbe l’esistenza di una mentalità preconcetta nei confronti degli emigrati italiani». 

La federazione unitaria degli edili aderenti a Cgil, Cisl e Uil espresse «stupore e indignazione per una vergognosa e inverosimile sentenza che trasforma le vittime in colpevoli, premia gli imputati e indica assoluta mancanza di obiettività e indipendenza rispetto agli interessi della classe imprenditoriale». 

L’inviato speciale del Corriere della Sera a Briga, Vittorio Notarnicola, concludeva amaramente il suo reportage: «Dev’essere proprio vero: i ghiacciai qualche volta cadono e, se qualcuno si trova sotto, la colpa è sua. Peggio per chi muore così, senza aver chiesto il permesso».

(continua)

Clicca QUI per leggere il precedente articolo sul processo di primo grado.

Corriere della Sera, 6 ottobre 1972

Corriere della Sera, 7 ottobre 1972