Archivio di Novembre, 2023

In memoria di Antonio D’Incau

di Marta Mazzucato Emidi

Mai come quest’anno, nel programmare le mie vacanze a Zorzoi, ho sentito il desiderio di trovare una collocazione nel territorio di Sovramonte – al fine di evitare che le stesse possano essere dimenticate o addirittura smarrite – di alcune lettere inviate dall’America tra il 1910 e il 1918 da mio nonno Antonio D’Incau, morto sotto il crollo di una miniera di carbone. 

Sono lettere inviate soprattutto alla sorella che si prendeva cura della figlioletta orfana di madre dall’età di quattro anni. Quella bambina diventerà poi mia madre.

A Sovramonte non esiste una struttura idonea a tale scopo, ma con mia grande sorpresa ho scoperto che a Belluno esiste l’Associazione Bellunesi nel Mondo, che da oltre cinquanta anni raccoglie documenti, fotografie, lettere di emigranti, in una sede con un Centro studi sull’emigrazione denominato “Aletheia”, dotato di archivio, biblioteca, sala proiezioni e la pubblicazione di una rivista mensile “Bellunesi nel mondo”, diffusa in molti paesi, con lo scopo di mantenere vivi sia la memoria del passato sia il legame con i futuri discendenti.

Molto interessato alla conservazione e al recupero di tali documenti, vivace promotore di iniziative volte alla diffusione della memoria, il direttore dell’Associazione, Marco Crepaz, è venuto a Zorzoi per la prima volta. Mi ha fatto conoscere il presidente dell’Abm di Roma, Vittoriano Speranza, bellunese, figlio di emigranti. Anche lui per la prima volta ha visitato Zorzoi in una bella domenica di agosto, godendo di un panorama spettacolare dalla chiesa di San Zenone, con la famiglia.

Mi sono iscritta all’Associazione, ho accolto con entusiasmo la notizia di una probabile, futura istituzione di una sede sull’emigrazione a Sovramonte. Ho la speranza che molti sovramontini possano, un giorno, affidare al museo (il MiM Belluno) foto, lettere dei loro cari, destinate forse all’oblio.

Quale migliore riconoscenza, per una vita di fatiche e di rinunce, che tramandare alla memoria futura il ricordo di tanti sacrifici?

Ma il fatto più straordinario della mia permanenza a Zorzoi è stata la conoscenza casuale di Michela Zannini, una feltrina trasferitasi a Boston, che mi ha aiutato a scoprire il luogo di sepoltura del nonno, il quale, dopo la morte, sembrava sparito nel nulla. Per anni ho cercato sue notizie ma, a causa soprattutto della diversa trascrizione del suo nome e cognome (in alcuni documenti, ad esempio, appare Antoney D’Inko), ogni ricerca risultava vana.

Non so se tutta questa serie di scoperte sia casuale ma, in alcuni momenti, ho avuto la sensazione che fosse lo spirito del nonno a guidare questo percorso.

Grazie alla passione di Michela, impegnata a ricostruire la storia dei suoi antenati, i Dalla Valle, originari di Zorzoi (alcuni dei quali emigrati in America), abbiamo scoperto che Costanza Dalla Valle, nella seconda metà dell’Ottocento sposò Cirillo D’Incau, padre di Antonio, mio nonno. Due vecchie lapidi sul muro di cinta del dismesso cimitero della chiesa di San Zenone a Zorzoi ne testimoniano ancora il ricordo.

Da questo matrimonio potrebbe derivare, forse, il passaggio di proprietà del cosiddetto palazzo Dalla Valle alla famiglia D’Incau.

Abbiamo recuperato gli elenchi degli emigranti imbarcati dal 1910 al 1918 dal porto francese di Le Havre e sbarcati a New York, tra cui molti sovramontini, compreso il nonno.

Fortuna vuole che Michela abbia una cugina vissuta a New Derry, località mineraria della Pennsylvania, dove lavorarono i nostri emigranti. Dai registri della locale chiesa di San Martino, risultano i nominativi dei minatori morti sotto il crollo della miniera nel 1918, sepolti nel cimitero adiacente. Abbiamo recuperato anche il certificato di morte del nonno.

Non so se tutta questa serie di scoperte sia casuale ma, in alcuni momenti, ho avuto la sensazione che fosse lo spirito del nonno a guidare questo percorso. Da poco avevo trovato l’unica sua fotografia e inserito nelle mie preghiere la sua anima, sicuramente dimenticata da tutti e, ancora oggi, mi chiedo se proprio lui abbia voluto far rinascere la sua memoria, ricostruendo un legame con i suoi cari, attraverso la scoperta del luogo della sua sepoltura, che anche l’oceano aveva contribuito ad allontanare.

Non posso dilungarmi oltre, anche se tante altre notizie potrei raccontare! Allo stesso modo, il contenuto delle lettere meriterebbe un “capitolo” a parte.

Zorzoi, piccola frazione di Sovramonte, quasi a ricordare la sua passata grandezza, ha dato le origini a grandi famiglie, sparse in tutto il mondo, alcune delle quali si sono affermate per il loro spirito imprenditoriale.

Della famiglia Dalla Valle, tra le altre, spicca la figura di Benedetto Dalla Valle, grande possidente terriero e allevatore di bestiame, nato nel 1829 e morto nel 1898 a Zorzoi, grande benefattore del paese, come dimostrano le lapidi erette in suo onore nella chiesa della Madonna di Pompei e nel cimitero della chiesa di San Zenone. Quest’ultima, che andrebbe restaurata, recita: 

BENEDETTO DALLA VALLE
MORTO
A LXIX ANNI
IL DI’ 15 APRILE
1898
ZORZOI RICONOSCENTE
POSE

Da Rocca Pietore al Sudafrica

Nel marzo del 1947, dopo aver lavorato per circa due anni all’ospedale di Feltre, sono andata in Svizzera. Avevo 18 anni. Lo stesso anno ho conosciuto Adelio De Vallier. Nel 1948 ci siamo sposati e nel 1949 è nata la nostra prima figlia, Diana. Dopo due anni è nato Walter. Poi, visto che la famiglia contava già quattro persone, avevamo deciso di fermarci.

Mio marito un giorno arrivò a casa con un libro che aveva acquistato: lo lesse, lo rilesse, lo studiò molto attentamente. Si intitolava “Cosa fare per avere o non avere figli”. Morale della favola, ne sono nati altri due!
Tornando alla Svizzera, ricordo con una certa rabbia e tanta umiliazione la visita cui ci sottoposero appena giunti a Chiasso: tutte noi donne nude in un grande stanzone per la disinfestazione!

Dopo alcuni anni in Svizzera, mio marito vide sul giornale che una ditta del Sudafrica cercava operai. Incerto sul futuro dell’Europa – temeva lo scoppio di un’altra guerra – inviò una lettera a Pretoria chiedendo un contratto di lavoro. Gli fu risposto che erano spiacenti, ma non avevano più disponibilità di posti di lavoro.
Dopo non molto venne a trovarci un nostro amico, emigrato in Australia, che ci consigliò di scrivere un’altra lettera, questa volta in inglese, cosa che Delio fece immediatamente con il suo aiuto.

Con la prospettiva di trasferirsi in Sudafrica, mio marito cominciò a studiare l’inglese, per essere pronto ad affrontare questa nuova realtà. Il tempo passava e non si otteneva risposta. Dopo un anno, finalmente, arrivò la lettera che lo informava che il contratto di lavoro era pronto. Io ero incinta del terzo figlio, per cui Delio partì da solo: io l’avrei raggiunto in seguito con tutta la famiglia.

Gianni nacque nel luglio del 1958. Il settembre successivo lasciammo Neuchatel e arrivammo ad Amsterdam, dove avevamo l’albergo prenotato (Delio aveva pensato a tutto!). Era proprio un albergo lussuoso, l’Hotel Regina, con una stanza meravigliosa. Il giorno seguente, un taxi ci portò al porto e la sera ci imbarcammo sulla nave Duncan. Era il 26 settembre 1958.

Diana e Walter salutano la vecchia Europa

Devo dire che gli inglesi furono proprio gentili con me. Appena videro che avevo tre bambini, il più piccolo di appena due mesi, mi aiutarono in tutti i modi possibili, sbrigando in fretta le formalità doganali, facendomi salire per prima (la coda di chi si imbarcava era interminabile), accompagnandomi e facendomi sistemare nella nostra cabina. Dopo aver fatto scalo a Las Palmas, proseguimmo verso Sud.

Delio lavorava dodici ore al giorno, io restavo a casa ad accudire i figli. In un anno abbiamo pagato tutti i mobili, metà spese del viaggio e il terreno per fabbricare.

Quanto mal di mare ho sofferto… E mentre io me ne stavo rinchiusa in cabina, Diana e Walter scorrazzavano felici per tutta la nave. Non solo stavo male, ma ero anche preoccupata che capitasse loro qualcosa. Fortunatamente, tutto andò liscio.
Arrivammo a Città del Capo il 13 ottobre. Da lì ci aspettavano altri due giorni di treno per raggiungere Vanderbijl Park, dove si trovava Delio.

Sulla nave, Walter col fratellino Gianni


Avevamo a disposizione un intero vagone ferroviario, quasi un appartamento, con i letti e i pasti serviti, visto che avevo il piccolo cui badare, mentre i due grandi venivano accompagnati al vagone ristorante.
Delio mi aveva scritto che la ditta gli aveva dato in affitto una bella casa con il giardino e siccome a me piaceva tanto la polenta, avevo messo nel bagaglio un bel po’ di semi di granoturco con l’idea di seminarli nel nostro giardino. Ma guardando dal finestrino del treno in corsa non vedevo altro che distese e distese di granoturco. Non sapevo che quella pianta fosse la base dell’alimentazione della popolazione di colore.

Loro, infatti, non fanno mai a meno della polenta, anche quando mangiano pastasciutta. La fanno come noi, solo che è molto più dura e sempre bianca. Fortuna che è andata così, perché quando mi recapitarono la cassa con i miei bagagli e aprii il sacchetto del granoturco, la stanza si riempì di centinaia di farfalle: il granoturco era sparito.

Così ebbe inizio la nostra vita in Sudafrica. Delio lavorava dodici ore al giorno, io restavo a casa ad accudire i figli. In un anno abbiamo pagato tutti i mobili, metà spese del viaggio (l’altra metà l’aveva pagata la ditta) e il terreno per fabbricare. Delio, infatti, aveva detto: «Sento che mi fermerò qui, perciò invece di pagare l’affitto è meglio che ci costruiamo la casa».

L’anno seguente ottenemmo un prestito dalla banca e costruimmo la nostra prima abitazione in Sudafrica. La nostra preoccupazione maggiore fu quella di far imparare l’inglese ai nostri figli e quindi li mandammo a scuola al convento delle suore. Siamo tornati per una visita a Laste dopo undici anni, nel 1969. Il viaggio costava molto, ma quella volta abbiamo preso l’aereo.

In Sudafrica siamo rimasti per quarant’anni, prima a Vanderbijl Park, poi a Johannesburg. Abbiamo passato degli anni bellissimi, con la possibilità di far studiare i figli, e tutti si sono fatti la loro strada, onestamente, con il lavoro.


Articolo di Patrizia Gabrieli, pubblicato, in versione più estesa, su “El Pais”, notiziario di Laste.

Roberto il giramondo

di Stefania Dall’Asen

Nel giugno del 1973 Roberto Dall’Asen giunse nell’umida e piovosa Formosa, per partecipare ai lavori di costruzione di una diga, a circa novanta chilometri da Tai-Chang. Qui trovò moltissimi militari: l’isola era allora una base per l’intervento americano in Vietnam. Erano giorni di intensa umidità e piogge continue.

Nel 1975, Roberto volò in Sudafrica, per partecipare alla costruzione di un’altra grande diga, e della relativa centrale elettrica, al confine fra Namibia e Angola. I lavori furono realizzati in una zona isolata del Paese: la città più vicina si trovava a novecento chilometri di distanza.

La Namibia, ex colonia tedesca, era in quegli anni amministrata dal Sudafrica. Il Sudafrica dell’Apartheid razzista si mostrò subito all’arrivo all’aeroporto di Johannesburg: inseritosi nella fila sbagliata, Roberto fu trattenuto da una guardia che controllava l’effettiva separazione di bianchi e neri.

Lavorando al confine con l’Angola, Roberto fu presente a un evento storico: l’arrivo dei militari cubani, con l’Operaciòn Carlota, che portò nel paese più di 50mila cubani in soli quindici giorni. Il conflitto fu lungo e vide coinvolti da un lato Cuba e Unione Sovietica, dall’altro Stati Uniti e Sudafrica: si giunse alla firma di un accordo di pace solo nel 1988.

All’arrivo dell’esercito cubano, i lavori di costruzione della diga furono interrotti per due settimane. I militari cubani si limitarono poi a sequestrare le macchine fotografiche, e presto i lavori ripresero lì dove erano stati interrotti.  

Lui e i suoi colleghi riuscirono a fatica a raggiungere l’aeroporto di Teheran, dove restarono bloccati per alcuni giorni, insieme ad altri cittadini europei. Un volo inviato appositamente dall’Italia permise loro di far ritorno a casa.


Nell’aprile del 1978, Roberto volò in Iran, a Ahvaz, per la costruzione di silos per stivare zucchero e caffè. L’Iran, allora governato dallo Scià di Persia, aveva tentato con la rivoluzione bianca di portare avanti riforme sociali e economiche, ma la protesta popolare verso il governo dello Scià, iniziata già negli anni Sessanta, era cresciuta.

L’ayatollah Khomeyni, uno dei leader della protesta, nel 1964 fu esiliato in Iraq, ma continuò da lì a fomentare le proteste. La risposta fu un inasprimento del regime dello Scià: nel 1978 la polizia di regime sparò sui dimostranti scesi in piazza. In quei giorni, il cantiere dove Roberto lavorava venne bloccato, in concomitanza con l’evacuazione delle principali Ambasciate.

Lui e i suoi colleghi riuscirono a fatica a raggiungere l’aeroporto di Teheran, dove restarono bloccati per alcuni giorni, insieme ad altri cittadini europei. Un volo inviato appositamente dall’Italia permise loro di far ritorno a casa. Le proteste in Iran andarono avanti e nel 1979 si giunse all’instaurazione della Repubblica Islamica dell’Iran di Khomeyni.

All’inizio del 1980, Roberto si spostò in Libia, governata dal regime di Ghedaffi, per partecipare ai lavori per la costruzione di un ospedale a Bengasi. Nonostante la repressione interna, la nazionalizzazione di imprese e di possedimenti italiani, la Libia era ancora un Paese tranquillo per gli stranieri e per gli italiani che vi vivevano.

Il viaggio successivo fu in Camerun, nell’Africa equatoriale, caratterizzata da precipitazioni abbondantissime durante la stagione delle piogge, da marzo a ottobre. Qui partecipò ai lavori per la costruzione di una diga a circa ottanta chilometri da Douala, in un villaggio sul fiume Wouri.

Nel luglio del 1981 fu in Algeria, nelle vicinanze di Costantina. Dopo una guerra civile scoppiata nel 1954, l’Algeria aveva ottenuto l’indipendenza dalla Francia all’inizio degli anni Sessanta. Era un Paese che rivendicava già le sue origini arabe con forza: bisognava fare attenzione a non incorrere in incidenti con i locali ancora in rivolta contro i dominatori stranieri.

Nel 1983, tutta la famiglia, me compresa, volò in Botswana. Qui mio padre, Roberto, lavorò alla costruzione di una strada che attraversa il Botswana collegandolo allo Zimbabwe, a circa centocinquanta chilometri delle Victoria Falls. Io avevo due anni e mia sorella sei. Raggiungemmo il nostro villaggio, nei pressi del delta Okavango, con un lungo tragitto in jeep, su strada sterrata, e lì, vicino a noi, vivevano ippopotami, zebre ed elefanti.

Un immigrato pioniere

Ancelmo Trojan era figlio di Giovanni Battista Trojan, partito da Genova a bordo della nave Polcevere e arrivato a Rio de Janeiro il 25 gennaio 1884. Giovanni Battista era nativo di Maras di Sospirolo, figlio di Filippo Vincenzo e Rosa Moretti. I suoi fratelli e sorelle – Maria Antonia, Caterina, Anna, Giustina, Giustina Giovanna e Luigi – rimasero a Maras. Con Giovanni Battista c’erano sua madre, la moglie Maria Teresa Sasset, e i loro quattro figli Rosa Pasqua, Vincenzo, Giovanni e Luigi.

Si insediarono nel distretto di Ana Rech, comune di Caxias do Sul, nel Rio Grande do Sul, dove nacquero altri cinque figli: Francisco, Giuseppina, Giuseppe, Pietro e appunto Ancelmo. Ancelmo, l’ultimo figlio di Giovanni Battista, aveva dieci anni quando il padre morì. Tre anni più tardi, il fratello maggiore lo introdusse a lavorare in una conceria nella quale già erano impiegati gli altri fratelli. Questo, però, non era il desiderio di Ancelmo.

In quello stesso periodo andò a Erechim a far visita alla sorella Giuseppina e fu invitato a vivere con lei e il cognato Alberto Lise. Alberto, recatosi alla Casa di Commercio di Emilio Grando, gli disse che stava ospitando suo cognato ed Emilio Grando invitò Ancelmo ad andare a lavorare con lui nel magazzino.

All’inizio Ancelmo lavorava con i muli che si recavano verso l’interno portando tavole e cibo. Dopo qualche tempo, la sua padrona gli chiese di lavorare in cucina, poiché aveva notato il suo talento nella preparazione del cibo. Così Ancelmo diventò cuoco della famiglia di Emilio Grando e dei suoi dipendenti. Lavorò per quindici anni in questo posto. Emilio offrì a ciascuno dei suoi dipendenti trenta ettari di terreno nel comune di Erval Grande, scalandone gradualmente il costo dallo stipendio. Nella terra di Ancelmo, a tre chilometri nell’entroterra, c’erano molti pini e araucarie.

Una volta finito di pagare il suo capo, Ancelmo acquistò altri trenta ettari ad Aratiba. Successivamente, Gomercindo Grando chiese a suo fratello Emilio di “prestargli” il suo dipendente Ancelmo, per assisterlo come cuoco dei suoi dipendenti a Erval Grande. Gomercindo, infatti, aveva comprato un sacco di terreni, ma non disponeva di personale che sapesse cucinare. Nel viaggio da Erechim a Erval Grande, Ancelmo segnalò il suo arrivo con dei fuochi d’artificio.

Fu proprio a Erval Grande che Ancelmo incontrò la sua futura moglie, Emilia Martini, allora diciassettenne. Tornato a Erechim, Ancelmo avvertì il suo capo, Emilio Grando, che avrebbe sposato Emilia. Dopo il matrimonio, la coppia si trasferì nell’area acquistata da Ancelmo ad Aratiba, mettendo in piedi un piccolo ranch vicino al fiume.

Facendosi strada nel bosco, arando il terreno e spaccando legna, costruirono la loro casa e una grande famiglia, con diciannove figli: Maria Regina, Artemio Domingos, Zelide Rosa, John Anacleto, Aldo Carlos, José Honorino (mancato da bambino), Lydia, Honorino Luiz, Jandir Lourenço, Claudino Valentinem, Rosa Clara (mancata da piccola), Anair Angelina, Rosa Clara, Perzentino David, Ondina Lucia, Roque Antonio, Massimino Mario, Terezinha Lourdes, Francisco Higino.

Ancelmo Trojan fu un leader nella comunità e dato che non era frequente la presenza di preti nella regione, si incaricò delle sepolture, dell’assistenza ai malati, dell’organizzazione delle feste in chiesa. Servizi nei quali fu affiancato e sostenuto dai figli. La religiosità fu sempre molto presente nella casa di Ancelmo. Nel mese di ottobre, per esempio, conosciuto come il mese del Rosario, ogni sera la famiglia si riuniva in preghiera. Era tradizione di famiglia, inoltre, che tutti frequentassero la messa la domenica mattina, e l’accordo era che se non andavano a messa non potevano passeggiare nel pomeriggio.

La domenica pomeriggio, infatti, andavano spesso a trovare gli amici d’infanzia di Ancelmo. In chiesa, poi, Ancelmo cantava nel coro, in latino. Insomma, tra impegno e lavoro, la famiglia si affidò sempre con grande fede a Dio. Emilia Martini non sapeva scrivere e non conosceva i soldi. Era pertanto Ancelmo a occuparsi dell’organizzazione finanziaria di famiglia, non facendo mai mancare nulla in casa. Ai suoi figli proibì sempre di fumare prima dei diciotto anni, e vietò loro di entrare in casa con il cappello in testa.

Alla moglie, non permise di andare lontano per lavorare, così da poter stare più vicina alla casa e ai bambini. Con Emilia, in casa, c’era sempre un figlio più grande a darle aiuto, affinché lei potesse continuare anche a lavorare. Dopo ogni nuovo nato, Emilia camminava per tre o quattro chilometri per ricevere la benedizione dal sacerdote. Per la terra di Erval Grande, Ancelmo chiarì il suo desiderio di non venderla finché era vivo. Tuttavia, quando si ammalò, Fioravante Andreis fece ad Artemio, il figlio maggiore di Ancelmo, un’offerta.

Dopo una riunione con tutti i figli, Ancelmo decise di vendere, perché Fioravante era un amico di famiglia. Con i soldi guadagnati, Ancelmo sostenne le spese ospedaliere, chiedendo a tutti i figli di stare con lui in ospedale. E così fu durante gli ultimi otto giorni di ricovero. Prima di morire, Ancelmo radunò tutti e disse: «Figli, so che sto per morire, ma seguite tutti la strada della Salvezza». Ancelmo si spense il 4 settembre del 1976. I servizi ospedalieri e funebri furono saldati con il denaro della terra di Erval Grande.

I figli Honorino Luiz e Jandir Lourenço

La famiglia di Ancelmo.