Archivio di Febbraio, 2024

L’Unione dei minatori di Bingham

«Qualunque fratello, stato membro di quest’Unione per tre mesi ed in regola nel pagamento, il quale, per disgrazia o malattia sia reso incapace di attendere alle sue ordinarie occupazioni, riceverà dai fondi di quest’Unione la somma di sette dollari alla settimana per un periodo non eccedente dieci settimane in ciascun anno, purché la sua malattia o disgrazia non sia stata causata da intemperanza o condotta immorale, né sia preesistita all’ammissione del membro nell’Unione; nel quali casi nessun sussidio potrà essere concesso».

«Tutti i membri che firmano la Costituzione e i Regolamenti e non sono in arretrato di tre mesi nel pagamento delle tasse, multe o sopra tasse avranno diritto al sussidio funerario di settantacinque dollari. In mancanza di un parente o di chi per esso il Presidente impiegherà una somma sufficiente per le spese funerarie e qualunque rimanenza sarà rimessa all’Unione, unitamente alle ricevute delle spese».

«Il seppellimento dei membri defunti verrà eseguito sotto la sorveglianza del Presidente assistito dai funzionari subalterni dell’Unione. Questi darà avviso dell’ora e del luogo del funerale. Tutti i membri dell’Unione dovranno, in seguito ad avviso del Presidente, intervenire ai funerali e scortare le salme ai limiti della città».

Solidarietà, vicinanza, spirito di fratellanza e tutela reciproca. Sono i sentimenti che emergono da questi passaggi presenti nella Costituzione e Regolamento dell’Unione dei minatori di Bingham, adottati il 16 settembre 1901. 

Concetti che traspaiono ancora più chiaramente dal preambolo: «Ammesso che per la natura stessa del nostro inumano e pericoloso lavoro incombe su noi lo spettro di molti mali e della vecchiaia prematura; Ammesso che una associazione protettrice dei suoi membri sarebbe anche di sollievo alle corporazioni del Distretto di Bingham; Ammesso che la ricerca di lavoranti pratici ed esperti è proporzionata al profitto che ne deriva; Ritenendo utile di coltivare il sentimento della solidarietà tra i nostri compagni allo scopo di opporre una ferma resistenza a qualsiasi atto d’ingiustizia; Noi, minatori del Distretto Minerario di West Mountain, abbiamo deciso di formare una associazione sotto il nome di Unione dei Minatori di Bingham, No. 67 della Federazione dei minatori dell’Ovest d’America, per la promozione e protezione dei nostri comuni interessi e abbiamo adottato gli annessi Costituzione e Regolamento per nostra guida. “Stretti in fascio siam potenti” ed agendo giustamente di nessuno possiamo temere».

Il nome Bingham ci porta tra le Oquirrh Mountains, a sud-ovest di Salt Lake City, stato dello Utah. Ma è profondamente radicato anche nella memoria del Bellunese, in particolare del Basso Agordino. Proprio da qui, infatti, partirono migliaia di persone (uomini soli o con famiglie al seguito, talvolta in più viaggi di andata e ritorno nel corso dei decenni) dirette alla miniera di rame a cielo aperto di Bingham Canyon, il più grande scavo al mondo realizzato da mano umana, nel 1966 designato National Historic Landmark dal governo americano e tra le vallate bellunesi identificato anche da un nome che ne connota l’intrinseco legame con la storia dell’emigrazione: “cimitero degli agordini”. 

Perché proprio gli agordini? Per il bagaglio di competenze ed esperienze su cui potevano contare grazie alla lunga tradizione di lavoro minerario nei siti di Valle Imperina (Rivamonte) e di Vallalta (Gosaldo). Attività esportate fin dall’altra parte dell’oceano, dove il rigorso impegno sembrava poter garantire un futuro migliore, ma anche dove – come si evince dal documento – era necessario provvedere, uniti, a far fronte alle incognite e alle avversità di un «inumano e pericoloso lavoro».

Documento gentilmente concesso da Giovanni Dal Col

Diciassette morti

«“Io e il Bonetti siamo entrati in galleria da Stabiascio poco prima di mezzanotte. Il Bonetti era venuto a chiamarmi dicendo che avevano telefonato da Locarno per dire che in tre non erano usciti da Robiei. Il Bonetti mi ha anche detto che gli era stato chiesto se avevamo delle maschere antigas. “Come mai?”, gli ho chiesto, ma non mi ha saputo rispondere. Insomma siamo entrati.

Quando siamo arrivati a 600, 650 metri dall’imbocco, ho visto il Bonetti cadermi davanti. Nel mentre sono caduto anch’io. Ci siamo rialzati e siamo caduti diverse volte, fino a che sono svenuto. Mi sono svegliato dopo un’ora, più o meno, ho cercato la lampada del casco, l’ho accesa e mi sono guardato in giro. Così ho visto il Bonetti in terra, lì vicino. L’ho tirato verso di me e mi sono accorto che era morto.

Ero disorientato e non capivo più bene dove mi trovavo. Poi, per fortuna, ho pensato di guardare da che parte scorreva l’acqua nella rigòla. In quel primo tratto di galleria tornava ancora verso Stabiascio. Ho anche guardato verso l’interno della galleria di Cruina e ho visto un faro acceso, era quello del trenino con su i nove che erano già morti. L’unica cosa che potevo fare era strisciare verso l’uscita seguendo la direzione dell’acqua e tenendo la testa sopra la rigòla per avere un po’ di ossigeno. Sono arrivato fuori e ho dato l’allarme”.

Avevo registrato il ricordo di Angelo Da Dalto venticinque anni fa, per scriverne su un giornale locale, quando ne erano già trascorsi altrettanti da quello che era successo, nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1966, in una galleria dei cantieri idroelettrici tra l’alta Valmaggia e la Val Bedretto, nel Canton Ticino.

Non posso dire di ricordare bene quella voce; non quanto i silenzi che si allargavano tra una frase e l’altra. Quelli sì, li ricordo bene. Come passi nel vuoto, nel buio. Fino all’ultimo, col quale ci eravamo salutati.

Era stato l’unico a uscirne vivo quella notte. Diciassette altri erano morti, uccisi dal gas che ristagnava in galleria. Tutte morti evitabili, se solo…».

Sono pagine tratte da Cielo di stelle. Robiei, 15 febbraio 1966, di Erminio Ferrari (Edizioni Casagrande). Un’opera che raccoglie voci e memorie – dei minatori attivi all’epoca sul cantiere, dei dipendenti dell’Ofima (Officine Idroelettriche della Maggia), committente dell’opera, dei pompieri che intervennero sul posto, delle vedove, delle orfane – su una tragedia avvenuta nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1966.

Mentre sono in corso i lavori nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico tra la valle Bedretto e la val Bavona, nell’alto Canton Ticino, quindici operai italiani e due pompieri di Locarno muoiono uccisi dai gas tossici che ristagnano nel cunicolo. È l’incidente sul lavoro più grave mai avvenuto nella Svizzera italiana, uno dei molti entrati nella storia della nostra emigrazione.

Questi i nomi delle vittime:

Enrico Barilani (1947)

Antonio Bilabini (1935)

Piero Bonetti (1935)

Giancarlo Butti (1942)

Domenico Caputo (1931)

Valerio Chenet (1914)

Angelo Casanova (1921)

Giovanni Domenighini (1941)

Aldo Falconi (1934)

Bruno Lazzarotto (1929)

Silvio Maglia (1935)

Luigi Nordera (1937)

Giovanni Pasinetti (1938)

Luigi Ranza (1926)

Gianfranco Rima (1941)

Renato Roncoroni (1928)

Elpidio Vettori (1942).

Brevi accenni tratti dal libro “È la mia vita”

di Mara Burigo

Breve presentazione di Milena Tison

La mia giovinezza
Mi chiamo Milena Tison, sono nata il 13 febbraio 1927 e questa è la mia storia.
Tutto ebbe inizio l’anno 1927 quando nacqui in un luogo immerso nel bel verde della campagna, nominato “Le Volpere”, vicino a un paesino veneto di nome Cavessago, a pochi chilometri da Belluno. La mia famiglia viveva nella semplicità, essi erano dei contadini che lavoravano la terra duramente ottenendone solo lo stretto necessario per vivere abbastanza serenamente.
Avevo un fratello qualche anno più giovane di me di nome Luigi e una sorella cinque anni più vecchia di me che si chiamava Dorina.

La guerra e le sue conseguenze
La guerra avanzava e venne il momento in cui anche mio padre fu chiamato a combattere. La sua convocazione a entrare nell’esercito fu dura da accettare, soprattutto per mia madre. In quei tempi non c’erano molte cure e mia madre, che soffriva di depressione, non poté curarsi, per cui le sue condizioni peggiorarono. Noi tutti cercammo di farle coraggio moralmente, ma peggiorò di giorno in giorno. Io soffrivo molto per le sue condizioni, ma non persi mai la speranza che potesse riprendersi. Purtroppo non ci fu nulla da fare, mia madre compì un gesto disperato e così ci lasciò.

Accenno di vita passata in Venezuela
Terminata la guerra, nel 1945, mi sposai con Mario Burigo. Assieme a lui e ad alcuni parenti, decidemmo di lasciare il nostro amato paese e di recarci a vivere in terre straniere, ossia in Venezuela. Pensare di dover mollare tutto e tutti e partire per una terra sconosciuta mi turbò un po’ perché non sapevo cosa mi aspettava.
Ci trasferimmo all’isola Margherita (Venezuela), dato che un nostro parente ottenne dal governo dell’isola il posto di capo del comune. Nel febbraio del 1948, poi, a Los Teques nacque mio figlio Gianni.
In seguito ci furono degli spostamenti e dopo qualche anno dalla nascita di Gianni nacque il mio secondo figlio, al quale diedi nome Dino.

Riassunto di un’avventura
Un giorno mio marito Mario, assieme a un nostro parente, decise di esplorare alcuni luoghi nell’immensa savana circostante a dove abitavamo. Mentre stavano attraversando un rio nei punti d’acqua bassa, Mario venne punto da una specie di anguilla, molto pericolosa, che infondeva scosse elettriche. Per fortuna ricevette solamente una puntura, altrimenti sarebbe morto. Si salvò miracolosamente.

Los Teques, Venezuela, 1954. La famiglia Burigo.
(Per gentile concessione di Mara Burigo)

Indios venezuelani sul fiume, anni Cinquanta.
(Per gentile concessione di Mara Burigo)

I De Toffol in Brasile

di Adelino Detofol

La famiglia De Toffol (che con le variazioni intervenute nel corso del tempo si può trovare scritta anche come Detofol o Detoffol), ha le proprie origini nel Comune di Sedico, ed è radicata in Brasile da oltre centotrent’anni.

La storia brasiliana iniziò con Nicolò De Toffol, nato il 25 agosto del 1852 a Sedico. Assieme alla moglie Luigia Sabedot e al figlio maggiore Fiorello, Nicolò arrivò in Brasile il 12 gennaio 1886, nella città di Rio de Janeiro, con destinazione finale la città Dona Isabel, nel Rio Grande do Sul.

Nicolò lasciò in Italia il padre Sebastiano e la madre Caterina Triches, oltre alle sorelle Domenica, Maria Filomena e Maria.
In Brasile, Nicolò e Luigia ebbero altri sei figli: Sebastiano, Manoel, Vitório, Catherina, Antonieta e Páscoa.

Nello stato di Rio Grande do Sul, Nicolò lavorò come contadino e lo stesso fecero in seguito i suoi figli. Arrivato dall’Italia, infatti, acquistò assieme a un compagno – anch’egli originario di Sedico, che si chiamava Giussepe Barp -, un pezzo di terra a Travessão Martins. Nicolò il lotto numero 15, Giuseppe il numero 16.

Con il loro lavoro riuscirono ad avere successo e a pagarsi, nel 1893, quei pezzi di terra. Nicolò morì a Flores Da Cunha il 9 giugno del 1907, a 55 anni, per causa naturale. Sappiamo che all’epoca la moglie Luigia era ancora viva, ma non sappiamo quando è morta.

Il 29 ottobre del 2016, nella città di Chapecó (Santa Catarina), i discendenti brasiliani di Nicolò hanno celebrato il loro primo raduno, giungendo numerosi da diverse parti del Paese. Il raduno ha rappresentato una vera “pietra miliare” nella storia della famiglia.