Category “Vite migranti”

Storie di emigranti bellunesi

Leonardo Boff

Figura influente e controversa. Esponente di spicco della teologia della liberazione, corrente cattolica nata nel 1968 che pone al centro l’emancipazione sociale e politica. Molto noto in Brasile, ma le sue origini sono bellunesi. È Leonardo Boff, nato il 14 dicembre 1938 a Concórdia, nello stato di Santa Catarina, nipote di immigrati partiti da Seren del Grappa.

Cresciuto in una famiglia devota, non nuova alla vocazione religiosa (sono infatti teologi anche il fratello Clodovis e la sorella Lina), nel 1959 entrò nell’ordine dei frati francescani minori e nel 1964 divenne sacerdote. Assieme alla formazione religiosa e teologica, studiò filosofia tra Brasile, Germania, Belgio e Stati Uniti, arrivando a conseguire, nel 1970, un dottorato in teologia e filosofia all’Università di Monaco, sotto la supervisione di Joseph Ratzinger, futuro papa Benedetto XVI.

Negli anni Settanta divenne professore di teologia sistematica ed ecumenica all’Istituto teologico francescano di Petrópolis e, direttore di importanti riviste teologiche e consulente della Conferenza Episcopale Brasiliana, si impose come una delle voci più autorevoli del panorama intellettuale cattolico latinoamericano.

La sua attività accademica si intrecciò con un sempre maggiore impegno sociale e politico, culminato nella partecipazione all’elaborazione della teologia della liberazione, un movimento teologico nato in America Latina che si propone di coniugare il messaggio evangelico con la lotta per la giustizia sociale, denunciando l’oppressione dei poveri come conseguenza di un sistema economico ingiusto.

Nel 1985 Boff fu condannato al “silenzio rispettoso”, una misura disciplinare che gli impediva di insegnare e pubblicare.

Anticapitalista con influenze marxiste e critico verso la globalizzazione economica, considerata tra le principali cause della miseria in cui versano le comunità povere del Brasile e dell’America Latina, le sue posizioni lo posero in contrasto con il Vaticano, tanto che nel 1984 venne convocato a Roma e posto sotto processo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, guidata dallo stesso Ratzinger. Le sue tesi, esposte nel libro Chiesa: Carisma e Potere, vennero giudicate pericolose per la dottrina cattolica e nel 1985 Boff fu condannato al “silenzio rispettoso”, una misura disciplinare che gli impediva di insegnare e pubblicare.

L’imposizione venne parzialmente revocata nel 1986 a seguito di pressioni internazionali, ma i rapporti con la Chiesa cattolica rimasero tesi. Nel 1992, di fronte alla minaccia di ulteriori sanzioni, Boff decise di abbandonare l’ordine francescano e il sacerdozio. Da quel momento in poi, intensificò il suo impegno civile e accademico, diventando una delle voci più ascoltate del movimento no-global e uno dei sostenitori del Movimento Sem Terra, che lotta per i diritti dei contadini e per la riforma agraria in Brasile.

Nel 1993 divenne docente di etica, filosofia della religione ed ecologia presso l’Università Statale di Rio de Janeiro, università che nel 2001 lo nominò professore emerito.

Autore di oltre cento libri, tradotti in molte lingue, per il suo impegno ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali, tra cui – nel 2001 – il “Right Livelihood Award”, premio annuale che affianca il Nobel e che viene assegnato per onorare persone e gruppi che lavorano a soluzioni pratiche per una società migliore e un’economia più giusta. Questa la motivazione del conferimento: «Per la sua ispirante comprensione dei collegamenti tra spiritualità umana, giustizia sociale e tutela ambientale, e il suo lungo impegno nell’aiutare i poveri a realizzare questi valori nelle loro vite e nelle loro comunità».

Il re delle penne a sfera

In qualche modo, la sua vita ruota tutta intorno alle penne. Quelle a sfera, per scrivere, e quelle delle rondini. In Argentina, infatti, il suo nome è legato a una delle più importanti fabbriche del Paese: la Sylvapen, da lui fondata nel 1959 e così denominata in omaggio alla moglie Silvia. Nella nazione sudamericana, inoltre, ha preparato il luogo di nidificazione per rondini più alto del mondo, in un appartamentino al diciottesimo piano di un palazzo a Olivos.

Rondini, grande passione coltivata fin da bambino, quando – come ha dichiarato in un’intervista di qualche anno fa al quotidiano di Buenos Aires Página/12 – trascorreva i pomeriggi a Venezia a guardarle. Un interesse che ha continuato ad accompagnarlo anche nella vita di adulto, tanto da portarlo a pubblicare il libro “La alegria del vuelo de las golondrinas” (“La gioia del volo delle rondini”), volume in cui descrive le attenzioni dedicate a studiare le abitudini e la vita di questi uccelli.

Stiamo parlando di Francesco Barcelloni Corte, nato a Belluno nel 1923 ed emigrato oltreoceano nel 1948, dopo una laurea in Giurisprudenza. Non esercitò mai. Il titolo lo prese soprattutto per ragioni famigliari, come ricordò lui stesso a Página/12: «Vengo da una famiglia di professionisti. Quando mi sono laureato, tutti erano contenti e si è andati avanti».

In Argentina, già sposato e con un figlio di due anni, iniziò a lavorare come operaio, imparò il mestiere di tornitore, coltivò conoscenze tecniche e aprì un suo laboratorio, facendo fortuna. Nel 1959 fondò la fabbrica di penne Sylvapen, rendendola un colosso con filiali in Cile, Uruguay e Brasile. Per raggiungere questi traguardi, Francesco Barcelloni fu abile a coinvolgere nella promozione del suo prodotto un pezzo da novanta come Ladislao José Biro, il cui cognome è un tutt’uno con la sua penna.

«Ua vera penna a sfera è Sylvapen»…

Il settimanale Primera Plana (oggi reperibile sul web, al sito www.magicasruinas.com) in un articolo dell’ottobre 1968 spiegava che in quel periodo la televisione argentina aveva iniziato a trasmettere una pubblicità nella quale proprio Biro affermava: «Io, come inventore, dico: una vera penna a sfera è Sylvapen» («Yo, como inventor, digo: un bolígrafo de verdad es Sylvapen»).

Oltre che per la campagna pubblicitaria, Barcelloni seppe portare Biro nel consiglio di amministrazione dell’azienda, che continuò a gestire fino al 1986, quando la vendette alla multinazionale Gillette per ritirarsi dagli affari. E dedicarsi alle rondini. «È stata un’ispirazione di Venezia. In ogni palazzo c’erano trenta, quaranta nidi e c’erano centinaia di palazzi».

In Argentina, invece, proseguiva nella sua intervista a Página/12, «la maggior parte degli edifici non è ben preparata per le rondini». Ecco perché un giorno ha deciso di facilitare le cose nel suo appartamento a Olivos: «Prima ho messo una scatola di cartone e dopo pochi giorni ce n’erano diverse: strillavano, sembrava che parlassero». Poi commissionò a un falegname una casetta di legno, con due ingressi ad arco.

All’inizio di settembre del 1997, la casetta era pronta e venne installata sotto una delle grandi finestre, in angolo con la finestra dello studio che Francesco utilizzava per scrivere. Su un treppiede, montò una macchina fotografica grandangolare. Quando nella casetta fece il proprio ingresso una coppia di rondini, iniziò a immortalarle. «Nell’oscurità della casetta – prosegue il ricordo – avevano fatto il loro nido con rametti e terra. Ma già era dicembre e ancora non avevano piccoli: faceva troppo caldo lì dentro».

Francesco realizzò allora un tetto doppio, con fori per far passare l’aria. «Non so se sia stata una coincidenza, ma a gennaio c’erano già dei pulcini». Le fotografie si accumularono, arrivando a seimila. Molti di esse hanno trovato spazio nel suo libro.

E proprio come le rondini, che dopo l’inverno tornano dove hanno nidificato, anche Francesco Barcelloni Corte rientrò a Belluno. Mancato nel 2009, oggi riposa nel cimitero cittadino di Prade.

Giulio Maresio: un frate vittima dell’Inquisizione

di Antonio Zampiero

La storia di Giulio Maresio, frate francescano bellunese del XVI secolo, è poco conosciuta, persino nella sua terra natale. Eppure, la sua vicenda si inserisce in uno dei periodi più turbolenti della storia europea: l’epoca della Riforma Protestante.

La frattura causata dal movimento riformatore spezzò l’unità religiosa dell’Europa, dividendo il gregge sotto l’autorità del Papa.

In questo contesto drammatico, Maresio divenne il protagonista di uno dei processi inquisitoriali più significativi riguardanti un bellunese, giudicato e condannato dalla Congregazione del Sant’Ufficio, che vigilava attentamente su ogni forma di eresia.

Maresio, deciso ad abbracciare idee diverse dal cattolicesimo, pagò il prezzo più alto per le sue convinzioni, finendo bruciato sul rogo nel 1567.

La sua vicenda, fatta di abiure, ripensamenti, condanne e reintegrazioni, riflette le tensioni politico-religiose di quel tempo.

La Controriforma, con il suo rigido controllo sulla vita spirituale e civile, utilizzò strumenti brutali come il tribunale dell’Inquisizione per soffocare ogni deviazione dall’ortodossia cattolica.

Fu proprio la coscienza di Maresio a essere messa alla prova in questo conflitto interiore. Proveniente da una famiglia benestante, il giovane Giulio fu inviato a Bologna per proseguire gli studi, dove entrò in contatto con il docente Domenico Fortunato.

Giulio Maresio fu un libero pensatore, un uomo tormentato dai dubbi, che scelse la coerenza con le sue convinzioni piuttosto che una vita tranquilla ma ipocrita.

Questi lo introdusse agli scritti di Lutero e Melantone, che segnarono il suo avvicinamento a posizioni eretiche. Nonostante il legame iniziale tra i due, sarà proprio Fortunato a denunciare Maresio anni dopo, diventando il suo principale accusatore.

Il primo processo per eresia di Maresio si celebrò a Venezia, dove venne condannato e costretto all’esilio nel convento di San Pietro a Cracovia.

Tuttavia, la sua anima inquieta ricadde nel dubbio, spingendolo nuovamente verso il calvinismo, grazie anche all’incontro con Francesco Lismarini, un calvinista che lo aiutò a rifugiarsi in Svizzera, allora un crocevia di intellettuali ed esuli italiani.

Il ritorno a Belluno nel 1566, per assistere il padre malato, segnò la sua definitiva caduta. Processato nuovamente, stavolta dal cugino Bonaventura Maresio, fu trasferito a Roma, dove venne condannato a morte insieme al protonotario apostolico Pietro Carnesecchi.

Le accuse contro di lui erano gravi: negazione del libero arbitrio, del primato papale, del purgatorio e dell’efficacia delle opere. In sintesi, era un cristiano protestante.

Ma, ancor prima di essere etichettato come eretico, Giulio Maresio fu un libero pensatore, un uomo tormentato dai dubbi, che scelse la coerenza con le sue convinzioni piuttosto che una vita tranquilla ma ipocrita.

Una massima di un importante filosofo, Cesare Cremonini, nato pochi anni dopo Maresio, recita: “Intus ut libet, foris ut moris est“, “All’interno siamo liberi, fuori come richiedono i costumi”. Sembra che Maresio abbia imboccato un’altra strada.

Sebastiano Bellegante

di Luisa Carniel

Sebastiano Giovanni Bellegante, che nacque ai Giaroni di Fonzaso il 13 dicembre 1879, fu uno dei tanti fonzasini che intrapresero la via dell’America agli inizi del Novecento, consapevoli del grande sacrificio che sarebbe stato richiesto loro per le fatiche del mestiere che andavano a fare, oltre che per la lontananza dalla famiglia.

Nel novembre 1898 Sebastiano aveva sposato Fortunata Lira, anche lei originaria dei Giaroni, e nel maggio 1904 era nata la loro prima figlia, Fortunata Carmela. Quando la bambina aveva solo pochi mesi, Sebastiano lasciò la famiglia e assieme ad altri otto compaesani si imbarcò sulla nave Savoie per raggiungere l’Illinois, dove trovò impiego in una miniera di carbone.

Un anno dopo si spostò a Centerville, in Iowa, nelle cui miniere lavoravano moltissimi fonzasini attirati dalle buone paghe orarie garantite a coloro che provvedevano all’estrazione del carbone, combustibile molto richiesto all’epoca perché serviva per far funzionare la rete ferroviaria, oltre che per il riscaldamento domestico e per l’industria.

L’attività estrattiva continuò e assicurò il lavoro ai nostri emigranti per molti anni, fino a quando i treni cominciarono ad essere alimentati a diesel e le case a essere riscaldate con gas naturale. Nel 1906 la moglie Fortunata lo raggiunse in Iowa: aveva solo ventiquattro anni e lasciò a Fonzaso la piccola Carmela, affidata ai parenti.

Il ricongiungimento sarebbe avvenuto solo quattordici anni dopo! Sebastiano e Fortunata costruirono la propria abitazione a Bellair, nella contea di Appanoose, dove rimasero tutta la vita e dove diedero temporanea ospitalità ad amici e parenti italiani impiegati nelle miniere.

Durante uno dei suoi viaggi oltreoceano portò con sé la nipote Carmela affinché si riunisse ai genitori e ai fratelli, che non aveva mai conosciuto…

A Centerville era emigrato anche un fratello di Sebastiano, Guglielmo, che rimase anch’egli per sempre in terra americana. Nel 1912 Sebastiano ottenne la cittadinanza statunitense, la famiglia si era allargata ed erano già nati quattro figli, che diventarono in tutto dieci, quando nel 1921 nascerà l’ultimogenita, Rosa.

Sebastiano continuò il lavoro in miniera fino alla pensione e inoltre si impegnò nella locale sezione del sindacato per la tutela dei minatori di carbone. Alla sua morte, avvenuta nel 1955, lasciò la moglie, nove figli, ben trenta nipoti, oltre a sei bisnipoti.

Fortunata Lira (1882-1958), figlia di Antonio e Maddalena, non fu l’unica della famiglia ad emigrare oltreoceano: lo aveva fatto qualche anno prima di lei il fratello Antonio (1886), che purtroppo nel 1923 trovò la morte a Dawson, nel New Mexico, cittadina e miniera tristemente note per la grande sciagura del 1913, dove perirono quasi trecento uomini, tra cui due sovramontini.

Anche Giovanni Lira (1889-1960), fratello di Fortunata e Antonio, emigrò definitivamente in Iowa e durante uno dei suoi viaggi oltreoceano portò con sé la nipote Carmela affinché si riunisse ai genitori e ai fratelli, che non aveva mai conosciuto. Un anno dopo il suo arrivo a Bellair, la giovane convolò a nozze con Andrea Pescador (1897-1956), emigrante di Fonzaso.

Sebastiano e Fortunata



Sebastiano e Fortunata con i nove figli divenuti adulti
Documento identificativo di Sebastiano Bellegante, impiegato presso la compagnia mineraria Sunshine di Centerville, Iowa

Una vita nella ristorazione

di Loris Doriguzzi

Sono l’ottavo di tredici fratelli e sorelle. Ecco i loro nomi, dal primogenito: Silvano, Armida, Vincenzo, Rita, Mario, Mara, Luciano, Loris, Nadia, Rosanna, Annalisa, Mauro e Fabio.

Mio padre, Severino Doriguzzi, era camionista, trasportava tronchi e in inverno faceva il servizio neve in zona. Mia mamma, Maria, nata Pomarè, naturalmente badava alla casa e ai figli, anche con l’aiuto di parenti e conoscenti.

Quasi tutti i maschi intrapresero il mestiere del papà e le sorelle si stabilirono a Rimini già in giovane età. Armida prese la strada per la Germania, nella città di Saarbrücken (Saarland), insieme alla cugina Floriana, nel settore gelateria per alcuni anni, poi – con i loro futuri mariti – lavorarono nel settore barbiere/parrucchiera. Erano gli anni Sessanta. 

Vincenzo dopo aver fatto il corso di scuola alberghiera a Jesolo raggiunse la sorella Armida e si mise subito all’opera nel ramo ristorazione.

Dopo avervi presentato brevemente la mia famiglia, vengo alla mia storia.

Dopo le scuole elementari a Casada e le medie a Santo Stefano, mi consigliarono la scuola ITC “P.F. Calvi” di Belluno, e così feci. Alloggiavo all’Istituto Salesiano Agosti con il piacere di essere insieme ad alcuni paesani del Comelico, erano gli anni tra il 1970 e il 1971.

In settembre mi fu fatta la proposta di visitare Armida e Vincenzo a Saarbrücken. Non esitai, anche se avevo solo sedici anni, e così il 1° ottobre mio padre e mia madre mi accompagnarono a Fortezza e lì presi il treno per la prima volta.

Fu un viaggio lungo e con molte fermate, durò un giorno e una notte. Arrivato in stazione a Saarbrücken, c’era Vincenzo che mi aspettava. Che gioia vederlo!

Andammo poi dalla sorella Armida per brindare, dopodiché Vincenzo mi portò a casa sua: con grande piacere, aveva preparato una stanza tutta per me.

Ricordo l’angoscia che avevamo nel sentire le notizie giornaliere del terremoto in Friuli.

Dopo qualche giorno andammo al ristorante dove lavorava Vincenzo con l’amico Carlo Incannova, poi venne il padrone, Nico Patanisi, e dopo la presentazione mi chiese se volevo iniziare a lavorare lì come apprendista di sala. Il giorno dopo cominciò la mia vita in gastronomia.

Nel ’72 Nico mi trasferì in un altro ristorante di sua proprietà, il “Milano”, situato in centro città, e gestito da suo cugino Paolo. Nel ’73 il “Milano” venne venduto, così per me cominciarono alcune esperienze a Saarbrücken nei ristoranti con cucina europea.

Nel ’74, eccomi all’Hotel Inglese Windsor, casa di grande prestigio e clientela altolocata. Fu un periodo bellissimo, anche perché a quell’epoca c’era il mio amico Tommaso Comis. Poi venne il ristorante “Csarda”, con cucina magiara e musica dal vivo. Anche lì, molte soddisfazioni.

Nel 1976 Vincenzo, Carlo e io facemmo l’apertura del Palais Royal a Völklingen-Fürstenhausen. Era una struttura con ristorante, bar e discoteca. Il proprietario, Michele Airo, resterà indimenticabile.

In quel periodo vennero a trovarci papà e mamma. Ricordo l’angoscia che avevamo nel sentire le notizie giornaliere del terremoto in Friuli.

Nel 1977 Nico Patanisi vendette il suo ristorante a noi tre, grazie anche a un cliente banchiere che ci approvò un consistente credito senza alcuna garanzia. Grazie ancora, Alfred!

Nel 1978 conobbi la mia futura moglie, Monique Haag, nativa di Sarreguemines, nella Lorena francese, con la quale avemmo, nel 1982, una figlia di nome Diana.

Nel 1980, il ristorante “Milano” era in vendita, così Vincenzo e io lo acquistammo e il 1° febbraio era già in nostra gestione. Da allora sono passati più di quarant’anni. Siamo molto grati di avere avuto personale competente, fedele e corretto. Io lasciai l’azienda qualche anno fa, Vincenzo è ancora attivo e tanto di cappello a lui e alla compagna Elke.

Vorrei ringraziare di cuore, oltre a Vincenzo, anche mia moglie e mia figlia per il supporto datomi in tutti questi anni.