Category “Vite migranti”

Storie di emigranti bellunesi

Storia di un sognatore – seconda parte

La prima parte è disponibile QUI.

Non ci sono giornali, non ci sono stamperie, però le pasquinate scritte a mano si affiggono sulle pareti di questa o quell’osteria con il beneplacito del padrone. Capraro non si scompone; non reagisce come Marforio. Usa mezzi più drastici: compera l’osteria e assiste, con un sorriso sardonico, allo sfratto. Certo, non sono operazioni gentili, però non c’è tempo per incertezze o tentennamenti.

Si arriva così al tempo della Prima guerra mondiale. Capraro, da buon patriota, convince e recluta vari volontari che partono per l’Italia e per i fronti. La festa di addio si svolge con vari canti e auguri. Qualcuno, purtroppo, non ritornerà. I nemici di Capraro approfittano anche di questi fatti per criticarlo e calunniarlo. «Manda gli altri!», dicono, «però lui non ci va!».

Capraro stavolta non ci bada. Non ne vale la pena…e poi lui ha passato già i quarant’anni.
Con frequenza deve viaggiare nella capitale, Buenos Aires, e allora visita ministri, segretari e ministeri, con progetti e sogni per ingrandire Bariloche, per convogliare alla zona dei laghi turisti e amanti della montagna.
I progetti vanno a terminare nei cassetti, con vaghe promesse. Poi cambia il governo (cosa frequente in Argentina) e bisogna ricominciare da capo la via crucis da un ministero all’altro. Capraro non si scoraggia. Altre volte arrivano personaggi illustri, come Teodoro Roosevelt, il principe di Galles e il duca di Kent.

Verranno pure scrittori e giornalisti, come Ada Elflein e Ernesto Morales. Allora il giornale “La Nación” si abbellirà con fotografie e scritti descrivendo la zona dei laghi, ma sarà solo uno sprazzo di luce perché poi tutto si ferma: Bariloche è troppo lontano.

Capraro inventa altre cose. Un bel giorno si diffonde una notizia strabiliante. Vicino a Bariloche, nella laguna Epuyen, è stato visto un plesiosauro. Immediatamente si forma una spedizione capitanata da Clemente Onelli, romano, direttore del giardino zoologico di Buenos Aires.

Con lui viaggiano giornalisti, fotografi, scienziati, ecc. ecc. La comitiva visita il lago, lo scruta, lo scandaglia… niente da fare. Il plesiosauro è sparito. Visitano allora (e descrivono) la zona e continuano a cercare. Poi la spedizione, sconfitta, ritorna a Buenos Aires. Nessuno, però, avverte come Capraro se la rida sotto i baffi, con sbirciatine d’intesa con Clemente Onelli. Saranno stati d’accordo? Sarà stata tutta una farsa? Non si saprà mai. Quello che a Capraro interessava era che i giornali parlassero della zona e raggiunge il suo scopo: i giornali parlarono.

A quell’epoca Bariloche era cosmopolita. C’erano italiani, tedeschi, austriaci, svizzeri, francesi, danesi, inglesi, nordamericani, spagnoli, cileni, argentini (pochi)… e Capraro molte, moltissime volte, è padrino di nozze o di battesimo. Le feste, per tali eventi, sono veramente feste: piene di allegria, di buon umore, di canti. Voleranno anche degli scappellotti, ci scapperà qualche coltellata (è di moda) ma poi tutti si rappacificheranno senza rancori.

Il caso è differente quando ci sono battesimi. Siamo in guerra e se il neonato è figlio di tedeschi il nome da imporre sarà Guglielmo o Francesco Giuseppe. Oppure, se è figlio di italiani, sarà Vittorio, Giorgio, Alberto, o con nomi più simpatici come Trento.

È il 4 ottobre. D’un tratto si sente un colpo e un tonfo. Nel mezzo della stanza sta Primo: è caduto


La difficoltà della scelta sorge quando il bambino è figlio di padre svizzero-francese e di madre svizzero-tedesca. La Svizzera è neutrale da secoli e non ha nulla a che vedere con la guerra. Come si chiamerà il bambino? Capraro salva capra e cavoli: lo chiama Neutral! E il nome rimane.

È finita la guerra. Arrivano nuovi emigranti e Bariloche si rinforza con altri nomi italiani, bellunesi e castionesi: De Barba, De Col, Candeago, Dal Farra, Della Gasperina, De Pellegrin, Fant e tanti, tanti altri.
Bariloche continua a crescere e le forze avversarie pure. Capraro sente già il peso degli anni e delle responsabilità e comincia a notare degli sgretolamenti.

Capraro è contrattista delle ferrovie dello stato. Già ha costruito il ponte sul Rio Negro, tra Patagones e Viedma. Il treno si avvicina, giorno per giorno, a Bariloche. Il treno! È sempre stato il sogno di Capraro portare il treno a Bariloche, e ora sta per vederlo realizzato.

Ha preso l’incarico di costruire la scarpata da Comallo al Nahuel Huapi. Gli impegni sono ogni giorno più rischiosi. Deve moltiplicarsi per realizzare ciò che si è proposto, senza tener conto che il giorno ha solamente ventiquattro ore e che il calendario non si può stirare. Ogni sforzo ha il suo limite e ogni illusione pure. Passare oltre è un delirio. Non si può stare nello stesso tempo a Pilcaniyeu sorvegliando i lavori, al municipio di Bariloche per attendere ai doveri della carica, al Correntoso per affari personali e a Buenos Aires per reclamare paghe arretrate, paghe che lui ha già abbonato agli operai di sua tasca.

L’anno 1930 è un anno disastroso per le finanze di tutto il mondo e gli effetti si sentono pure a Bariloche. Le paghe tardano e gli operai protestano. Capraro, ancora una volta, le affronta a sue spese, e a sue spese affronta, per accelerare il tempo, la scarpata dal ponte sul torrente Nirihuau a Bariloche. È la fine, però lui non si arrende. Farlo sarebbe dimostrare debolezza e questo può permetterselo chiunque, però non lui. E continua a lottare. Gli ostacoli si moltiplicano. Quello che ieri sembrava un nonnulla oggi si converte in una montagna di difficoltà.

La scarpata arriva fino a Bariloche; anche le rotaie ci sono. Manca solo il treno, testimonianza irrefutabile del suo spirito di impresario, commerciante, industriale, agricoltore, politico, edile e lavoratore. Sembra ormai che abbia vinto, sembra ormai che il suo sogno si converta in realtà.

Arriva così il mese di ottobre del 1932. Capraro sente che c’è qualcosa che non va, qualcosa che non cammina, che lo ha tradito e si ritira al Correntoso, nella sua casa in mezzo ai boschi e in riva al lago, solo.
È il 4 ottobre. D’un tratto si sente un colpo e un tonfo. Nel mezzo della stanza sta Primo: è caduto, caduto per sempre. Tra le mani ha una rivoltella che ha reso possibile il suo passaggio all’eternità. È sua? È stato lui a spararsi? È stato un altro? Non si saprà mai.

Noi pensiamo: come è possibile che lui, l’indomito, l’invincibile, si sia lasciato vincere, abbia ceduto alla debolezza?
Capraro è sparito ma il suo spirito rimane! Rimane, squilla perenne della sua figura, del suo amore per il lavoro, per la Patria Italia e per la Patria Argentina, ma soprattutto per San Carlos de Bariloche, meta dei suoi sogni, vero paradiso terrestre in Argentina, scoperto e fatto conoscere al mondo da lui, Primo Capraro.

Bariloche lo ricorda ogni anno. Una strada, la diagonal Capraro, una scuola, quella dell’Associazione culturale Germano-Argentina, e un monumento, dichiarato monumento nazionale. Da quest’ultimo Capraro guarda, giorno e notte, il lago Nahuel Huapi, il suo lago, e sorride quando vede le acque azzurre riempirsi di vele e di imbarcazioni e migliaia e migliaia di turisti che, passandogli davanti, rispettosamente lo salutano.

Storia di un sognatore – prima parte

12 marzo 1873. Siamo a Castion, frazione di Belluno. Nella casa dei Capraro un vispo bimbetto apre gli occhietti alla vita. È il primogenito e, filosoficamente, il padre lo chiamerà Primo. Quando gli nascerà un altro figlio, sarà chiamato, logicamente, Secondo.

La fanciullezza di Primo trascorre uguale a quella di tutti gli altri bambini: scuole elementari, bisticci con i compagni con qualche pugno, ecc.
Poi frequenta la scuola industriale di Belluno, dove si iscrive a un corso di costruzioni, dato che ha il bernoccolo della matematica. È già un bel giovinotto quando la Patria lo chiama al servizio militare e compie il suo dovere nel Genio. Tre anni dopo, quando ritorna, è già uomo fatto.
Siamo nel 1897 e Primo è disposto a lanciarsi per il mondo, sicuro delle proprie forze.

Ha sentito parlare dell’America e anche lui pensa a quelle terre lontane, ma, prudentemente, pensa che è meglio incominciare da poco. Rotti gli ormeggi incomincia il viaggio. Punto di partenza: Castion; punto di arrivo: be’ quello lo dirà il destino. Prima di lanciarsi all’America, e come misurando le proprie forze, visita paesi vicini all’Italia. Teme che la nostalgia gli giochi qualche brutto scherzo. Conosce così l’Austria, la Svizzera e la Germania. E proprio in Germania, sulle rive del Reno, conosce a una ragazza. Vorrebbe farla subito sua sposa, però comprende che per formare una famiglia è necessaria anche una certa posizione economica e lui ha solo due braccia, forti e robuste, una volontà di ferro e un cuore che trabocca di amore.

Non è sufficiente, così almeno pensa, e aspetta. Intanto lavora e risparmia. Sogna l’America e là non bisogna andare a casaccio e studia il posto. Arriva a Londra. C’è una compagnia che cerca gente e lavoratori per mandarli nelle miniere di Pachuca (Messico). Primo si presenta e in pochi minuti ha un contratto in mano. Ci sono anche dei compagni e anche loro sono contrattati. Primo, quasi automaticamente diventato capo e direttore della squadretta, aveva assicurato loro un avvenire prospero in una miniera d’oro e li aveva convinti a seguirlo. Partono così per il Messico. Incominciava il secolo ventesimo. Il viaggio si svolge senza inconvenienti.

Arrivati in Messico si presenta, contratto alla mano, all’amministrazione della miniera e qui succede il finimondo. Il gerente della compagnia non riconosce né il contratto e neppure i padroni della miniera, dato che il governo messicano ha concesso a lui tutti i diritti immaginabili e possibili. Primo ascolta e non si raccapezza. Poi, filosoficamente, alza le spalle e se ne va. «L’America è grande!» dice.

E i compagni che aveva entusiasmato? Primo non perde coraggio e ancora una volta li convince a seguirlo. Passa così al Perù, però anche qui non c’è niente da fare. Passa al Cile e arriva a Santiago con nessuna speranza di lavoro. Il gruppo si sgretola e anche Primo deve confessare, a malincuore, che è stato sconfitto. «Bisogna ritornare in Italia – dice – e per farlo ci sono due strade. O attraverso l’Argentina oppure aggirando lo stretto di Magellano».

Il gruppo sceglie il primo itinerario e, poco dopo, si sfascia. Primo aspetta a partire perché gli è venuta un’idea. Si ricorda che, stando a Londra, ha ascoltato una conferenza di Francesco Pascasio Moreno che diceva mari e monti di una zona della Patagonia e decide di andare a vedere.

Arriva alla zona dei laghi cileni e già sente qualche cosa nell’aria: paesaggi meravigliosi, degni delle zone più belle del mondo. Continua il viaggio e, superato il passo Perez Rosales, rimane con gli occhi spalancati. Capraro ammutolisce. Capraro è montanaro, credeva di aver superato la stregoneria e l’incanto delle montagne e qui, invece, l’innato amore alla montagna risorge, forte, prepotente. Ecco, là in fondo, il Tronador, il Lanin; e, più vicino a lui, il Lopez dalle pareti imponenti, e il Catedral, tutto una guglia; e poi altri e altri ancora, monti che si specchiano nei laghi limpidi e azzurri, e le isole, e i ruscelli saltellanti tra pietre e tronchi.

Capraro è sbalordito e lì, su due piedi, decide. Si sente come un nuovo Cristoforo Colombo. Se il genovese ha scoperto l’America, egli scoprirà la regione più bella dell’America!

Uomo pratico, cerca subito dove alloggiare e sceglie il Correntoso. È un torrente impetuoso che esce dal lago dello stesso nome e sfocia nel lago Nahuel Huapi. Correntoso! Il nome stesso significa quello che è, e Capraro lo comprova subito, perché vuole guadarlo.

Sono i primi anni, anni febbrili e pieni di intenso lavoro. Capraro è il capo. Corre da una parte all’altra dando ordini, istruzioni, consigli. A volte alza la voce, grida, sbraita. Vuole imporsi e nello stesso tempo vuole che ogni cosa si faccia bene.

Sulla riva opposta ci sono tende indie e quando Antriauc, caciche della zona, lo vede spogliarsi per gettarsi in acqua, gli grida: «Attento! Acqua forte! Non passare!» Capraro non ci bada e si tuffa. Nuota un po’ ma la corrente è troppo forte. Allora si immerge e quando riappare è a pochi passi dalla riva. Allunga le braccia in cerca di appiglio. I rami dei cespugli non resistono e cade in acqua due, tre volte. La situazione si fa pericolosa e si salva afferrandosi a una fune che gli tira il caciche.

Asciugate le vesti, Capraro continua il viaggio. Ha sentito che nella provincia del Chubut (distante circa quattrocento chilometri!), in una fattoria, c’è bisogno di manodopera. Il viaggio procede bene e conosce paesetti, meglio dire gruppi di case, e regioni. Esplora pure le sorgenti del Chubut, il fiume più grande della zona, e impara come si va a cavallo. Laggiù la gente si diverte nel vedere come il cavallo fa ruzzolare il cavaliere. Capraro, per amor proprio, si attacca fortemente all’animale e resiste.

Neppure a Leleque Primo ha fortuna. Non c’è posto per quello che vuole e sa fare e non ci sono quattrini. Capraro pensa che è il destino che vuole così perché vuole che si dedichi a far conoscere al mondo questa zona privilegiata.
Durante il viaggio di ritorno pensa e ripensa. Sente una voce interna che gli dice: «Ti ho aspettato tanto tempo e ora che sei arrivato non ti lascerò scappare. Pensaci e deciditi. Tu sei capace di questo e di altro ancora!»

E Capraro si decide e vede – come in una visione – come si converte in realtà un sogno accarezzato da tanti predecessori: Bariloche, città incantata! Già di ritorno, entusiasmato dal suo sogno, ospite in casa di amici a Bariloche espone loro il suo progetto e la decisione di attuarlo subito. Lo ascoltano e vedendolo così euforico, non lo interrompono. Ma quando si ritira, uno dice: «Quell’italiano è un pazzo!» «No – lo corregge un altro – è un sognatore e i sogni difficilmente si avverano!»

Capraro non si preoccupa per questa indifferenza. Si preoccupa invece di ottenere manodopera. Ci sono strade da fare, e ferrovie, e ponti e case e alberghi, moli, imbarcazioni ecc. ecc. e piantare industrie, officine, falegnamerie, centrali elettriche e mille cose ancora e allora incomincia una fitta corrispondenza con i suoi paesani di Castion e di Belluno e qualche lettera va anche in Germania dove, sulle rive del Reno, una ragazza aspetta e spera. Convince tanto gli uni che l’altra e nel 1903 parte per Buenos Aires.

Arriva la sposa e arrivano anche i primi emigranti, attratti dal fascino che ha ispirato loro Capraro. Sul molo è un vociare e un gridare in dialetto, italiano, tedesco. Amici che rivede, amici ai quali parla con entusiasmo della zona che popoleranno.

Finite le pratiche doganali, la carovana si mette in marcia. Ci saranno vari giorni di viaggio, però non importa. Arrivano a San Carlos de Bariloche dopo 1.800 chilometri di marcia, disposti a occupare terre, a costruire case e strade, a fondare un paese, una città. Capraro li guida dando ordini, istruzioni e consigli. In poco tempo sono sistemati e lavorano. Le industrie principali sono presto pronte: centrale elettrica, falegnameria, fucine meccaniche… Il paese progredisce sotto lo stimolo di Capraro.

Sono i primi anni, anni febbrili e pieni di intenso lavoro. Capraro è il capo. Corre da una parte all’altra dando ordini, istruzioni, consigli. A volte alza la voce, grida, sbraita. Vuole imporsi e nello stesso tempo vuole che ogni cosa si faccia bene. Pensa al futuro: pensa alle centinaia di migliaia di turisti che visiteranno Bariloche. Si dedica anche ad altre attività: commerciali, politiche, diplomatiche e giornalistiche.

Ed è così che, nelle lettere che scrive, si può leggere, tra le altre cose, una intestazione che dice: “Commercio in generale, frutta, importazione ed esportazione, falegnameria, carpenteria, centrale elettrica, agente Ford, cantiere navale, corrispondente del Banco d’Italia”. E avrebbe potuto aggiungere: agente consolare d’Italia, corrispondente dei giornali “La Nación” e “La Patria degli Italiani”, sindaco e agricoltore.

Il paese è ancora piccolo ed è logico che si avveri ciò che dice un proverbio: “Paese piccolo, inferno grande!” Sorgono gli oppositori e il paese si divide in Capraristi e Anticapraristi.

Continua…

Un sorriso che illumina il mondo

di Paolo Sebben

La sua vita racconta di ostacoli superati, di coraggio per intraprendere nuove strade e di amore per il lavoro. Lui è Gianluigi Sebben, meccanico nato nel 1932 a Fonzaso.

Unico figlio maschio in una famiglia con altre tre sorelle, fin da giovane ha assunto una grande responsabilità e ha vissuto da vicino la guerra quando era adolescente. Le esperienze di quel periodo lo hanno segnato restando ancora oggi indelebili. 

Dopo aver completato la sua formazione alle scuole industriali e aver acquisito conoscenze sulle automobili in un’officina fonzasina, durante il servizio militare è stato assegnato al Corpo degli Alpini a Roma. Lì ha accumulato ulteriori esperienze in un’officina dell’esercito, esperienze che in seguito gli sono state utili nella carriera professionale. 

Dopo la “naja”, ha lavorato come autista di camion e ha rifornito di bevande bar e ristoranti nella zona feltrina. 

Dopo diverse esperienze lavorative in Italia, negli anni Cinquanta ha deciso di fare il salto in Svizzera, dove è stato dipendente in una fabbrica nel Canton Glarona. 

Il passaggio del confine per potenziali lavoratori provenienti dall’estero all’epoca era un vero e proprio controllo sanitario, durante il quale l’emigrante doveva sottoporsi a un esame medico e ai raggi X. La strana discussione con i medici elvetici su quanto fosse sufficientemente in salute per lavorare in Svizzera capitata a Gianluigi è difficile da credere oggi. 

Nonostante le difficoltà iniziali con la nuova cultura e la nuova lingua, Gianluigi si è fatto un nome come bravo professionista. Non ha riparato solo macchinari e automobili, ma anche aerei ed elicotteri all’aeroporto di Mollis. Il suo talento e la sua abilità erano molto apprezzati. Ha lavorato inoltre come meccanico nel reparto sperimentale della Netstal AG. 

Come membro dell’Associazione Bellunesi nel Mondo di Glarus si è impegnato per i bisogni della comunità bellunese e italiana

Per un periodo ha viaggiato come tecnico in tutta Europa, ricavandone numerose esperienze a volte divertenti. Il suo aneddoto sul piatto quotidiano di cervo in un lussuoso albergo francese, perché non riusciva a capire altro dal menù, è solo uno dei tanti. 

Come membro dell’Associazione Bellunesi nel Mondo di Glarus si è impegnato per i bisogni della comunità bellunese e italiana e ha ricoperto per molti anni il ruolo di vicepresidente. La sua abilità retorica è rimasta perlopiù nascosta, perché preferiva tenersi lontano dai riflettori. 

In Svizzera ha conosciuto la sua futura moglie, Maria. È un po’ ironico pensare che lei è originaria di Faller, a soli due passi da Fonzaso. 

Dopo più di quarant’anni in Svizzera, lui e Maria sono alla fine tornati a Fonzaso per trascorrere la vecchiaia. 

Anche in età avanzata il suo intelletto, il suo spirito e il suo entusiasmo per la vita sono rimasti intatti. Ma negli ultimi anni per Gianluigi ci sono stati momenti difficili. Colpito gravemente dalla pandemia di Covid-19, è stato ricoverato in Terapia intensiva e ha combattuto coraggiosamente per la propria vita. Grazie alle tempestive e professionali cure mediche in Terapia intensiva e in Pneumologia a Feltre, così come alla sua forza di volontà, ha superato la fase più difficile. Ma la situazione non si è del tutto risolta. Il ricovero nell’Ospedale di comunità di Alano e in seguito nella Geriatria di Feltre gli hanno tolto la dignità e la gioia di vivere. 

Si è trovato a soffrire in modo incredibile fino a quando è finalmente riuscito a ritrovare la vita grazie a una clinica privata a Bolzano. 

Oggi, a 92 anni, è di nuovo nella sua casa a Fonzaso, quasi sempre su una sedia a rotelle, ma con il sorriso sul volto. 

Il suo ottimismo e la sua gioia di vivere sono contagiosi. Gianluigi è un esempio per tutti noi, perché nonostante le avversità non ha mai perso il coraggio e dimostra ogni giorno che la vita, malgrado tutto, è bella.

Una proposta promettente – seconda parte

di Flora Costa

Racconto tratto dal libro: Vivo due amori… le Dolomiti e la Lorena, di Flora Costa; Bellunesi nel mondo edizioni, 2018

La prima parte è disponibile QUI.

La gentile signora fu molto ospitale, facendomi dormire a casa sua. Dopo una buonissima colazione, ci salutammo un po’ emozionate, senza sapere che non ci saremmo incontrate mai più.

Con la corriera Buzatti diretta ad Arabba, giunsi all’Albergo “Alle Alpi”, dove mi aspettavano i miei padroni. Dovevo riprendere il mio lavoro di cameriera, che sarebbe durato ancora alcune settimane. La cameriera dell’albergo centrale, Clorinda, divenne un’amica per me e qualche volta, per poter scambiare le nostre storie, lei veniva a passare la serata nella mia cameretta sotto il tetto. Alla fine della stagione, l’ultima sera mangiammo una torta e bevemmo un bicchiere di Albana, promettendoci di incontrarci ancora.

Con lo stipendio della stagione potei acquistare una valigia di cartone e un pezzo di tela mare per confezionare un vestitino a giacca con le maniche corte, di color celeste.

Fra poco sarebbero arrivati i passaporti in Comune, non c’era più tempo da perdere, il giorno della partenza era vicino.

Nell’ultima giornata di lavoro in quell’albergo, davanti al quale si fermava la corriera, stavo preparando i tavoli nella sala da pranzo quando il padrone mi disse che al bar qualcuno voleva salutarmi. «Forse un cugino?» mi disse. Arrivando nel bar mi trovai di fronte al bel studentino biondo di ritorno da Firenze. Per entrambi fu un momento di grande emozione, felici di incontrarci per l’ultima volta. La guerra aveva sconvolto i nostri sogni, ma, all’epoca, ancora non potevamo saperlo. Per fortuna il destino aveva scelto per noi. Adesso, settant’anni dopo, sento nel cuore un pizzico doloroso quando ricordo quel giorno così lontano eppure vivo dentro di me.

Arrivando a casa con il cuore triste, mio padre mi disse che era venuto Gastone Pollazzon, proponendo di andare con lui a San Lorenzo, a Brunico. Si trattava di una spedizione per raccogliere la resina dei pini sul pendio e i valloni dei boschi di quella regione. Mio padre mi invitò ad accompagnarli e questo mi fece grande piacere.
La resina raccolta sarebbe stata venduta e il denaro ricavato utilizzato per i bisogni causati dalla lunga guerra mondiale.

Due giorni dopo, con mio padre, Gastone, un pollo arrostito nel rusak (zaino) e un po’ di pane, con la corriera arrivammo ad Arabba. Da qui raggiungemmo passo Campolongo e Corvara, a piedi. A Corvara potemmo continuare la nostra spedizione in corriera, direzione Brunico. A San Lorenzo, in una pensione di famiglia, trovammo una camera per dormire. Durante la giornata dovevamo andare nei folti boschi a raccogliere la resina sui pini. I tronchi venivano scolpiti con i sassi che staccavamo dal suolo. Si creavano dei buchi profondi dai quali usciva la resina, come il sangue da una ferita.

Dopo una notte di meritato riposo, all’alba di una limpida giornata, partimmo con lo zaino sulle spalle. Conteneva gli attrezzi necessari a staccare la resina dagli alberi. La preziosa materia veniva fatta cadere in un sacco fissato all’albero con un cerchio di ferro.

Sarebbe stato più astuto cominciare la raccolta dall’alto, scendendo verso la valle e spostando il sacco pieno da un pino all’altro. Avremmo fatto meno fatica.

A mezzogiorno, mentre giù nella valle sentivamo il suono delle campane, cercammo un riparo sicuro, protetto dalla caduta dei sassi che, con l’umidità della notte, potevano staccarsi dal suolo.

Vicini, io e mio padre gustammo con grande appetito lo spuntino frugale che la mamma aveva cucinato per noi, un po’ di pollo e un pezzo di pane. Il luogo era favoloso, il cielo azzurro e velato di una pennellata bianca portata via dal venticello timido e un po’ freddo che annunciava l’autunno, con i suoi colori fiammeggianti sulla distesa dei boschi. Le meraviglie del Creato mi hanno sempre commossa, fin dall’infanzia, risvegliando il mio spirito. Un’emozione profonda e stupefacente che rende l’anima serena e il pensiero lieve.

Scendendo, man mano che si raccoglieva la resina, ci accorgemmo che il sacco si riempiva sempre di più e portarlo era sempre più faticoso. Arrivati a valle, aspettammo l’arrivo della corriera. Giunti alla pensione, per curiosità pesammo il prezioso raccolto, più che soddisfatti del lavoro compiuto. Il sacco di mio padre, ovviamente, era più pesante del mio. A volte io non riuscivo a scavare, perché la ferita del tronco era troppo in alto.

Alla pensione fummo subito adottati dai padroni, ci sembrava di essere in famiglia. Alla sera mi prestai aiutando a servire a tavola e a sparecchiare. La padrona mi chiese se conoscevo il lavoro con i ferri, e durante la settimana potei confezionare dei calzetti con la lana di pecora. Fu molto compiaciuta e riconoscente e io fui orgogliosa di avere dato un po’ di aiuto. Non avevo perso il mio tempo, avevo potuto rendermi utile. Il mio cuore era contento. La nonna Maria mi aveva insegnato l’arte. “Impara l’arte e mettila da parte”, proverbio vero.

Durante i dieci giorni raccogliemmo sei sacchi di resina, in tutto sei quintali. Gastone la vendette e ognuno ricevette la sua parte di denaro. Era costato tanto sacrificio e molto lavoro.

Finiva l’anno 1945. La lira era svalutata in modo spaventoso e anche coloro che possedevano un buon gruzzolo rimasero con le mani vuote. C’era disperazione, bisognava ricominciare tutto da capo.

Lo zio Paolo, fratello della nonna Maria, lavorò tutta la vita in Svizzera. All’età della pensione chiese a mio padre se poteva venire a stare a casa nostra. Non essendosi mai sposato, non aveva altra famiglia all’infuori di sua sorella Maria. Anche la sorella di mio nonno Tita si chiamava Maria, Rossi. Anche lei non si era sposata e viveva in famiglia con noi. Non era sorprendente a quei tempi lontani che le famiglie rimanessero tutte nella stessa casa. I figli e i nipoti erano disponibili e davano aiuto e assistenza con devozione e generosità.

Per noi bambini piccoli fu sempre un fatto di contentezza e orgoglio parlare con loro e soprattutto ascoltare i loro racconti dei tempi passati. Ci addormentavamo sulle loro ginocchia, ascoltando fiabe e leggende. I nonni e gli zii erano circondati dal nostro affetto, rispetto e amore. I loro sorriso era per noi la ricompensa. Zio Paolo ricercava indubbiamente questo modo di vivere, attorniato dall’affetto di sua sorella Maria, di Giovanni Battista, suo cognato, e di Maria, sorella di suo cognato Giovanni.

I nostri nonni e zii si sostenevano, fra loro c’era la fratellanza, la solidarietà, il rispetto. Condividevano i momenti di convivialità, riempivano i giorni con i loro ricordi. Ricordi che avevano il potere di farli sorridere, guardando l’avvenire con coraggio e speranza. Noi nipoti eravamo il loro diversivo, la loro contentezza che faceva dimenticare la vecchiaia.

Lo zio Paolo aveva un conto in banca, tutti i risparmi frutto di una vita di lavoro in Svizzera. All’inizio di ogni anno mi incaricava di andare a ritirare gli interessi del suo conto, e ogni volta mi regalava cinque lire. Io le depositavo sul libretto bancario che lui mi aveva sottoscritto. Se la memoria non mi tradisce, questo libretto è ancora archiviato, nella cartella.

Alla fine della guerra, tutte le economie del lavoro di una lunga vita furono inghiottite dalla svalutazione della lira. Mio padre aveva voluto essere generoso e fu sempre orgoglioso di aver aiutato suo zio, una persona umana che aveva vissuto lavorando onestamente.

Quanti anni sono trascorsi, benché a me sembri che il tempo si sia fermato tanto è rimasto vivo in me il ricordo di quei tempi della mia giovinezza. Soltanto le mani tremanti mi fanno ritrovare la realtà e ammettere, con un tocco di amarezza, che ho raggiunto adesso l’età che aveva lo zio. Lo zio che aveva lavorato lontano dal suo paese natio e che, ritornato in Patria, volle conquistare tutte le più belle cime Dolomitiche, ritornando alla sera con una stella alpina in mano, gioioso, contento.

È impossibile far capire a coloro che hanno avuto la fortuna di rimanere sul suolo della propria Patria la difficoltà del distacco dal paese in cui si è nati. L’allontanamento dalla casa paterna, dove abbiamo osato staccarci dalle mani della mamma e muovere i primi passi, con le braccia aperte, per buttarci in quelle del padre. “La grande avventura di un bambino”.

Fare i primi passi nel mondo dei viventi, senza capire, indovinare, come sarà il nostro destino e dove ci condurranno i suoi disegni.

Questo io sentivo, in quel mattino alla fine dell’ultima mia estate nel paese di una bellezza favolosa in cui ero nata. Questo sentivo salendo sulla corriera, azzurra come il colore del cielo di quel giorno che il mio sguardo abbracciava. Le lacrime scorrevano, senza che potessi fermarle, sulle mie guance, e sventolando un fazzolettino bianco dal finestrino salutavo la mia famiglia.

Le lacrime mi impedirono di vedere il campanile della chiesa, dal quale si spandeva il suono dell’Ave Maria. La corriera mi strappò via velocemente e, con coraggio, ebbi la forza di guardare in avanti la strada che mi conduceva lontano.

Una proposta promettente – prima parte

di Flora Costa

Racconto tratto dal libro: Vivo due amori… le Dolomiti e la Lorena, di Flora Costa; Bellunesi nel mondo edizioni, 2018

Autunno 1945, Brunico. Della guerra rimaneva soltanto un orrendo ricordo. I liberatori erano arrivati, tutto stava trasformandosi. Il sorriso sul viso della gente, il cielo sembrava più azzurro, il sole riscaldava di nuovo l’anima e il cuore di tutti coloro che vivevano ancora. I soldati americani erano postati ad Alleghe, facevano bollire una grande quantità di caffè il cui aroma si diffondeva nell’aria, sopra il magnifico lago.

Ne distribuivano a tutti, e tutti arrivavano da ogni villaggio per prendere una pentola di questa bevanda. Nei lunghi anni di guerra ne avevamo dimenticato il sapore.

La guerra mondiale ebbe fine, lasciando desolazione e disoccupazione. Non c’erano più mezzi di trasporto, i negozi erano vuoti e chiusi. Si poteva sopravvivere soltanto con ciò che si produceva, ma avevamo resistito al caos di quei lunghi anni.

Un bel mattino la postina, che si chiamava Bortola “Postina”, portò una lettera a mio padre. Proveniva da Falcade, Valle del Biois. Una persona che veniva dalla Svizzera tedesca, Cantone di Glarona, invitava mio padre a passare a casa sua. Mio zio Vittorino, fratello del papà, aveva pregato questo signore di Glarona di portarci la lettera, chiedendo che ci incontrassimo affinché potesse darci sue notizie. Anche mio zio, infatti, abitava a Glarona con la famiglia di cinque figlie. Purtroppo, però, durante il lungo tempo della guerra non era stato più possibile comunicare. Questa comunicazione fu per noi una grande sorpresa. Era bello, dopo così tanto tempo, avere loro notizie e saperli sani e salvi.

Accompagnai mio padre, prendendo la strada della forcella, che permetteva di raggiungere il comune di Vallada molto più presto che non con la statale. Arrivando a Falcade con un indirizzo in mano trovammo la casa dell’emigrante in Svizzera che aveva per noi notizie dello zio. Dopo aver bussato alla porta una signora aprì e ci chiese che cosa volessimo. Dopo aver visto l’indirizzo ci fece entrare dicendo: «Mio fratello deve parlare con voi, entrate». Un signore ci salutò con tanta gentilezza, apparentemente stava bene. Era vestito bene, elegante, e subito capimmo che in Svizzera non avevano conosciuto le privazioni e la paura, mentre noi eravamo in cattive condizioni e privi di tutto.

Il brav’uomo, salutandoci, diede a mio padre una busta con una lettera e una bella somma di franchi svizzeri. Vidi mio padre commuoversi fino alle lacrime, i suoi occhi erano ingrossati dallo stupore. Queste brave persone insistettero perché pranzassimo con loro.

Alla fine, salutandoli chiedemmo se volevano portare a mio zio un pacchettino e una lettera quando sarebbero ripartiti. Ricordo bene ancora oggi, che sono molto anziana, la grande emozione provata alla vista di quei soldi. Da tanto tempo ne avevamo dimenticato il colore. I miei genitori poterono pagare i mesi di ritardo presso la cooperativa di consumo. Certe opere buone, come questa, rimarranno scolpite per sempre nella mente di coloro che le hanno ricevute.

Le privazioni di quegli anni difficili avrebbero trasformato lo spirito dell’essere umano rendendolo più saggio e umile per il resto della sua esistenza. Gli anziani dicevano che uno sbaglio è un insegnamento che servirà a percorrere le vie del mondo con più sicurezza e serenità.

Lo zio emigrante faceva di mestiere il “maler” (pittore), ma era nato con la camicia. Lo diceva la nonna Maria, sua madre, intendendo dire che era nato sotto una buona stella.
Nella Svizzera, dopo la guerra, aveva cominciato a fare il muratore assieme a un amico italiano. Prestarono il loro saper fare fabbricando dei lotti di case operaie, doppie, con due entrate, oppure singole. Case composte da quattro o sei appartamenti. Era nato fortunato, ha vissuto felice e contento, dotato di una fede profonda, sostenendo materialmente la restaurazione o la costruzione di monumenti sacri, chiese e capitelli al suo paese natale.

Dopo la fine della guerra ho avuto modo di stare tanto tempo accanto a lui. Morì all’età di novantaquattro anni, sepolto nella bella Glarona, dove ogni anno, finora, ho potuto raccogliermi in visita alla sua ultima dimora.

Subito dopo la guerra, dopo aver letto la lettera di mio padre e il mio timido scritto, appena poté ottenere il lasciapassare un bel giorno comparì davanti alla nostra casa. La gioia di tutti fu grande, ci fu festa in casa con polenta e coniglio e salsiccia fresca. Il festino batteva il pieno, ma lo zio dimostrò con le lacrime agli occhi tanta tristezza. I suoi genitori erano scomparsi durante i tristi anni della guerra.

Lui era generoso, mi regalò una collana di perle nere color ametista. Avevo compiuto diciannove anni e mi disse: «Hai il fidanzato? Vuoi sposarti presto?».

Io risposi: «Non è possibile, zio, non possiedo niente, non ho niente per poter creare una famiglia. Ci vuole un po’ di biancheria, un po’ di soldi. C’è il moroso, ma è tutto».

Zio Vittorino mi guardò e disse: «Vuoi venire in Svizzera? Ti faccio assumere in una fabbrica di filatura e tessile che si trova proprio nella nostra piccola città. Starai in casa con noi e con le tue cugine. Iolanda, la tua cugina più grande, sarà contenta. Che ne dici?».

Senza esitare un solo istante buttai le braccia attorno al collo dello zio, così generoso, disponibile. La sua proposta era molto sensata e promettente. Risposi: «Oh, sì, caro zio! Voglio andare in Svizzera a lavorare in fabbrica, guadagnare soldi per poter comperare la stoffa e cucire un corredo degno di una sposa».

Appena rientrato a Glarona, lo zio mi inviò una lunga lettera che diceva: «Sono andato dal direttore Fenny e gli ho spiegato di avere una nipote in Italia desiderosa di lavorare nella sua fabbrica. Il direttore, molto compiaciuto, mi ha risposto che poteva assumere non solo mia nipote, ma anche un gruppo, se fosse stato possibile, perché ha bisogno di manodopera. Allora, cara nipote, spedisco una richiesta rilasciata dal direttore e per mezzo di questa puoi richiedere i documenti necessari al Comune e un passaporto al Consolato svizzero a Venezia».

Contenta come una Pasqua, presentai la domanda in municipio e cercai sei ragazze del nostro paese, tutte orfane di padre, provenienti dalle famiglie più bisognose. Dopo aver preparato una lista del gruppo, consegnai la cartella in Comune e un mese dopo gli incartamenti furono pronti per presentarli all’ufficio del Consolato svizzero.

Nel frattempo ero stata impiegata all’Albergo “Alle Alpi” ad Alleghe, come cameriera da tavola. Era l’estate del 1946. Le Dolomiti cominciavano ad essere visitate da una grande moltitudine di turisti, soprattutto provenienti dalle città del Nord Italia.

La sala da pranzo di questo magnifico albergo era sempre piena, segnava “completo” ogni domenica. Avevamo come pensionanti tantissimi veneziani. Il padrone dell’albergo era nato a Venezia e per questo molti clienti venivano dalla bella laguna.

Fra i pensionanti che conoscevo già, una coppia mi fece la gentile proposta di darmi un passaggio fino a Venezia e di dormire una notte a casa loro, così potevo portare i documenti al Consolato. Per il ritorno mi sarei affidata alla grazia di Dio.

Arrivò la domenica della partenza, verso sera. Il calore di agosto era un po’ meno soffocante. Fui accolta in un appartamento in pieno centro di quella bella città. Non mancava niente, cibo, bevande, un letto confortevole, una camera molto carina. Purtroppo, però, non riuscii a dormire. L’aria mancava, si soffocava a Venezia in quella bella notte di agosto. Dalla finestra potevo contemplare la luccicante laguna sotto il chiaro della luna piena.

Il lunedì, di buon mattino, mi inoltrai in centro città, camminando incerta di seguire la via giusta per raggiungere il Consolato svizzero. Di tanto in tanto, con timidezza, chiedevo la direzione. Era un po’ complicato, ma senza scoraggiarmi, chiedevo e chiedevo di nuovo, e mi arrabbiavo con me stessa, dicendomi che ero una ignorante, nata nelle alte montagna e fatta per restarci. Che cosa venivo a fare in quella grande città, con acqua dappertutto?

Con gentilezza, la gente mi diceva: «Dopo cinque vie deve girare a destra, e dopo altre quattro a sinistra». In quelle strette stradine pedonali mi sembrava di perdere la bussola, era pazzesco. Ogni tanto, passando davanti a una porta, sentivo l’odore di cucina: pesce fritto e polenta, mi faceva venire l’acquolina in bocca! Decisi di fermarmi, entrando in una bettola, un ristornate piccolo, ma molto accogliente. «C’è un menù unico», mi dissero. Polenta e pesciolini fritti, con un bicchiere d’acqua, poiché avrei dovuto essere sobria per scoprire dove si trovava il Consolato svizzero.

Avevo saziato il mio stomaco vuoto, mi sentivo più fiduciosa, più sicura di me. Infatti, dopo alcune vie… destra… sinistra… apparve il palazzo tanto cercato. Ebbi la fortuna di non dover fare una lunga attesa, consegnai le cartelle del gruppo e mi informarono che le pratiche avrebbero avuto bisogno di qualche mese. I passaporti sarebbero stati spediti al nostro Comune.

Facendo nuovamente tutte quelle stradelle per il ritorno, cercai di trovare piazzale Roma. Forse, con un po’ di fortuna, avrei trovato un passaggio via Belluno-Agordo. Le corriere erano tante, ma nemmeno una con direzione Belluno. Miracolo, oppure provvidenza, vidi un’auto con la targa di Feltre. Come fare? L’auto era parcheggiata, bisognava avere pazienza. Senza perderla di vista e girando attorno alla piazza, pensavo a come trovare una via di scampo.

Mentre mi rompevo la testa, cercando di capire come fare, incontrai una coppia con un bambino che portava un cappellino in testa, una piccola gondola in mano e trascinava i piedi, evidentemente era stanco. Seguii la coppia con lo sguardo e notai che si avvicinavano all’auto di Feltre. In fretta mi avvicinai e chiesi un passaggio. Con grande cortesia mi risposero che con piacere mi avrebbero portata fino a Feltre.

Durante il percorso fra la laguna e Feltre, più di una volta mi addormentai, ma subito il bimbo mi toccava il braccio. Si era compiaciuto delle storielle che gli avevo raccontato per divertirlo e chiedeva un bis. Era carino, intelligente, curioso di sapere le cose che si possono dire soltanto a un bambino.

Pensai che anche io avrei avuto dei bambini, un giorno non tanto lontano, ma prima avrei dovuto partire e andare, purtroppo, all’estero e lasciare il mio paese natio. Chissà come sarebbe apparso il mio destino. Questa idea di una prossima partenza verso un orizzonte sconosciuto e lontano mi rattristò l’anima. Che dire? Che fare? I disegni erano già tracciati, non si poteva più cambiare il corso delle vita.

A Quero Vas salii sul treno fino a Belluno e qui, all’ultimo momento, riuscii a salire sulla corriera Buzatti con fermata ad Agordo. Ad Agordo bisognava trovare una camera per passare la notte. Salendo sulla corriera, salutai una giovane signora che stava già seduta. Le dissi che dovevo andare a Caprile. «Ma questa si ferma ad Agordo – mi rispose –. Io abito in centro ad Agordo e posso ospitarla per una notte a casa mia». «Grazie mille» dissi, molto commossa. Quando c’è bisogno, si presenta sempre una soluzione, pensai. Questo fatto si chiama “provvidenza”.

Ci vuole sempre la speranza e la riconoscenza, poi un giorno segue l’altro. Il tempo scappa via e la terra gira attorno al sole, vicina o lontana secondo le relative stagioni, senza mai gettare l’ancora un solo giorno… un solo istante. Così fuggono gli anni, come le pagine di un libro, e gli avvenimenti in ogni pagina che, girandosi, trascina lontano. Soltanto il ricordo rimane nelle menti di coloro che inesorabilmente diventeranno diversi, anziani, dicendosi ogni giorno: «Non sarò mai più giovane come lo sono adesso».

Continua…