Category “Vite migranti”

Storie di emigranti bellunesi

Il parroco, il seggiolaio e la perpetua

di Enrico Stalliviere

I giorni festivi andavano rispettati. E il seggiolaio era solito farlo rigorosamente. La domenica tardava ad alzarsi per gustare qualche minuto in più di sano riposo. Rimaneva sdraiato a occhi chiusi, lasciando che i pensieri corressero veloci. Pensava con malinconia agli affetti lasciati a casa: innanzitutto i famigliari, che avrebbe rivisto solo a fine stagione, poi gli animali domestici, anch’essi parte della famiglia e rispettati al pari degli umani, tanto che tutti avevano il proprio nome. Rifletteva inoltre su come organizzare la giornata lontano dagli utensili da lavoro.

Per prima cosa doveva prepararsi per la messa. Questo significava lavarsi e sistemare i capelli con l’immancabile brillantina Linetti, prodotto che dava alla chioma un delicato profumo e un effetto bagnato, un po’ come il gel usato oggi; quindi indossare i vestiti della festa che portava sempre appresso, serbati su un appendiabiti agganciato all’interno del motocarro. Fatto ciò, era pronto per prendere parte alla funzione domenicale. Inforcata la bicicletta, si avviava fischiettando verso la chiesa del paese che lo ospitava.

Quando era a casa, il seggiolaio lavorava senza sosta per mesi e raramente frequentava la chiesa, mentre in trasferta il richiamo ecclesiale era forte: non poteva mancare al rito e tutte le domeniche vi assisteva con devozione. Finita la messa, la meta successiva era l’osteria, dove avrebbe sicuramente incontrato vecchi conoscenti per fare quattro chiacchiere e trascorrere il resto della giornata tra una partita a carte e un bicchiere di vino.

Una domenica, in un paesino del Veronese, conclusa la celebrazione fu interpellato dal parroco, che gli chiese se potesse sistemare tutte le sedie ammaccate e logore della chiesa e del vicino cinema. Gli avrebbe offerto vitto, alloggio e un luogo riparato dove lavorare. Era una commessa importante, e il seggiolaio accettò con entusiasmo: un’offerta così allettante non capitava tutti i giorni. In più, un detto che all’epoca circolava tra i seggiolai affermava che “Dal piovan, se la olta e se la suga aldrit tut l’an”, “Dal parroco, si mangia e si beve bene tutto l’anno”.

Dopo aver effettuato il rifornimento di carice per le impagliature, il seggiolaio si presentò dal parroco per iniziare la sua opera. Gli venne assegnata una stanza nella casetta adiacente alla canonica, stanza che doveva servirgli da camera, cucina e laboratorio per il periodo necessario a eseguire il lavoro. In più, la perpetua gli avrebbe servito pranzo e cena a orari convenuti. Una manna! Avrebbe dormito in un letto vero, anziché nel cassone dell’ape o in qualche occasionale fienile, con la possibilità di lavarsi tutti i giorni.

Seggiolai Masoch di Pattine (Gosaldo)

L’indomani, dopo aver bagnato la carice, iniziò a lavorare di buona lena. Tutto procedeva nel migliore dei modi, l’erba per l’impagliatura era di ottima qualità e permetteva di completare dalle sei alle otto sedie al giorno. La perpetua era una brava cuoca e portava il cibo agli orari stabiliti con una puntualità degna di un orologio svizzero. Il seggiolaio si faceva trovare pronto, accogliendo con gioia il paniere di vivande che divorava in quattro e quattr’otto. Il sabato, prima di fare ritorno alla propria sede, veniva regolarmente pagato per il lavoro portato a termine.

I giorni passavano e in paese si era sparsa la voce che un seggiolaio era di base in canonica e stava sistemando le sedie della chiesa. Nelle famiglie, a quei tempi formate da nuclei numerosi, le sedie usurate non mancavano; la presenza dell’artigiano risultava davvero provvidenziale. Ecco allora che qualcuno degli abitanti lo contattò per portargli delle sedie rotte a riparare, e le nuove incombenze, sommandosi a quelle della chiesa, finirono col rallentare il lavoro per il parroco.

Al conza, però, non poteva andare meglio di così: era accudito in tutto e per tutto dal sacerdote e nello stesso tempo eseguiva lavori extra per sé, una situazione che con astuzia bisognava sfruttare. Per non creare un sospetto viavai di persone aveva ideato una sua procedura: si assentava qualche momento, andava a prelevare le altre sedie, le introduceva furtivamente in canonica e, una volta ultimate, effettuava la consegna ripetendo al contrario la furberia. Il parroco, ignaro, per un paio di settimane non fece caso al fatto che il lavoro andava a rilento e che il sabato passava meno danari all’uomo.

Ma questo stratagemma non durò a lungo. La perpetua, sempre attenta e vigile, si accorse degli strani movimenti e avvisò il prete, che pose fine al sotterfugio. Per dare una lezione all’artigiano, gli trattenne una piccola somma a rimborso dei pasti consumati e stabilì un vincolo: in quel luogo avrebbe lavorato solo per la chiesa. Ecco una conferma del vecchio detto popolare: “Chi troppo vuole nulla stringe”. Patti chiari e amicizia lunga. Dopo quell’episodio, il lavoro per il parroco durò ancora per parecchie settimane, questa volta adempiuto con disciplina e onestà.

Storia tratta da Imbaginà. Storie di seggiolai agordini, di Enrico Stalliviere; Bellunesi nel mondo edizioni, 2021

Saldatore in Medio Oriente e in Svizzera

di Enrico De Col

Saldatore in Medio Oriente e attivo anche nella comunità italiana in Svizzera. È questa la storia del longaronese Albino Sacchet. Nato nel 1932 nella frazione di Podenzoi e mancato nel 2018, è una figura che ha dato tanto all’emigrazione bellunese.

«Negli anni cinquanta – racconta la moglie, Anna Maria Sacchet – il lavoro nel Bellunese era poco e molti andavano all’estero. Mio marito aveva mandato domanda di lavoro in varie zone del mondo ricevendo risposte favorevoli dall’Australia (ma secondo lui era troppo lontana) e dal Canada (diceva che c’era troppo freddo). Il cugino Giuseppe Sacchet lo ha chiamato per lavorare con una ditta. Ha fatto un corso di inglese per tre mesi a Longarone con il maestro Giuseppe De Vecchi. Lui era un uomo di larghe vedute, imparava le lingue in pochissimo tempo, anche arabo, francese e poi tedesco. Era curioso e non aveva paura di accettare sfide anche in luoghi molto diversi dall’Italia.

Ha lavorato dal 1956 al 1958 in una cementiera in Iraq, poi è dovuto andare via per problemi politici, dato che nel Paese era scoppiata la rivoluzione. Dopo un ritorno a casa, mi ricordo il suo arrivo alla sagra di Codissago, la nuova avventura con la ditta Gein di Udine nella primavera del 1959. A Gerusalemme ha contribuito a restaurate la cupola della famosa Moschea di Omar.

Dopo che ci siamo sposati, nel 1960, ci siamo trasferiti in Svizzera, dove ha lavorato per una fabbrica di vagoni di treni. Siamo stati prima in Ticino, poi a Winterthur, nel Canton Zurigo. In Svizzera siamo rimasti fino al 1994, ma tornando ogni anno, o quando possibile, in villeggiatura a Longarone, dove abbiamo una casa in zona Pians. Eravamo via quando abbiamo appreso della tragedia del Vajont.

Io in Svizzera ho dato una mano come domestica nelle famiglie locali. È stata dura, perché non sapevamo bene la lingua. Gli italiani non erano ben visti, alcuni politici nazionali facevano anche una campagna discriminatoria nei nostri confronti. I residenti parlavano il tedesco usando il dialetto di Zurigo per non farsi capire. Anche per entrare nelle case private, salvo chi ci lavorava, c’erano difficoltà. Nonostante tutto, ci siamo aiutati a vicenda tra emigranti e con il tempo ci siamo integrati e ci siamo fatti ben volere dalle famiglie della zona. Nel tempo tante signore della zona venivano da me a confidarsi e io ero sempre pronta a dare loro consiglio.

Mio marito ha sempre aiutato gli italiani in Svizzera ad apprendere il mestiere di saldatore, insegnando nelle scuole di formazione professionale. Aveva la capacità mentale di passare dal disegno di un progetto alla sua realizzazione concreta. Con l’avanzare di età e carriera, la ditta gli aveva proposto una mansione meno impegnativa fisicamente, in ufficio. Era stimato da tutti e apprezzato per il suo impegno. Lui però non ne voleva sapere di stare seduto dietro a una scrivania: voleva essere sul campo e vedere quello che aveva contribuito a costruire. In tanti anni di permanenza in molti gli hanno chiesto: “Perché non si fa Svizzero?”. “Il mio sangue è sempre italiano”, questa è sempre stata la sua risposta».

Vita nomade – seconda parte

La prima parte della storia è disponibile QUI.

Assuefarsi a una vita nomade non è cosa di poco conto, ma io devo ammettere di essere stato doppiamente fortunato nella prima esperienza perché trovai comprensione sia da parte del padrone che da parte della gente. Mio padre aveva saputo consegnarmi a mani fidate: quel compaesano era un vero signore nell’animo e mi trattò come un suo figlio. Mi insegnava con grande passione mettendo sempre in risalto i miei piccoli miglioramenti: diceva che il seggiolaio non deve ridursi a bestia da soma ma che deve concedersi anche qualche ora di riposo. Si dimostrò sempre soddisfatto del mio rendimento.

A Umbertide e nei paesi circostanti la gente costumava dare vitto e alloggio ai seggiolai, pertanto durante la mia prima “campagna” ebbi sempre il conforto di dormire a letto. Siccome in tante zone ciò non avveniva, il letto per il seggiolaio era un lusso. Noi, ogni giorno, mangiavamo e dormivamo nella famiglia in cui avevamo lavorato. Su quelle tavole pane, vino e cibi ce n’erano a sufficienza. Aiutavo il padrone nei lavori che non richiedevano particolare abilità: andavo in cerca di lavoro, bagnavo la paglia alla fontana, impagliavo e squadravo il legno con l’accetta. C’erano delle famiglie che ordinavano sedie nuove affidandoci anche il compito di abbattere nel loro podere la pianta adatta per ricavare il legno necessario alla costruzione. Dopo due mesi di tirocinio ero in grado di impagliare discretamente bene cinque, sei sedie al giorno. Si diceva che la sedia, prima di farla, bisogna imparare a impagliarla. Io, la prima sedia, da solo, la costruii all’età di 18 anni: è un lavoro, questo, che esige abilità e accorgimenti particolari.

Nel 1920 a Umbertide una sedia nuova ce la pagavano 3, 4 lire, mentre la sola impagliatura valeva la metà; ma, come ho già riferito, i committenti ci offrivano vitto e alloggio oltre che il legno.

Nelle zone in cui i seggiolai dovevano provvedere da sé a vitto e alloggio, i prezzi del lavoro erano un po’ più elevati. In quei casi, però, dovevano dormire accucciati nel fieno dei fienili, oppure nelle stalle sopra la paglia. In certe situazioni i seggiolai dovettero dormire sotto i ponti e nelle piazze.

Quell’anno tornai a casa il 7 giugno: la mia presenza in famiglia, in quella stagione, si rendeva molto utile essendo il periodo della fienagione il più faticoso dell’anno. Bisognava falciare tutto con la falce e trasportare i fasci di fieno sulla testa; durante le altre stagioni le donne s’arrangiavano da sole a svolgere i lavori campestri, ma durante l’estate dovevano essere coadiuvate dalle braccia vigorose dei loro uomini.

Un gruppo di seggiolai agordini.

Le “campagne” immediatamente successive alla prima le svolsi con mio padre o con altri familiari. Quando mi resi indipendente, anch’io assunsi dei garzoni: il primo lo trovai ad Avoscan, il secondo e il terzo a Sovramonte. Trovare garzoni a Gosaldo non sempre era possibile dato che tanti seguivano il padre, i fratelli oppure i parenti. Bisognava ricorrere spesso agli altri paesi dell’Agordino e anche altrove. Ci furono seggiolai che ebbero garzoni di Cencenighe, Sospirolo e Santa Giustina.

Dopo che imparai il mestiere, da solo in un giorno riuscivo a costruire quattro sedie, con l’aiuto di un garzone invece ne costruivo sei. A impagliare una sedia impiegavo circa un’ora. Per l’impagliatura usavamo la paglia palustre. Se negli anni Venti il seggiolaio guadagnava poco in proporzione alle ore lavorative che svolgeva, gli anni Trenta, a causa della crisi mondiale a tutti nota, furono ancora peggiori. C’era miseria e la gente disponeva di poco denaro.

Negli anni che seguirono la Seconda guerra mondiale le cose migliorarono anche per i seggiolai: lavoro ce n’era a bizzeffe ed era discretamente retribuito, ma moltissimi lo abbandonarono avendo trovato altre possibilità di impiego in Italia e all’estero. Alcuni scesero nelle miniere del Belgio, altri entrarono nelle fabbriche, altri ancora scelsero i cantieri. Io tenni duro fino al 1960.

Quello del seggiolaio fu un mestiere duro e povero. Il seggiolaio visse diviso dalla famiglia girovagando di paese in paese, lavorando una quindicina di ore al giorno. Non potendo fissarsi una dimora stabile, per ricevere la corrispondenza doveva ricorrere al fermoposta oppure a un recapito in cui si recava abbastanza spesso. La sua famiglia incontrava notevoli difficoltà quando aveva bisogno di comunicargli notizie urgenti. Il suo lavoro si svolgeva tra la gente povera delle campagne e della periferia delle città. Nei grossi centri, oltretutto, sarebbe stato difficile trovare legno. Per molti il lavoro del seggiolaio fu una vera e propria lotta per la sopravvivenza. In mezzo a tante difficoltà, il seggiolaio era felice quando il lavoro abbondava.

Il gergo1, seguendo le raccomandazioni fattemi da mio padre e dal mio primo padrone, in tutti i miei anni di lavoro lo usai pochissimo, in casi del tutto eccezionali. Essi sostenevano che per non destare sospetti negli astanti e per guadagnarsi la stima della gente bisogna comunicare in modo chiaro, a tutti comprensibile. Avevano scarsa istruzione scolastica, ma molto buon senso.

Nella mia carriera una sola volta ricorsi alla vendetta nei confronti di un committente: costui, a lavoro ultimato, si rifiutava di pagarmi il prezzo pattuito. Quando vidi che era inutile discutere per difendere le mie sacrosante ragioni, elusi la sua sorveglianza e, lesto lesto, infilai pezzettini di lardo nell’imbottitura delle sedie. Era uno stratagemma bell’e buono: il gatto sentendo l’odore del lardo avrebbe graffiato i cordoncini di paglia guastando nell’arco di breve tempo il lavoro da me eseguito.

Gelindo Pongan (Gelindo dai Nonet), in collaborazione con il prof. Gian Pietro Zanin

Questa storia ci è stata gentilmente consegnata da Barbara Bressan.

1 Lo Skapelament del konza, una lingua inventata dai seggiolai per potersi esprimere “in segreto”, senza essere compresi dai profani. La base è il dialetto agordino, accanto al quale è introdotta una ricca serie di deformazioni lessicali, di metafore e altre figure retoriche.

Vita nomade – prima parte

Nacqui nel comune di Gosaldo il 25 dicembre 1906 e durante tutta la vita esercitai il mestiere di seggiolaio, continuando così una tradizione che era stata di mio padre e di mio nonno. Mio nonno non lo conobbi in quanto morì piuttosto giovane, ma riguardo alla sua attività di seggiolaio mi furono riferiti alcuni fatti che forse meritano un po’ di attenzione ai fini di una comprensione più ampia dell’attività dei seggiolai durante il secolo scorso.

Era nato nel 1841: a quei tempi si doveva viaggiare a piedi a causa della mancanza di mezzi di trasporto pubblico. Le sue “campagne” furono piuttosto brevi; la sua zona preferita era la vicina Valsugana. La stagione più redditizia gli fruttò 33 lire e un piccolo attrezzo per il confezionamento delle gerle che regalò al figlio Giovanni. Quando il nonno cominciò a fare il seggiolaio, ancora la “càora” (quella specie di cavalletto di legno che per il seggiolaio sostituisce il banco da falegname) non era in uso: lavoravano gli elementi della sedia premendo le estremità del pezzo di legno da un lato contro un muro, dall’altro lato contro una tavola di legno che il seggiolaio teneva appesa al collo. Era un modo rudimentale ma ingegnoso di improvvisare una morsa dal nulla. Morì nel 1892.

Mio padre non poté partecipare ai funerali del nonno perché in quel periodo si trovava in Francia, sempre come seggiolaio. Già alla fine del secolo scorso l’arte dei nostri “conthe” in Francia si era affermata con successo e un buon gruppo di gosaldini preferiva la Francia all’Italia in quanto offriva condizioni di vita migliori nonché maggiori possibilità di guadagno. Ovviamente le “campagne” francesi, date le difficoltà di collegamento esistenti a quell’epoca, richiedevano tempi lunghi; una “campagna” francese di mio padre durò quattro anni, quattro mesi e quattro giorni. A differenza del nonno, mio padre visse quasi esclusivamente con i proventi che gli derivavano dal suo mestiere di seggiolaio. Tengo a sottolineare “quasi esclusivamente” per il fatto che il bilancio familiare era integrato anche dall’agricoltura: quasi ogni seggiolaio, a quei tempi, in stalla possedeva una o più mucche e qualche altro animale. Egli partì per la Francia come garzone all’età di 9 anni, con il diploma di seconda elementare. Espresse sempre giudizi positivi sul conto dei francesi: soleva dire che esigevano lavori eseguiti con finezza e qualità.

La mia prima partenza come garzone è rimasta talmente impressa nel mio ricordo che cinquantotto anni non sono stati sufficienti, non dico a farmela scordare, ma nemmeno ad annebbiarla. Certe esperienze personali lasciano nell’animo un’impronta tale che il tempo non può logorare. Era il 5 gennaio 1920, avevo compiuto i 13 anni da una decina di giorni, ero in possesso del diploma di terza elementare. Partire a 13 anni era un po’ un privilegio se si pensa che parecchie famiglie, costrette dalla necessità, dovevano congedare i propri figli maschi all’età di 9, 10 anni. Il corredo che mia madre mi approntò era costituito dai seguenti capi: due paia di calzoni lunghi fino al tallone; una giacca; due panciotti di fustagno; due camicie lunghe fino al ginocchio; tre paia di calze di lana confezionate in casa; una maglia di lana; un berretto; un grembiule; un paio di scarpe confezionate in loco da un calzolaio; un paio di pantofole casalinghe (scarpét). Mutande niente, perché non erano ancora entrate nell’uso. I pantaloni e la giacca erano di fustagno, un tessuto resistente e particolarmente adatto ai lavori manuali.

Seggiolai in Francia, anni Venti

Alcuni giorni prima del distacco, fedele a una consuetudine paesana, andai in chiesa a confessarmi e a comunicarmi, fiducioso nell’aiuto del Signore. Mia madre mi insegnava che solo Lui può guidare sul retto sentiero ed essere di grande sostegno per le vie del mondo. La sera antecedente la mia partenza, ella mi cucinò le frittelle da consumare durante il viaggio; allora i dolci erano cosa molto rara per noi e servirono ad addolcire un po’ quell’indimenticabile partenza.

Il mio padrone era un compaesano; mio padre affidandomi a lui si raccomandò caldamente che m’insegnasse i primi elementi del mestiere trattandomi bene, con pazienza e umanità. Chiarì subito che non avrebbe voluto nessun compenso per le mie prestazioni ma che s’accontentava di un po’ di comprensione. Mio padre era molto sensibile ai problemi dei garzoni: conservava amari ricordi della sua prima “campagna” francese. Il suo padrone era stato troppo esigente e ai garzoni riservava un trattamento diverso da quello che riservava a sé. Raccontava di aver sofferto la fame e che la domenica, dopo una settimana di lavoro massacrante che durava dall’alba a notte inoltrata, doveva percorrere una quarantina di chilometri di strada a piedi per rifornirsi di paglia.

A piedi, con un fagotto in spalla, in compagnia del padrone, m’allontanai dalla mia frazione e, attraverso il Canale del Mis, raggiunsi la stazione ferroviaria di Sedico-Bribano. Era lunedì; essendo una giornata grigia e piovosa fu poco agevole percorrere i sentieri. A Bribano prendemmo il treno intorno alle 18.00: la nostra destinazione era Umbertide, provincia di Perugia. Quel paese il mio padrone lo conosceva bene, anzi tutti gli attrezzi del mestiere li aveva già là, in custodia presso la casa di conoscenti. L’unico attrezzo che io avevo preso era una piccola accetta. Il viaggio fu lento: arrivammo a Umbertide il mercoledì sera. I primi giorni versai qualche lacrima, non riuscendo a distogliere il pensiero dalla mia famiglia, dagli amici e dai miei monti. La cornice di cime che circonda Gosaldo mancava al mio sguardo provocandomi disorientamento e stupore.
(Continua…)

Gelindo Pongan (Gelindo dai Nonet), in collaborazione con il prof. Gian Pietro Zanin

Questa storia ci è stata gentilmente consegnata da Barbara Bressan.

Un futuro roseo

«Condizioni particolarmente vantaggiose vi sono offerte per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe. Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori». 

Ad affabulare gli operai italiani non era uno scaltro commerciante deciso ad appioppare mercanzia di dubbia qualità, erano le parole stampate su un manifesto della Federazione Carbonifera Belga diventato famoso per il suo colore rosa. Un brigante di carta incollato sui muri di tutte le città e zeppo di slogan e promesse da far stropicciare gli occhi: «Carbone gratuito», «Biglietti ferroviari gratuiti», «Premio di natalità», «Ferie», «Alloggio». 

«Il viaggio dall’Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani, firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio». Come non accorrere, come non approfittarne! La realtà era ben diversa, ed era fatta di condizioni difficili, fatica, pericoli. 

C’è una data simbolo che contrassegna l’emigrazione italiana in Belgio, quella del 23 giugno 1946. È la data in cui viene siglato il “Protocollo italo-belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio”. Un accordo ribattezzato anche “Uomini in cambio di carbone”. Gli uomini – duemila a settimana – li metteva l’Italia. Il Belgio forniva il carbone a prezzo agevolato.

Il contesto di questo scambio è quello disastroso, dal punto di vista materiale ed economico, dell’immediato secondo dopoguerra, con il nostro Paese sconfitto e bisognoso sia della materia prima (il carbone, appunto), sia di tamponare l’abbondante disoccupazione in patria. Bruxelles deve invece colmare il vuoto di manodopera lasciato nelle sue miniere dai prigionieri tedeschi rimpatriati dopo il conflitto. 

Per tenere fede al patto e garantire i contingenti di braccia promessi, lungo vie e piazze della Penisola inizia a comparire per l’appunto il famigerato “Manifesto rosa”, passato alla storia per il suo colore, ma soprattuto per la serie di annunci che, a suon di illusioni, stimolavano a trasferirsi in Belgio.

Già prima del “Protocollo” i nostri connazionali si erano diretti nel Pays Noir, impiegati assieme a polacchi, cecoslovacchi, russi e tedeschi nelle viscere della terra. Ma è dopo la firma dell’intesa che miniera e Belgio diventano, per gli italiani, elementi di un binomio inscindibile – fatto di duro lavoro, incidenti1, alloggi degradanti e silicosi – almeno fino alla fine degli anni Cinquanta.

A far calare nettamente i flussi saranno le conseguenze dirette e indirette del disastro di Marcinelle (8 agosto 1956), con le sue duecentosessantadue vittime, di cui centotrentasei italiane, morte a quasi mille metri di profondità a seguito di un incendio scatenatosi nella miniera del Bois du Cazier.

Dopo Marcinelle gli espatri calano, pur senza interrompersi. E gli italiani cominciano a inserirsi in settori diversi da quello minerario, con un buon numero di emigranti che decidono di stabilirsi definitivamente nel contesto di arrivo.

1 Tra il 1946 e il 1963 si contano 890 vittime italiane nelle miniere del Belgio.