Da Rocca Pietore al Sudafrica
Nel marzo del 1947, dopo aver lavorato per circa due anni all’ospedale di Feltre, sono andata in Svizzera. Avevo 18 anni. Lo stesso anno ho conosciuto Adelio De Vallier. Nel 1948 ci siamo sposati e nel 1949 è nata la nostra prima figlia, Diana. Dopo due anni è nato Walter. Poi, visto che la famiglia contava già quattro persone, avevamo deciso di fermarci.
Mio marito un giorno arrivò a casa con un libro che aveva acquistato: lo lesse, lo rilesse, lo studiò molto attentamente. Si intitolava “Cosa fare per avere o non avere figli”. Morale della favola, ne sono nati altri due!
Tornando alla Svizzera, ricordo con una certa rabbia e tanta umiliazione la visita cui ci sottoposero appena giunti a Chiasso: tutte noi donne nude in un grande stanzone per la disinfestazione!
Dopo alcuni anni in Svizzera, mio marito vide sul giornale che una ditta del Sudafrica cercava operai. Incerto sul futuro dell’Europa – temeva lo scoppio di un’altra guerra – inviò una lettera a Pretoria chiedendo un contratto di lavoro. Gli fu risposto che erano spiacenti, ma non avevano più disponibilità di posti di lavoro.
Dopo non molto venne a trovarci un nostro amico, emigrato in Australia, che ci consigliò di scrivere un’altra lettera, questa volta in inglese, cosa che Delio fece immediatamente con il suo aiuto.
Con la prospettiva di trasferirsi in Sudafrica, mio marito cominciò a studiare l’inglese, per essere pronto ad affrontare questa nuova realtà. Il tempo passava e non si otteneva risposta. Dopo un anno, finalmente, arrivò la lettera che lo informava che il contratto di lavoro era pronto. Io ero incinta del terzo figlio, per cui Delio partì da solo: io l’avrei raggiunto in seguito con tutta la famiglia.
Gianni nacque nel luglio del 1958. Il settembre successivo lasciammo Neuchatel e arrivammo ad Amsterdam, dove avevamo l’albergo prenotato (Delio aveva pensato a tutto!). Era proprio un albergo lussuoso, l’Hotel Regina, con una stanza meravigliosa. Il giorno seguente, un taxi ci portò al porto e la sera ci imbarcammo sulla nave Duncan. Era il 26 settembre 1958.

Devo dire che gli inglesi furono proprio gentili con me. Appena videro che avevo tre bambini, il più piccolo di appena due mesi, mi aiutarono in tutti i modi possibili, sbrigando in fretta le formalità doganali, facendomi salire per prima (la coda di chi si imbarcava era interminabile), accompagnandomi e facendomi sistemare nella nostra cabina. Dopo aver fatto scalo a Las Palmas, proseguimmo verso Sud.
Delio lavorava dodici ore al giorno, io restavo a casa ad accudire i figli. In un anno abbiamo pagato tutti i mobili, metà spese del viaggio e il terreno per fabbricare.
Quanto mal di mare ho sofferto… E mentre io me ne stavo rinchiusa in cabina, Diana e Walter scorrazzavano felici per tutta la nave. Non solo stavo male, ma ero anche preoccupata che capitasse loro qualcosa. Fortunatamente, tutto andò liscio.
Arrivammo a Città del Capo il 13 ottobre. Da lì ci aspettavano altri due giorni di treno per raggiungere Vanderbijl Park, dove si trovava Delio.

Avevamo a disposizione un intero vagone ferroviario, quasi un appartamento, con i letti e i pasti serviti, visto che avevo il piccolo cui badare, mentre i due grandi venivano accompagnati al vagone ristorante.
Delio mi aveva scritto che la ditta gli aveva dato in affitto una bella casa con il giardino e siccome a me piaceva tanto la polenta, avevo messo nel bagaglio un bel po’ di semi di granoturco con l’idea di seminarli nel nostro giardino. Ma guardando dal finestrino del treno in corsa non vedevo altro che distese e distese di granoturco. Non sapevo che quella pianta fosse la base dell’alimentazione della popolazione di colore.
Loro, infatti, non fanno mai a meno della polenta, anche quando mangiano pastasciutta. La fanno come noi, solo che è molto più dura e sempre bianca. Fortuna che è andata così, perché quando mi recapitarono la cassa con i miei bagagli e aprii il sacchetto del granoturco, la stanza si riempì di centinaia di farfalle: il granoturco era sparito.
Così ebbe inizio la nostra vita in Sudafrica. Delio lavorava dodici ore al giorno, io restavo a casa ad accudire i figli. In un anno abbiamo pagato tutti i mobili, metà spese del viaggio (l’altra metà l’aveva pagata la ditta) e il terreno per fabbricare. Delio, infatti, aveva detto: «Sento che mi fermerò qui, perciò invece di pagare l’affitto è meglio che ci costruiamo la casa».
L’anno seguente ottenemmo un prestito dalla banca e costruimmo la nostra prima abitazione in Sudafrica. La nostra preoccupazione maggiore fu quella di far imparare l’inglese ai nostri figli e quindi li mandammo a scuola al convento delle suore. Siamo tornati per una visita a Laste dopo undici anni, nel 1969. Il viaggio costava molto, ma quella volta abbiamo preso l’aereo.
In Sudafrica siamo rimasti per quarant’anni, prima a Vanderbijl Park, poi a Johannesburg. Abbiamo passato degli anni bellissimi, con la possibilità di far studiare i figli, e tutti si sono fatti la loro strada, onestamente, con il lavoro.
Articolo di Patrizia Gabrieli, pubblicato, in versione più estesa, su “El Pais”, notiziario di Laste.