Donna schiava
Al mattino mi venne detto che mi sarei dovuto recare a Tebidaba per la manutenzione di routine. Assieme a me ci sarebbe stato Christopher, il futuro caporeparto nigeriano, che mi venne affiancato per fare esperienza. Io e Christopher ci conoscevamo da tanto tempo e tra noi c’era stima reciproca. Io lo apprezzavo per la sua umiltà e disponibilità, e lui ricambiava per le stesse ragioni. Inoltre, sapeva che in qualsiasi circostanza poteva contare sulle mie capacità.
Il viaggio da Brass a Tebidaba, quando tutto andava bene, durava circa quattro ore. Partimmo il giorno dopo verso le otto del mattino. Attraversammo un largo braccio del fiume Niger, uno dei tanti del suo delta e, giunti alla sponda opposta, ci inserimmo in uno dei piccoli canali. L’influenza della marea si faceva sentire, la navigazione lungo questi canali non era mai monotona.
Finalmente arrivammo alla flow station di Tebidaba. Ormai era mezzogiorno passato e pensavamo che il cuoco ci avesse preparato il pranzo. Purtroppo, però, come succedeva spesso, era rimasto senza viveri. Conoscendo la situazione, avevamo portato la scorta per alcuni giorni. Sistemate le nostre cose negli alloggi, ci recammo all’impianto per farci un’idea di quanto lavoro ci sarebbe spettato. Ritornando verso la mensa Christopher mi fermò e mi disse: «Vedi quella donna con il contenitore dell’acqua che sta salendo sulla canoa? Mi sembra di conoscerla, assomiglia a una ragazza scomparsa dal mio villaggio due o tre anni fa. Probabile che mi sbagli e che semplicemente sia una che le assomiglia fortemente. Al villaggio i familiari la piangono come se fosse morta».
Nelle poche parole scambiate con Christopher, gli disse che era stata rapita e venduta, e lo pregò di aiutarla a scappare.
Della cosa non parlammo più fino al mattino seguente, quando la donna venne ad attingere acqua al nostro rubinetto. Appena vide Christopher, con discrezione gli fece cenno di avvicinarsi. Gli disse chi era, e aggiunse che aveva paura, perché l’uomo con cui viveva era molto sospettoso. Se l’avesse vista parlare con qualcuno del campo l’avrebbe fatta fuori. In fretta riempì la tanica dell’acqua e ritornò alla sua capanna. Nelle poche parole scambiate con Christopher, gli disse che era stata rapita e venduta, e lo pregò di aiutarla a scappare.
Christopher venne da me e mi chiese consiglio su come farla fuggire. Riflettemmo un po’, poi decidemmo che sarebbe stato opportuno aspettare il giorno seguente. Nel frattempo, mettemmo al corrente della situazione il capitano responsabile dei trasporti, che saputo della situazione ci assicurò che avrebbe mandato quanto prima un Sea Truck per l’emergenza. Ci raccomandammo con il comandante del motoscafo di non fermarsi in nessun posto fino al Brass terminal, là ci sarebbe stato il capitano ad attendere la passeggera.
Il motoscafo partì subito. Il più era fatto, ma rimanemmo in ansia ad aspettare la chiamata del capitano. Finalmente verso le due del pomeriggio ci chiamò, dicendoci che la donna era arrivata sana e salva. Il giorno seguente, a metà pomeriggio arrivò alla capanna il rapitore. Lo vedemmo cercare affannosamente la donna, non trovandola, caricò le sue cose sulla canoa, incendiò la capanna e partì sul delta del Niger. Dissi a Christopher: «Tutto è bene quel che finisce bene».
Giacomo Alpagotti