Giuliani e dalmati in Australia

dal Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo; Roma: SER, ItaliAteneo, Fondazione Migrantes, 2014.

Le emigrazioni dal Friuli Venezia Giulia verso l’Australia dopo la Seconda guerra mondiale videro tre gruppi distinti in viaggio: i friulani, i triestini e gli istriani, fiumani e dalmati. Le prime ondate migratorie del dopoguerra furono proprio quelle forzate dei giuliano dalmati nativi dei territori allora amministrati dalla Jugoslavia.

Questi zaratini, friulani, polesi vennero inseriti nell’Australian Displaced Persons Scheme insieme ad altri profughi, provenienti in particolare dall’area balcanica e da quella sovietica. Il movimento migratorio delle displaced persons era gestito da un organismo internazionale, l’IRO (International Refugee Organization), che operava da Ginevra su mandato dell’ONU dal 1947 al 1951. Chi intendeva recarsi in Australia doveva abbandonare il campo profughi in cui viveva per raggiungerne uno gestito dall’IRO, perlopiù Bagnoli (Napoli) o Cinecittà (Roma) per le selezioni e gli arruolamenti. Partivano da Napoli, da Genova o da Bremerhaven in Germania e viaggiavano in condizioni in genere disastrose. 

Ai primi del 1952 i compiti dell’IRO passarono al Comitato provvisorio intergovernativo per il movimento dei migranti dall’Europa, poi Comitato intergovernativo per le migrazioni europee (CIME). Il CIME di Trieste svolse un ruolo di primo piano per l’emigrazione assistita dei candidati residenti nel Triveneto. Un accordo bilaterale di emigrazione assistita tra Italia e Australia, siglato il 29 marzo 1951, favorì la partenza di triestini per l’Oceania; fu sospeso l’anno dopo per i disordini nei campi di raccolta di Boneigilla e di Sydney, causati dagli italiani frustrati dal divario tra le aspettative e la realtà incontrata, ma venne riattivato nel 1954. 

L’emigrazione assistita fu un fenomeno intenso ma limitato nel tempo. Una descrizione delle partenze si deve alle penna dello scrittore triestino Giani Stuparich: «Tutto il cuore della città era là, in quei saluti, in quelle raccomandazioni, in quegli addii: tutto il temperamento del popolo triestino si esprimeva in quelle manifestazioni di popolo che sa essere spiritoso anche tra le lacrime, vivace pur nella disgrazia. “I và, i và e noi restemo… sempre alegri e mai passion”, diceva un giovane operaio con l’occhio lucido e la bocca amara. “Andé fioi, feghe onor a Trieste!”, raccomandava un altro operaio anziano. E una vecchia nonna! Era là, sorretta dai parenti, e continuamente chiedeva se Rico fosse a bordo, e dove fosse, se avesse la sua sciarpa rossa intorno al collo, se salutava, se sorrideva, e se la traversata fin laggiù sarebbe stata buona; non volle muoversi di là neanche quando la nave si staccò e girò al largo; la gente cominciò a sfollare tra commenti e rimpianti: “nonina, la se movi!”, ma la vecchia non si decideva e, col volto rigato di lacrime, andava ripetendo: “Cossa che me toca veder!”».

Una bambina, seduta su una valigia, con una bambola di Cappuccetto Rosso: siamo durante una delle innumerevoli partenze di emigranti dal porto di Trieste nel secondo dopoguerra (per gentile concessione dell’Associazione Giuliani nel Mondo)

La partenza della “Castelverde”, la prima nave diretta in Australia con emigrazione assistita, è così descritta da un comunista muggesano: «Quelli della Castelverde con gesti, fischi, urli, fazzoletti, lampadine tascabili, lanciano segnali, saluti, messaggi. Niente canti, niente allegria. Pare una partenza per la guerra, per un viaggio verso l’ignoto e senza ritorno. Finalmente la nave si muove, Trieste va in Australia, chi poteva immaginarlo?». 

La gran parte dei friulani che partirono per l’Oceania appartenevano alla provincia di Pordenone, forse per la vicinanza con quella di Treviso, una delle aree più rappresentate verso quella destinazione. L’incontro con il continente “nuovissimo” non fu certo soddisfacente; il primo impatto fu con i poliziotti, i doganieri con il cappello a larghe tese, che «controllano i passaporti con facce bisbetiche, dure, accigliate. […] Non capiscono gli agenti, e non lo capiranno mai, che si può essere vestiti bene ed essere poveri. Per quelle teste coperte da un cappello a larghe tese, chi è povero deve essere vestito da povero». 

Il successivo impatto fu con i campi di raccolta, ex campi dell’esercito o di internamento per prigionieri di guerra. Ecco una testimonianza a proposito di quello di Boneigilla: «Appena usciti dal vagone, siamo stati accolti da migliaia e migliaia di mosche, una vera invasione, sembrava che ti volevano mangiare vivo. […] Il cibo che ricevevamo dalla cucina, a non stare molto attenti, prima di arrivare alla nostra stanza era pieno di vermi; la maggior parte del vitto andava a finire nel bidone dell’immondizia. Non molto dopo è arrivata l’epidemia di morbillo, la poliomielite era in giro. Nessuno te lo diceva, l’ambulanza veniva a prenderti i bambini e tante volte non sapevi il perché». L’unica proposta culinaria era il castrato di pecora o di montone, cucinato e condito con il suo stesso sebo: «Questa pecora ci veniva data ogni giorno: fritta, lessa, arrosta ed impanata: Papà andava in mensa e diceva: Di nuovo castrone! e, preso un pezzo di pane, se ne tornava in baracca». I rimedi erano peggio del male: «Ve lo potete immaginare che faccia aveva la gente nel vedersi servire maccheroni rossi al sugo con miele e zucchero. I cuochi, non c’è bisogno di dirlo, erano tedeschi». 

Un altro problema era rappresentato dalla lingua. Ecco la testimonianza di un equivoco: «Dopo alcune settimane mi chiamarono dall’ufficio di collocamento; dopo aver spiegato tramite interprete che avevo lavorato in Italia presso i cantieri navali di Monfalcone, sapendo che conoscevo le navi (in inglese ship) che suona molto vicino a sheep (pecora), mi assegnarono un posto di pastore, ai limiti del deserto, e m’indicarono sulla carta geografica dei bei laghi […] quei laghi erano laghi di sale, non d’acqua, e le navi erano con quattro gambe». 

Perlopiù si trattò di essere avviati a lavori essenziali all’economia australiana, a prescindere dalle competenze degli immigrati; e in genere massacranti. Del resto gli italiani adulti avevano firmato un contratto per due anni con il governo australiano accettando di fare qualunque lavoro fosse richiesto, come raccogliere frutta, posare le rotaie della ferrovia, pulire gabinetti, lavorare l’acciaio o il cemento, ma anche tagliare la canna da zucchero. Scarse le previdenze e protezioni sociali: «L’Australia di allora era un paese, per certi aspetti, quasi primitivo. Lavoro sì, ma basta. Non previdenza sociale, non casse ammalati; una settimana di ferie; alloggio: arrangiati. Si viveva in affitto in case occupate a volte anche da sei famiglie, con un solo bagno, una sola cucina ed un solo gabinetto esterno, che poi era praticamente una cisterna senz’acqua che veniva rimossa dagli addetti comunali una volta alla settimana». 

I pregiudizi, nei comportamenti e nelle parole, erano costanti, uniti a un certo risentimento. Un’altra testimonianza: «Gli australiani, essendo di razza inglese o irlandese, si sentivano superiori a noi, anche se erano molto inferiori per molti aspetti a noi emigranti giuliano-dalmati. Basti pensare che gli uomini allora non portavano le mutande sotto i pantaloni, erano vestiti come all’epoca del 1935, mentre noi eravamo sempre eleganti, con abiti più moderni, anche se al principio avevamo poco da indossare. Gli australiani non usavano il fazzoletto per pulirsi il naso». 

Ma non per tutti gli emigrati dal Friuli Venezia Giulia il rapporto con il Paese di destinazione fu alle origini così conflittuale. E alcuni trovarono una nuova terra nella quale progettare il futuro e mettere radici per progettare una vita nuova.

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