Uomini nell’ombra
«Venite a costruire i vostri sogni con la famiglia». L’accattivante invito era stampato su un manifesto di fine Ottocento che pubblicizzava le partenze dal porto di Genova verso il Brasile. La descrizione della meta era ancora più seducente: «Un paese di opportunità. Clima tropicale, vitto in abbondanza. Ricchezze minerali. In Brasile potete avere il vostro castello. Il governo dà terre ed utensili a tutti». Il titolo, in grande, garantiva: «Terre in Brasile per gli italiani».
Il fine era ovviamente quello di incoraggiare l’emigrazione. Perché? Volendo pensar male, per riempirsi le tasche con le speranze dei disperati. L’emigrazione, infatti, era un affare redditizio e i piccoli paesini di tutta Italia, da Nord a Sud, cominciavano in quell’epoca a brulicare di nuovi personaggi un po’ loschi e pronti a tutto: gli Agenti di Emigrazione. Una rete di soggetti che, fiutate le opportunità di guadagno, formavano un vero e proprio apparato economico non ufficiale fatto di agenzie e subagenzie. Un mondo parallelo che agiva nell’ombra, in contatto con gruppi affaristici legati alle compagnie di navigazione italiane e straniere. L’obiettivo era riempire i bastimenti e moltiplicare i profitti. I piroscafi solcavano l’oceano carichi di migranti, mentre i potenti proprietari delle società facevano il carico di bigliettoni e navigavano in un mare d’oro.
Agli occhi degli emigranti erano un punto di riferimento perché offrivano assistenza nelle complicate procedure burocratiche da sbrigare per la partenza e facevano da mediatori con il luogo di destinazione.
Un settore talmente fiorente che i dati di fine Ottocento stimavano in 20.000 il numero di intermediari attivi in tutta Italia. In questa intricata macchina da soldi, gli agenti rappresentavano l’elemento di aggancio con il territorio, i procacciatori del business. Conoscevano alla perfezione le zone in cui operavano, avevano contatti e capacità di persuasione, erano costantemente aggiornati sul mercato del lavoro europeo e americano e riuscivano a raggiungere le aree più remote della Penisola. Agli occhi degli emigranti erano un punto di riferimento perché offrivano assistenza nelle complicate procedure burocratiche da sbrigare per la partenza e facevano da mediatori con il luogo di destinazione. Spesso, però, il loro unico scopo era lucrare sulla gente che fingevano di aiutare.
«Ogni genere di truffe fu commesso in spregio della legge, si facevano pagare i noli a coloro che avevano diritto al passaggio gratuito pel Brasile; si speculava sui treni speciali, sulle spese impreviste, sull’albergo, con relativo fattorino, facchino, liquorista a Genova».
Si aggiravano tra mercati, piazze, strade e sagrati delle chiese raccontando di ricchezze straordinarie per coloro che si fossero diretti in America. Senza alcuno scrupolo, promettevano meraviglie e incanti, convincendo interi nuclei famigliari a imbarcarsi verso luoghi in cui ad attenderli c’era invece un destino completamente diverso da quello prospettato. Il 9 settembre del 1898 Luigi Einaudi (futuro Presidente della Repubblica) scriveva sul quotidiano “La Stampa”:
«La legge vigente sull’emigrazione del 1888 riconosce e quasi favorisce legalmente la classe degli agenti e subagenti di emigrazione con cauzione fruttifera ma senza alcuna reale responsabilità. L’effetto della nuova legge fu immediato. Spostati, analfabeti, truffatori di ogni fatta, riusciti a strappare dalle prefetture 20.000 patenti di agente e subagente, si sbandarono per le campagne italiane a fare propaganda presso gli ignoranti contadini, allettandoli con fallaci promesse verso le plaghe più inospiti del Brasile, i cui governanti ad alta voce chiedevano braccia umane a surrogare gli schiavi redenti, fuggiti nei boschi o nelle città!
Ogni genere di truffe fu commesso in spregio della legge, si facevano pagare i noli a coloro che avevano diritto al passaggio gratuito pel Brasile; si speculava sui treni speciali, sulle spese impreviste, sull’albergo, con relativo fattorino, facchino, liquorista a Genova. Sistematicamente gli agenti, per spolpare con più agio gli emigranti, li spedivano a Genova una settimana prima dell’imbarco e li indirizzavano a quei tavernieri che loro promettevano una più larga percentuale sugli utili. Da vent’anni a Genova durava lo spettacolo delle pubbliche strade e delle chiese piene di gruppi di disgraziati emigranti affamati, seminudi o tremanti di freddo in balia di una banda avida di danari. Negli alberghi centinaia di famiglie si vedevano sdraiate promiscuamente sull’umido pavimento o sui sacchi o sulle panche, in lunghi stanzoni, in sotterranei o soffitte miserabili, senz’aria o senza luce, non solo di notte ma anche di giorno. Le derrate, vendute a prezzi favolosi, non sfamavano mai gli infelici. I cambiavalute davano monete false od esigevano grosse usure. L’agente, il subagente, il fattorino, il facchino, il liquorista, il cambiavalute, il taverniere esigevano fino al sangue e l’onore delle loro vittime, perché avevano da pagare e da contentare alla loro volta un’altra turba di vampiri e sottovampiri grossi e piccoli che procuravano i clienti; sicché, a tutti i costi, dalle vene isterilite di quegli infelici doveva uscire sangue e poi sangue per tutti».
Nel 1901 si cercò di porre un freno all’azione degli speculatori con l’adozione della Legge generale sull’emigrazione, che diede vita a un ente di controllo diretto dal Ministero degli Affari Esteri e incaricato di tutelare i diritti di quanti lasciavano l’Italia: il Commissariato Generale dell’Emigrazione (CGE). Per la prima volta una normativa si proponeva di proteggere gli emigranti. Il Commissariato rimase attivo fino al 1927, quando fu trasformato in Direzione Generale degli Italiani all’Estero (DGIE).