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A far la balia

Mia nonna si chiamava Maria Corso. Era nata nel 1882 a Seren del Grappa. Dopo essersi sposata, quando nel 1902 ebbe il secondo figlio, tramite un baliatico di Feltre andò balia da latte a Milano. Vi rimase un anno, poi tornò a casa e nel 1904 ebbe un’altra bambina, così partì di nuovo balia da latte, questa volta a Trento, in casa Marangoni.

Nel 1906, con il marito (mio nonno), si trasferì in America e vi rimase per tanto tempo. Lì ebbe altri due figli. In America mio nonno lavorava nelle ferrovie e mia nonna aveva una cantina, una sorta di trattoria, e cucinava per gli operai.

Nel 1912 tornò in Italia ed ebbe un altro figlio, mio papà. Andò nuovamente balia da latte – sempre tramite il baliatico di Feltre – a Milano, in casa Brambilla. Rimase nel capoluogo lombardo un anno, dopodiché tornò per un po’ a Seren e poi mio nonno volle tornare in America, dove rimasero fino al 1918, riprendendo i loro vecchi lavori.

Quando rientrò, purtroppo rimase vedova. Ecco allora che riprese la via della balia, non più da latte, ma balia asciutta. Prestò servizio in diverse case di Milano. Andando di quando in quando al parco, conobbe mia mamma, che faceva la tata in una famiglia (anche mia mamma cominciò molto giovane ad andare a lavorare e la sua passione era quella dei bambini). Tramite mia nonna, mia mamma e mio papà si incontrarono e in seguito si sposarono.

Mia mamma, quindi, non potè più andare a fare la tata. Si prese una portineria a Milano, mentre mio papà lavorava all’Alfa Romeo. Tramite le tante conoscenze sviluppate lavorando come tata tra le famiglie nobili e dell’alta borghesia milanese, riuscì però a far da tramite con le donne che da Belluno necessitavano di lavorare e cercavano impiego come balie, riuscendo a sistemarle presso diverse case.

Così facendo, diventò un mito per Milano, un punto di riferimento tanto per le balie quanto per le case signorili. Ricordo che ospitava le donne alle quali trovava lavoro finché non si sistemavano. Con molte delle famiglie milanesi presso cui prestò servizio rimase un forte legame, tanto che io, tuttora, mantengo i contatti.
Quando sono a Milano e si parla di mia mamma, queste famiglie la ricordano ancora.

Elena Cassol
Storia raccolta da Luciana Tavi

Maria Corso, balia 
a Milano presso la famiglia Brambilla
Maria Corso, balia a Milano presso la famiglia Brambilla

Da Genova si va, verso Garibaldi!

Porto di Genova, 1885. Fu in quel luogo e in quell’anno che cominciò la storia d’emigrazione dei miei bisnonni, Giacomo Crestani e Maria Luigia Lorenzini. Partirono con il Vapore “Bormida” assieme ai tre figli: Maria Chiara, di otto anni, Francesco, di sei, e Giuseppe, di cinque. Destinazione Brasile. Giunsero a Rio de Janeiro il 9 dicembre, dopodiché presero la via fluviale per il Rio Grande do Sul, passando per le città di Porto Alegre e Montenegro.

Il lungo cammino fu pieno di ostacoli e difficoltà da superare, ma nella mente era ben fisso il pensiero dell’agognata meta da raggiungere

Dal piccolo porto di Montenegro alla loro meta finale non c’erano né il treno né altre vie terrestri. Per arrivare alla “terra promessa” percorsero col carro de boi circa cento chilometri, aprendo vie alternative in mezzo al macchieto vergine fino al Comune di Conde d’Eu (oggi Garibaldi), nella regione conosciuta come Serra Gaúcha. Il lungo cammino fu pieno di ostacoli e difficoltà da superare, ma nella mente era ben fisso il pensiero dell’agognata meta da raggiungere, anche se poi, una volta arrivati, non vi trovarono niente.

Tutto andava costruito da zero. Dovettero tagliare gli alberi per fabbricarsi la casetta, bruciarli per preparare la terra e piantare i semi. Isolati nel bel mezzo della foresta, senza vicini, senza mezzi di comunicazione, non restava loro che lavorare, pregare e cantare. Nel comune di Garibaldi nacquero altri sei figli: Stela, Ilde, Tomila, Alexandre (mio nonno), Virginia e Angela.

… oggi, facendo un po’ di ricerche, risultano più di quattromila discendenti in varie parti del Brasile.

Nel 1918 Giacomo decise di spostarsi verso la città di Nova Prata, lontana circa settanta chilometri verso Nord, con il figlio più grande Francesco e la sua famiglia. Nel 1924 anche Alexandre e famiglia si trasferirono a Nova Prata. Qui lavorarono come contadini, ma su un terreno di loro proprietà, coltivando granoturco, riso, uva, patate, frumento, vari tipi di frutta tropicale, verdure, e allevando maiali, manzi, cavalli e galline. Anche gli altri figli di Giacomo si mossero verso altre regioni del Rio Grande do Sul. Da questi primi emigrati, la discendenza si espanse via via lungo sette generazioni, tanto che oggi, facendo un po’ di ricerche, risultano più di quattromila discendenti in varie parti del Brasile.

Sono trascorsi oltre centotrent’anni da quando prese avvio questa storia. Migliaia di altre famiglie hanno seguito la stessa traiettoria di scoperta e sogni. Non soltanto italiani, ma anche tedeschi, polacchi, spagnoli, portoghesi, arabi. Tutti con il proprio contributo nella crescita del Rio Grande do Sul.

Adenor Chrestani

Giacomo Crestani e Maria Luigia Lorenzini
Giacomo Crestani e Maria Luigia Lorenzini

La coperta rossa

Fu parecchi anni fa, la prima volta che controllai il ripostiglio del pronto soccorso in una miniera di rame dello Zambia. Là, tra bende, disinfettanti e lacci emostatici, spiccava il color rosso scarlatto di una dozzina di coperte ben piegate in un involucro di plastica trasparente. Il mio primo pensiero fu che era logico che le coperte fossero rosse, sarebbero servite a coprire dei feriti e il colore avrebbe mascherato quello del sangue.

Ero giovane e non avevo mai visto un incidente; ne avevo sentito sì parlare, ed ero anche – a parer mio – preparato all’eventualità, ma pensavo che fosse una cosa così lontana da non preoccuparsene. Purtroppo non passò tanto tempo prima che anch’io vivessi l’ansia, il terrore e la disperazione di un’incidente e vedessi la coperta rossa diventare di un rosso cupo, man mano che si inzuppava del sangue di un amico.

Il giorno era uno come tanti altri, anche se lo ricorderò per sempre. Dovevamo controllare una falda freatica a circa settecentocinquanta metri di profondità. Eravamo in tre e percorrevamo un piccolo cunicolo; io ero in testa al gruppo, dietro di me veniva Robert e più attardato Lesilie, che era più anziano di noi. Con Robert eravamo come fratelli; spesso parlavamo di lavoro e di miniera: lui mi diceva che non voleva passare tutta la vita in miniera come aveva fatto suo padre, che a cinquant’anni era già un uomo finito. Mi parlava della tosse incessante del suo genitore, tosse che era il frutto di tanti anni passati tra la polvere e l’umidità.

«Ancora poco tempo – proclamò – e poi di miniera non si parlerà più».

Quella mattina, negli spogliatoi, mentre ci stavamo infilando i calzoni di lana e gli stivali, era moto allegro. Mi disse che aveva avuto un’offerta di lavoro da geologo nelle prospezioni, era felice. «Ancora poco tempo – proclamò – e poi di miniera non si parlerà più».

Uno schianto, la roccia che cadeva, un grido, io che mi giro con il cuore in gola. Lesilie che urla, polvere secca che entra negli occhi e nella gola. Tra le rocce cadute giace l’amico che fino a pochi attimi prima mi parlava, l’elmetto sventrato in fianco, il sangue che cola dalla fronte. La luce della pila non basta, dato che gli occhi sono coperti di polvere impastata di lacrime e di sudore nella frenesia di rimuovere i massi caduti. La corsa fino al telefono più vicino, lo strillo della sirena, la squadra di soccorso e l’amico fraterno sorretto solo dalla fibra dei suoi ventiquattro anni, avvolto nella coperta rossa che già si inumidiva di sangue.

All’infermeria è già arrivato un medico, che dopo un sommario esame mi guarda scuotendo la testa: è la fine. Un’altra giovane vita si era immolata nella miniera, ed era la vita di un amico. Lui non avrebbe avuto la tosse come suo padre, il destino non gliene aveva dato il tempo; non avrebbe sofferto di silicosi, non si sarebbe svegliato di notte senza respiro.

Mi avvicinai al lettino, le mie dita tremanti accarezzarono il corpo ormai senza vita avvolto nella coperta rossa.

Rinaldo Tranquillo

Rinaldo in Africa
Rinaldo Tranquillo in Zambia

Sono anch’io un emigrante?

A primavera del 1952, con la fine della quinta classe elementare, si era conclusa quella che amo definire la mia “carriera accademica”. I primi due inverni a seguire, 1952-53 e 1953-54, frequentai un corso teoricopratico per muratori. Solo la parte teorica, tenuta da un geometra nostro paesano. In ogni caso, a dodici anni e mezzo avevo in mano un diploma di muratore.

Proprio nel giorno dell’esame finale incontrai il nostro parroco di allora, don Ernesto Ampezzan, che mi chiese se fossi disposto ad andare a Roma a lavorare nel Seminario Romano Maggiore. Sapevo di cosa si trattava perché alcuni compaesani e amici miei ci erano già stati e mi avevano informato sul tipo di lavoro, nonché sulle condizioni economiche: trecento lire al mese. Così, con la benedizione dei miei, visto che c’era bisogno e sarei stato una bocca in meno da sfamare, feci le valigie per la capitale. Mia madre venne con me fino a Belluno, acquistò il biglietto per il viaggio e aspettammo la partenza. Caso volle che quell’anno il raduno degli Alpini in congedo si tenesse proprio a Roma e così chiedemmo se era possibile viaggiare con la tradotta degli Alpini, il che mi avrebbe evitato di cambiare treno nel bel mezzo della notte. Il permesso mi venne accordato ed ecco che il 18 marzo 1954, alle ore 20:00, ci fu la partenza.

Ebbi anche l’onore di servire il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi Sua Santità Papa Giovanni XXIII.

Arrivammo a Roma dopo circa dodici, tredici ore, allo scalo merci di San Lorenzo perché la Stazione Termini era nuovissima e un treno carico di ex Alpini avrebbe forse creato qualche… difficoltà.
Dopo varie peripezie, con l’aiuto di due dei miei “compagni di viaggio”, arrivai a destinazione e ci rimasi per più di due anni, fino al luglio del 1956. Il mio lavoro consisteva nel fare le pulizie di tutto il seminario. C’erano allora un centinaio di seminaristi, mentre noi eravamo una squadra di ragazzi più o meno della mia età, tutti della provincia di Belluno, in gran parte agordini e zoldani. Un ulteriore nostro ruolo era quello di camerieri. Ai pasti avevamo l’incarico di servire a tavola i seminaristi e i superiori. Non di rado capitavano ospiti di riguardo, come vescovi o cardinali ex alunni del seminario. Tra questi ebbi anche l’onore di servire il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi Sua Santità Papa Giovanni XXIII.

Roma, 1955. Isidoro in divisa da cameriere.

Nella primavera del 1957 mi capitò l’occasione di trasferirmi a Bolzano, dove uno zio aveva una piccola impresa di pittura. Iniziai allora da apprendista la mia vera carriera. Rimasi a Bolzano per i tre anni dell’apprendistato e per un quarto da operaio, mentre nell’inverno del 1960-61 un mio paesano che da anni lavorava in Svizzera mi chiese se non avessi interesse a espatriare. Era pittore anche lui e visto che stava per cambiare ditta, dal suo vecchio capo si sarebbe liberato un posto. Fu così che a marzo del 1961 arrivai per la prima volta a Herisau, nel Canton Appenzell, dove mi trattenni per otto stagioni, fino al 1968.

Appenzell, 1967. Isidoro (sulla vespa) con il fratello Claudio (in basso a sinistra)
e due colleghi di lavoro.

A metà degli anni Sessanta a Herisau venne fondata una delle prime Famiglie Bellunesi, grazie al signor Giacomo Ponte di Lamon e ad altri collaboratori. Anch’io fui tra i soci della prima ora ed ebbi in consegna il gagliardetto della Famiglia, che portai in corteo ai raduni in varie località della Svizzera, tra San Gallo, Sciaffusa, Lugano e così via. Nel 1968 la mia famiglia al completo si trasferì a Bolzano, dove già lavoravano mio padre e due sorelle, e così decisi anch’io di rientrare dopo quasi sedici anni.

Nell’anno scolastico 1969-70 frequentai a Bolzano le scuole medie serali. Grazie al diploma di licenza media – e a una discreta conoscenza della lingua tedesca acquisita negli anni in Svizzera – qualche tempo dopo ebbi la possibilità di entrare alle dipendenze dell’amministrazione provinciale di Bolzano in qualità di assistente ai servizi agrari. Vi rimasi per quasi vent’anni, fino al pensionamento. Nel frattempo mi sposai (nel 1974), ebbi due figlie e ora ho anche due nipoti. Fino al suo scioglimento, fui socio della Famiglia Bellunese dell’Alto Adige.

Anche se non ho visto né l’Australia né le Americhe, sessantasette anni li ho passati fuori dalla provincia di Belluno

Dopo il pensionamento, per un po’ ripresi la vecchia carriera dell’imbianchino, ma da un paio d’anni mi dedico solo alla famiglia: moglie, figlie e nipotini. Un po’ mi vergogno ad autodefinirmi emigrante. Ma in fondo, anche se non ho visto né l’Australia né le Americhe, sessantasette anni li ho passati fuori dalla provincia di Belluno, e continuo a farlo. Con ciò penso di potermi dire “migrante” anch’io.

Isidoro Nardi

Go West, young man!

Terminai l’Istituto Tecnico “Rizzarda” di Feltre nel 1959. A quei tempi era una scuola molto quotata, soprattutto per gli emigranti. Di diciannove che eravamo in classe, in quindici o sedici andammo all’estero. Io andai subito in Svizzera, però mi stava stretta. Erano anni duri. In Svizzera a quel tempo noi eravamo gli zingari, nonostante fossimo giovani con voglia di inserirsi. Si aprì allora la possibilità del Canada. Mi considero fortunato, perché fui tra quelli che poterono vivere l’esperienza delle ultime emigrazioni, quelle storiche. Viaggiai con il piroscafo “Saturnia”, e ci sbarcarono ad Halifax, alla famosa Pier 21*.

Partii da Venezia. La nave andava a Patrasso, in Grecia, dove caricava altre persone, dopodiché andava in Sicilia, poi a Napoli, da Napoli a Gibilterra e infine ad Halifax. Da Halifax arrivammo a Toronto. Ci impiegammo tredici giorni. Eravamo tutti giovani a bordo, oltre mille. C’erano bresciani, veneti, friulani. Quando arrivammo fu come ad Ellis Island, la cosa mi colpì molto. Furono gli ultimi anni, poi cambiarono sistema. Dopo un paio d’anni arrivarono lì anche altri miei amici, ma in aereo, la nostra emigrazione epica era terminata.

Entrammo tutti in fila, spogliati, e ci visitarono, ci controllarono i documenti e dovevamo avere una trentina di dollari in tasca. Poi ci misero in un salone, ci diedero un badge con nome e cognome e dove dovevamo andare e ci caricarono sul treno.

Nel ‘65, però, anche Toronto iniziò a starmi stretta. Feci mio il famoso detto “Go West, young man”

A Toronto avevo un fratello emigrato nel 1956. Iniziò così la mia vita in Canada. Fu la “mia” terra, l’apprezzai subito. Parlavo francese, ma non l’inglese, e ci tenni a impararlo. Abitavo nell’Ontario, tre chilometri fuori della città, vicino a Toronto. Tutte le sere, dopo le mie otto ore di lavoro, anche in inverno, con meno 20, meno 30 gradi, con la bicicletta andavo a seguire le lezioni al College e questo mi diede la possibilità di imparare l’inglese molto bene e di inserirmi nella società. Dal punto di vista lavorativo eravamo portati su un piatto d’argento. Noi sapevamo lavorare e in Canada la meritocrazia esiste e ti permette di avere molta soddisfazione. A Toronto conobbi tanti feltrini e bellunesi. Nel ‘65, però, anche Toronto iniziò a starmi stretta. Feci mio il famoso detto “Go West, young man”. Partii con la macchina e attraversai tutte le praterie, da solo, facendo tredici giorni di viaggio. Volevo andare fino a dove terminava la strada e questo mi portò nel Nord-Ovest della British Columbia. Lassù la strada terminava.

C’era un insediamento industriale dell’Alcan. Conobbi delle persone da Feltre che mi dissero: «Fermati, qui c’è da lavorare, c’è da guadagnare».
Lì la vita era bellissima per l’outdoor life e si guadagnavano tanti soldi, ma c’era solo da lavorare. Io ho sempre fatto il metalmeccanico.

All’autunno arrivarono i giorni tristi, perché lassù è già buio alle tre di pomeriggio e alla mattina si vede un po’ di sole alle dieci e mezza, e ti prende la malinconia. Resistetti tutto l’inverno fino all’estate successiva, lavorando dodici ore al giorno e sette giorni su sette, e riservandomi del tempo per pescare, cacciare e scalare montagne. A settembre, una mattina mi alzai e vidi già la prima nevicata. Allora mi arrabbiai e tornai a Toronto. Poi tornai in Italia e trovai una ragazza che divenne mia moglie. Era troppo dura nei mesi invernali, ormai scoppiavo. Ma fu un’esperienza eccezionale.

Giancarlo Scopel

* Celebre punto di approdo degli immigrati in Canada. Durante la sua esistenza 471.940 persone vi entrarono dall’Italia.