In ricordo di Lena

di Giovanna Toniolo

Mi chiamo Maddalena, detta Lena. Ho tredici anni e sono seduta al buio nel cassone di questo camion che, dicono, mi porterà a Milano. Io non so dove sia Milano. 

Parto da Vellai… sono appena rientrata dal Belgio. II mio papà è morto di possiera… faceva il minatore, ed io con la mamma, mio fratello e mia sorella siamo tornati a casa, in campagna, alla periferia di Feltre. Non ho neppure avuto il tempo di godermi le corse nei prati. II caldo della piccola stalla. Le nascite dei coniglietti. 

Mia mamma ha parlato con la perpetua e mi hanno caricata qui. In questo cassone buio, freddo. In mezzo ad altre persone che non conosco. So solo che vanno tutte a Milano. 

II parroco di Zermen organizza questi viaggi. Dice che Milano è grande, grandissima, e tutti trovano lavoro. Lui i contatti li ha già. Lui sa dove andremo. Sa anche dove andrò io. Ma ho paura lo stesso. Mi chiamo Lena e ho tredici anni. So a malapena parlare italiano. La mia lingua è un misto tra francese e feltrino. Tra feltrino e francese. So a malapena scrivere il mio nome. Non conosco i numeri. So, però, che mi manca già la mia famiglia. Che sono invasa dalla malinconia. 

Non so, invece, da quanto tempo sono seduta in questo cassone. Non so quando arriverò nella grande Milano, se ci arriverò. Mi sa che ho dormito per un po’, non ho idea di quanto tempo. Un uomo è venuto a “sgorlarmi” e a dirmi: «Desmissiete che presto son rivadi. Su su bela, corajo». Inutile dire che la paura è cresciuta a dismisura, così come il senso di solitudine e abbandono. Inutile dire che mi sento persa. Così è, che mi piaccia o meno. 

Arriviamo nei pressi di una canonica, adiacente a una chiesa immensa. Lì ci sono diverse persone. Ci chiamano per nome. Mi chiedo come facciano a sapere che io sono Lena da Vellai, ma loro lo sanno. E arriva il mio turno. Un signore basso, con coppola e baffetti buffi, mi avvicina, mi prende sottobraccio e urla (non so a chi…): «È questa la ragazza che va a servizio?». «Mí no so che cossa che ol dir ‘ndar a servizio» penso tra me e me. «Però se si deve, ci vado. E sarà quel che sarà. Semmai imparerò». E con questa convinzione salgo in auto. 

II “viaggio” è piuttosto lungo e tortuoso. Fermate, ripartenze, lunghi rettilinei. Non guardo, non voglio guardare, ma poi la curiosità ha il sopravvento e dal finestrino scorgo un lungo viale alberato. Infine una villa grande, bella come quelle dei film. L’auto si ferma. L’omino coppola e baffetti mi fa un cenno: «Sei arrivata… comportati bene, m’arcormandi». 

Scendo con la mia minuscola borsa. II cuore mi rimbalza in gola. Alla porta si presenta una signora. Non è anziana. Non è nemmeno giovane. Di mezza età. È bella. Indossa un golfino girocollo bianco, impreziosito da una collana di perle che si accompagna agli orecchini. Non è truccata. Ha occhi azzurri e profondi. Parla un italiano perfetto. Mi saluta con cordialità. «Ciao Maddalena, ben arrivata. Spero tu abbia fatto un buon viaggio. Ti accompagno nella tua camera (una camera tutta per me!). Domattina alle sette ti presenterai in cucina, dove conoscerai i tuoi colleghi. Ora riposa. Penso tu ne abbia un gran bisogno». 

Era grande come Milano la mia Parona. E bella. Sì, parchè la era bela la me Parona. Tant. Ma proprio tant. No ho mai savest al so nome. Ela la era la me Siora. E la era bela. Tant. Proprio tant. E bona. De pì. 

Da quella sera la bella ed elegante signora è diventata la mia Parona. Tutto, tanto di ciò che sono diventata, lo devo a lei. Ai suoi pazienti insegnamenti. Mi ha insegnato a camminare con la testa dritta (io guardavo sempre a terra), come vestirmi con il poco che avevo… ogni tanto mi allungava i vestiti che le sue figlie non mettevano più… erano bellissimi, molto fini. 

Mi ha trasmesso l’amore per la cucina. Dopo meno di un anno sapevo fare la pasta fatta in casa, gli gnocchi, il risotto, quello giallo, dolci e tanti tipi di carne… oh che passione aveva la me Parona!

Si andava ogni giorno al mercato comunale, mai visto nulla di così grande, nemmeno in Belgio. La sera, non tutte, ci mettevamo in cucina e, libri alla mano, mi insegnava la grammatica. Mi faceva scrivere e far di conto. Mi piaceva così tanto!

La Parona diceva sempre: «Bisogna studiare per essere davvero liberi, per guadagnarsi la stima degli altri. Diventare persone dignitose». 

Non è che capissi molto di quanto dicesse (ere na tosata), ma con il tempo ho fatto tesoro di ogni sua parola. 

Era grande come Milano la mia Parona. E bella. Sì, parchè la era bela la me Parona. Tant. Ma proprio tant. No ho mai savest al so nome. Ela la era la me Siora. E la era bela. Tant. Proprio tant. E bona. De pì. 

Sono stata a servizio per quasi dieci anni. Staccarmi dalla Parona, da quella famiglia che mi aveva accolto con affetto, da quella bella casa, non è stato per nulla facile, ma a Vellai c’era bisogno di me. 

Mia sorella si era sposata e portava già in grembo il suo primogenito. Non poteva certamente più lavorare la terra, né andare a fare i mestieri nelle case de ì siori de Feltre

Sono tornata a casa. Ventitré anni erano troppi per far su fameja, ma mi sono ugualmente innamorata del me Bepi e desideravo tanto dei figli miei. 

Ci ha pensato la mamma a sistemare le cose tra il Bepi e me. Mi ha portata nella casa buia in fondo alla campagna. Lì viveva una vecchia che faceva paura solo a guardarla. La mamma le ha raccontato la mia storia d’amore. Poche, asciutte, scarne parole. Ha posto nelle mani della vecchia la foto del mio Bepi, quella che tenevo sul mio comodino. La donna ha preso un bicchiere sbeccato. Ha versato dell’olio, lo ha mescolato… 

Il Bepi, dopo poco tempo, si è ammalato e ha perso l’uso dell’occhio destro. Non mi ha più voluta, nonostante io lo amassi ancora. Ho pianto (in silenzio e di nascosto) tutte le lacrime che avevo. Ho deciso che non avrei più avvicinato un uomo. E così feci. 

Poco tempo dopo sono andata a servizio presso una famiglia di Feltre. La Parona aveva da poco avuto un bambino, ma non poteva stare a casa, doveva lavorare. Erano tempi complicati quelli. II lavoro, soprattutto se autonomo, assorbiva la maggior parte del tempo e delle energie delle persone. II bimbo era piccolo e io lo accudivo come fosse mio.

La Parona di Feltre era un po’ severa, ma buona. Mi lasciava tutto lo spazio di cui necessitavo. Avevo la mia camera. Avevo piena autonomia nella gestione della cucina, così potevo mettere a frutto tutto ciò che avevo imparato nella grande Milano e, soprattutto, da quella bella Parona che mi aveva aiutato a crescere. 

Non ho avuto un marito. Non ho avuto figli miei. Ho cresciuto quelli degli altri. Negli anni la Parona di Feltre ebbe un bimbo che nacque morto. Che dispiacere fu per tutti. II Paron non poteva nemmeno lontanamente pensare che il suo bambino venisse seppellito in terra sconsacrata.

Si fece fare una dispensa dal Vescovo in persona, nella quale risultava che il bimbo aveva ricevuto il Sacramento del Battesimo in sala parto. Così il piccolo Antonio fu tumulato accanto ai suoi nonni. Poi arrivò un altro bambino. Tutti maschi in quella famiglia. Ho avuto il bene di crescere anche lui.

Milano, con la sua fitta nebbia che mi obbligava a segnare il marciapiede con un pezzo di mattone, per non perdere la strada di casa – come Pollicino – la porto nel cuore. E con essa la mia Parona

A Feltre posso andare in negozio a comprare la puina. Qui sanno cosa sia. Non devo chiamarla ricotta. Pranzo con la mia nuova famiglia e preparo, quando le trovo, le masanete che tanto piacciano al me Paron

A Milano erano chiamate granchietti… «na parola che no conosee». 

Cambio le vendimele tutte le settimane. Nella biancheria milanese erano le federe. Il Signore mi ha fatto la grazia di crescere anche i nipoti della Parona di Feltre… i me tre sbeteghini.

«Quant ben che ghe ho olest a quei tre tosatei. A la pì cea po’… tuta an fogo!» 

Mi chiamo Lena e questa è la mia storia. Probabilmente simile a quella di tante ragazze, poco più che bambine, strappate alla loro famiglia, alla loro terra, per cercare lavoro altrove. 

Penso di essere stata fortunata. Ho trovato una brava, bella, buona Parona nella grande Milano. Ho trovato la mia famiglia a Feltre. Sono stata la Tata Lena per ben due generazioni. Ora riposo a Vellai. Proprio lì dove avrei voluto essere. Nella mia terra. E sono in pace. Perché so di essermi guadagnata un posto nell’anima, nei ricordi, ma soprattutto nel cuore di chi ho tanto amato e mi ha tanto amata. Qui sanno cosa sia. E questo mi basta. 

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