Archivio di Aprile, 2022

Cent’anni fa in Australia

La digitalizzazione delle fonti scritte, a livello internazionale, offre sempre nuovi squarci di storie poco conosciute o che, talvolta, possono stravolgere quanto fino a quel momento dato per certo. La riprova sta in un articolo che ci è stato segnalato attraverso Facebook da Darren Piasente, pubblicato dal quotidiano “The Argus” di Melbourne, Victoria, il 17 giugno 1929. Titolo: “Jumbunna Mine Tragedy”. Tema: la tragedia mineraria di Jumbunna, che colpì tre nostri connazionali.

Durante l’inchiesta che ricercava i colpevoli della tragedia nella quale il 3 giugno persero la vita i tre italiani, il giudice Grant, assieme a una giuria di sette persone, ascoltò le testimonianze dei vari responsabili, e di quanti – presenti – potessero fornire dettagli su quanto avvenuto.

Il titolo di un articolo pubblicato il giorno dopo la tragedia, avvenuta il 3 giugno del 1929

Assodato, da parte di tutti, che vi era presenza di aria “cattiva”, che i vari registri e valvole presenti nelle gallerie non riuscirono a purificare, si convenne che i tre italiani, Ferdinando Triziana, J. Triziana e Caeser Pisanti (nomi trascritti erroneamente), che si erano spinti fino a circa 300 yarde (300 metri scarsi) all’interno della galleria, erano morti per asfissia a causa della presenza di “black damp”, un miscuglio soffocante di diossido di carbonio e di altri gas irrespirabili, come testimoniato dal campione analizzato dal reparto chimico della miniera.

Nel corso del dibattimento vi furono rimpalli di colpe da parte delle persone preposte alla sicurezza e fu proposta un’indagine sulle condizioni di questa e di altre miniere della zona, la qual cosa, tuttavia, non riportò in vita i nostri concittadini, originari di Lamon, e dall’articolo non emerge se giustizia fu fatta.

Ma è proprio alla conclusione dell’articolo che veniamo a conoscenza che il giudice Grant, a fine dibattimento, volle evidenziare che Caeser Pisanti perse la vita, nel tentativo di salvare la vita dei suoi compagni. Ed è proprio quest’ultima affermazione che non collima con quanto inciso nella lapide posta il 7 agosto 2009, a San Donato, dove risulta, invece, che fu Ferdinando Tiziani a tentare di salvare i suoi compaesani.

Forse altre fonti potranno fornire una spiegazione e lasciare le tre vittime riposare in pace.

Irene Savaris

La lapide posta il 7 agosto 2009 a San Donato, frazione del comune di Lamon

Una famiglia di Cancia dispersa in America

Mia nonna arrivò a New York da Cancia nel 1924. Io appartengo alla schiera dei tanti americani venuti in Cadore alla ricerca delle proprie radici. Ricerca proficua, che in diversi viaggi mi ha permesso di trovare nomi e storie di famiglia. Molto più difficile, invece (e sembra paradossale), è stato trovare parenti in America. Almeno fino a poco tempo fa.

Lo scorso settembre, infatti, la mia fortuna è girata, quando un cugino molto simpatico, Bobby Belfry, mi ha contattato e abbiamo scoperto che abbiamo in comune il cognome De Ghetto Garguol. Un test del DNA e l’accertamento dei documenti confermano che siamo cugini discendenti di Rocco De Ghetto Garguol (1802-1879) e Anna Maria Andreotta Moro (1815-1888), di Cancia. Cosa ancora più sorprendente, ho scoperto che siamo imparentati attraverso due famiglie di Cancia: i De Ghetto Garguol e gli Zanetti Daneto.

Bobby è un cantante talentuoso a New York, vincitore di numerosi premi. Sono così felice che mi abbia trovato, perché le mie ricerche fino a quel momento erano state frustranti e complicate dal fatto che suo nonno Giovanni (John) avesse cambiato il cognome da De Ghetto a Belfry, soprattutto a causa del sentimento anti-immigrati incontrato lavorando come commerciante negli Stati del Sud.

Non siamo sicuri di come Matteo e Maria si siano conosciuti. Sappiamo, però, che hanno iniziato la loro nuova vita insieme nel giorno più romantico possibile, scegliendo il 14 febbraio, il giorno di San Valentino, per sposarsi nel Bronx.

La storia di questa famiglia in America è una storia d’amore. Il bisnonno di Bobby, Matteo Olimpio De Ghetto, nato a Cancia nel 1885, emigrò a New York attorno al 1906. La bisnonna, Maria Caterina Belfi Goi, nata a Vodo nel 1888, arrivò nel 1890 con i genitori e i fratelli, e vissero nel Bronx, a New York. Non siamo sicuri di come Matteo e Maria si siano conosciuti. Sappiamo, però, che hanno iniziato la loro nuova vita insieme nel giorno più romantico possibile, scegliendo il 14 febbraio, il giorno di San Valentino, per sposarsi nel Bronx. Era il 1909. Due famiglie del Cadore si fusero per formarne una nuova, americana.

Olly e Mary nel giorno del loro matrimonio

Una piccola famiglia, la De Ghetto-Belfry, che però mi ha colpito per quanto è rimasta unita in America attraverso le generazioni,

Matteo Olimpio, che si faceva chiamare “Olly”, aveva portato con sé le sue doti di esperto falegname e grazie a quelle svolse molti lavori nella “Grande mela”, tra cui il primo maestro d’ascia (head shipwright) nei cantieri navali. Olly e Maria (Mary) crebbero due figli, William e John. John e sua moglie Ida ebbero un figlio, Robert, il padre del mio nuovo cugino Bobby e di sua sorella. Una piccola famiglia, la De Ghetto-Belfry, che però mi ha colpito per quanto è rimasta unita in America attraverso le generazioni, trascorrendo le feste assieme a zii, nonni, nipoti e cugini. Anche oggi i Belfry continuano a vivere vicini, cosa molto più rara in America rispetto all’Italia.

Olly, pur originario delle Dolomiti, sembrò essersi innamorato dell’acqua che circonda l’isola di Manhattan e delle spiagge del New Jersey e di Long Island. Comprò persino un terreno vicino alla riva dove costruì una bella casa e tenne una piccola barca. John, invece, era un uomo d’affari che viaggiava molto, mentre l’altro figlio di Olly e Maria, William, fece parte di un battaglione di carri armati nella Seconda guerra mondiale e in seguito prestò servizio nella Guardia Nazionale per lo Stato di New York.

John Belfry, con la moglie Ida (sulla sinistra); Robert Belfry, con la moglie Jean (sulla destra)

Anche se Bobby e io abbiamo vissuto vicino per molti anni – lui a New York e io nel limitrofo Connecticut – non ci siamo mai incontrati. Sfortunatamente, la pandemia ha per ora impedito qualsiasi riunione. Ma Bobby ha generosamente condiviso con me molte fotografie e storie della famiglia De Ghetto-Belfry, e di questo gli sono molto grata.

Dato che la sua famiglia non è mai tornata in Italia, nemmeno per una visita, io, da parte mia, condivido con lui ciò che ho imparato sulla nostra ricca eredità dolomitica. Speriamo di pianificare presto una reunion, negli USA o in Cadore, o magari in entrambi i posti!

Susan Petronio

La targa ricordo

Mi chiamo Francisc Boyer Sumavila, sono venezuelano. Come si può immediatamente comprendere, però, i miei cognomi sono europei. Il mio bisnonno arrivò da Belluno sulle coste venezuelane il 17 febbraio 1877, a bordo della nave “La Veloce”, e si stabilì in un piccolo villaggio che oggi si chiama Araira, nello stato di Miranda. In quella città arrivarono in cerca di un futuro migliore sessantaquattro famiglie italiane e tre francesi.

Il governo venezuelano offrì loro rifugio e terra da coltivare, ma molti degli italiani dovettero modificare nome e cognome, visto che in Venezuela nessuno parlava italiano e risultava difficile per gli abitanti pronunciare i nomi europei. Anche per il mio bisnonno fu così. Si chiamava Antonio Sommavila e alla fine diventò Sumavila o talvolta Sumabila. La bisnonna era Maria Dalmagre e loro figlio – mio nonno – Aristide Antonio Sumavila Dalmagre.

Ad Araira, dove vivevano, le piogge erano forti e in diverse occasioni provocarono delle inondazioni, per questo i registri ufficiali andarono persi e con essi le tracce degli uomini, donne e bambini coraggiosi che attraversarono l’Atlantico e osarono ricominciare da capo una nuova esistenza in terra straniera, sperando in una vita più dignitosa.

Le origini dei primi arrivati furono cancellate dai disastri naturali e oggi rimangono solo i discendenti a mantenere viva la storia italiana.

Nel luogo di arrivo c’è una targa commemorativa a ricordo di tutte le famiglie italiane che ci diedero la vita. In esse risiedono le nostre radici. Nessuno dei discendenti, tuttavia, ha la doppia cittadinanza, che sarebbe importante per poterci trasferire in Europa.

Dopo oltre un secolo, infatti, proprio come i nostri antenati, noi venezuelani siamo costretti a fuggire dalla crisi che attualmente travolge il nostro Paese.

Francisc Boyer Sumavila

La lettera di un altro

Gian Stefano Guerriero nacque a Pedavena il 26 giugno 1932. Cominciò a lavorare all’età di dodici anni, aiutando la nonna nel mulino di famiglia, dove in seguito iniziò a svolgere l’attività di carrettiere, andando a raccogliere grano e a consegnare la farina ai clienti. 

Successivamente divenne meccanico di biciclette, frequentando contemporaneamente l’Istituto Tecnico serale a Feltre. L’ultima stagione invernale in Italia la trascorse lavorando in una segheria. Trovandosi poi senza lavoro, fu il primo della sua numerosa famiglia a emigrare verso la Svizzera. La storia della partenza è legata a una casualità: il signor Guerriero, infatti, partì grazie a una lettera di assunzione. E fin qui nulla di strano. Solo che la lettera era indirizzata a un’altra persona.

Il compaesano Antonio Rech, il vero destinatario, era da qualche tempo emigrato in Australia, cosicché la madre di quest’ultimo, sapendo che Gian Stefano era disoccupato, gli indicò la possibilità di andare a lavorare per l’azienda che richiamava il figlio, precedentemente emigrato in Svizzera nel periodo tra le due guerre. Ebbe così inizio, il 10 luglio del 1951, la storia di emigrazione del signor Guerriero. 

Negli anni seguenti lo raggiunsero, per un’intera vita lavorativa in terra elvetica, i fratelli Maurizio, Pier Giorgio e Quinto, così come i genitori e gli altri fratelli che rimasero però solo per brevi periodi, svolgendo lavori stagionali. 

Arrivato in Svizzera, nella pensione in cui alloggiava, Gian Stefano trovò un amico di famiglia partito un paio di anni prima da Mugnai. Questo amico gli diede una mano ad ambientarsi e a superare le difficoltà iniziali. Per i primi cinque anni il signor Guerriero lavorò con contratti stagionali, riuscendo poi a ottenere un visto annuale. La fortuna che gli permise di partire lo seguì anche all’estero. I proprietari della casa in cui alloggiava – un italiano della Val Camonica e la moglie svizzera, del Canton Nidwalden – col tempo divennero i suoi suoceri.

Negli ultimi diciotto anni lavorò come elettricista presso la Pilatus, una fabbrica di aerei di Stans, nel Canton Nidwalden. Andò in pensione nel 1997, dopo quarantadue anni di lavoro, rimanendo a vivere in Svizzera dove le tre figlie hanno messo su famiglia regalandogli cinque nipoti.

Una partenza in treno.

Il “caregheta” in Canada

Un giorno un amico mi disse: «Guarda che Antonio è Bellunese». Fu così che incontrai Antonio Renon a una festa dell’Associazione Trevisani nel Mondo. A Ottawa siamo pochissimi originari di Belluno e trovarci in una città di 800mila abitanti è difficile.

Antonio era pensionato, vedovo da molti anni, e i suoi tre figli erano grandi. Tra le festicciole comunitarie, i bingo e la chiesa ci si teneva in contatto con gli amici ed era facile che ci incontrassimo. «Sì, sì, me ciene ancora in contatto co la me fameia a Gosaldo, e le tanti anni che son qua a Ottawa*».

Antonio iniziò a raccontarmi la sua storia da caregheta. Prima della Seconda guerra mondiale, compiuti dieci anni, partì in autunno con una squadra di seggiolai. Cominciò la sua passione che durò per tutta la vita: creare sedie iconiche da un tronco di legno verde e un po’ di paglia. Con l’occhio e la mano fatti grazie all’esperienza da giovane, Antonio cercò di ricreare le stesse sedie in Canada.

Si comprò un piccolo bosco a North Gower per facilitare l’approvvigionamento di legno verde e, usando attrezzi portati con sé dall’Italia, si mise a sperimentare con il legno Nordamericano. «Lo sai – mi spiegò – il legno qui a Ottawa non si spezza bene. La venatura è troppo selvatica ed è difficile da spianare. Ma ho fatto quello che ho potuto».

Quel giorno a casa sua vidi i frutti del suo lavoro: almeno una mezza dozzina di sedie di varie dimensioni, tutte fatte a mano e con amore. Fred, mio marito, fece delle foto di Antonio. Era facile raffigurarselo: un giovane alto quasi due metri, con i suoi attrezzi a tracolla, che viaggiava per mesi lungo la pianura del Po.

Antonio non mi disse mai se i suoi viaggi in Canada, lavorando nei boschi al nord dell’Ontario o nei campi di tabacco sulla riva nord del lago Erie, furono un’avventura pari a quella di seggiolaio. Qui a Ottawa usò il suo talento come passatempo.

Oggi che le careghe fatte a mano sono di moda, chissà se essere un conza con un laboratorio potrebbe essere un mestiere abbastanza redditizio per mantenere una famiglia.

Il 9 Settembre 2013, a Ottawa, Antonio morì improvvisamente. Aveva ottantotto anni. Era sbarcato con un gruppo di amici al porto di Halifax nel 1951.

Ariella Dal Farra Hostetter, Ottawa (Canada)

* Sì, sì, mi tengo ancora in contatto con la mia famiglia a Gosaldo, ed è da tanti anni che sono qui a Ottawa.

Antonio Renon
Antonio Renon con un attrezzo del mestiere