Archivio di Febbraio, 2023

Giornate per gli immigrati italiani

Una giornata per celebrare gli immigrati giunti dall’Italia. Lo scorso 21 febbraio il Brasile ha festeggiato il suo “Dia Nacional do Imigrante Italiano”.

La ricorrenza annuale è stata istituita con una legge federale del 2008, con l’obiettivo di rendere omaggio al contributo che l’emigrazione dalla Penisola ha fornito alla cultura, all’economia e al carattere nazionale del Brasile.

Ma perché proprio il 21 febbraio? Il giorno è stato scelto a ricordo del 21 febbraio 1874, data in cui viene fatto risalire il primo sbarco nel Paese sudamericano da parte di emigranti veneti, giunti a Vitoria, nello Stato di Espírito Santo.

Ricorrenze analoghe esistono anche in altre nazioni, terre di approdo dei “nostri” espatriati nei secoli scorsi. In Argentina, per esempio, la realtà in cui risiede la più numerosa comunità italiana all’estero.

Qui, sulla base di una legge del 1995, i festeggiamenti avvengono il 3 giugno, in ricordo della nascita di Manuel Belgrano, figlio di emigrati di Oneglia, divenuto uno dei padri dell’indipendenza argentina e ideatore della bandiera nazionale.

Anche la Repubblica Dominicana rende onore agli emigrati italiani con un’apposita Giornata: è il 5 dicembre, commemorazione del 5 dicembre 1492, quando Cristoforo Colombo arrivò per la prima volta sull’isola di Quisqueya, o isola di Hispaniola, sul cui territorio si trovano Haiti e, appunto, Repubblica Dominicana.

Caxias do Sul, monumento nazionale per l’Immigrato – immagine di Ricardo André Frantz, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2815236

Galleria fatale a Robiei

Canton Ticino, 15 febbraio 1966. Lavori in corso nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico tra la valle Bedretto e la val Bavona, la galleria Robiei-Stabiascio-Gries. È notte. Questo lo scenario di una tragedia sul lavoro che colpisce gli emigranti italiani. Una delle innumerevoli e drammatiche vicende che segnano anche il territorio bellunese. 

Uccisi da gas tossici, perdono la vita quindici operai italiani e due pompieri di Locarno.

Dopo tre anni di lavoro senza incidenti che consentono lo scavo di quasi 13 chilometri del tunnel, l’anno prima, a metà 1965, era avvenuta l’apertura del diaframma. Un anno più tardi, quel maledetto 15 febbraio, è prevista l’apertura della saracinesca di scarico che chiude le sezione della galleria a circa tre chilometri dal portale di Robiei. Se ne occupano i pompieri locarnesi e il capo-officina. Tutti e tre muoiono per asfissia. Altri quattordici operai, recatisi sul posto per soccorrere i compagni di lavoro, fanno la stessa fine per la mancanza di ossigeno nel condotto.

È il più grave incidente sul lavoro nella Svizzera italiana. A trovare la morte anche due bellunesi: Angelo Casanova, di Sedico, e Valerio Chenet, di Rocca Pietore.

«Sembra un destino crudele: in ogni disgrazia c’è sempre qualcuno dei nostri», l’amaro commento del nostro mensile Bellunesi nel mondo

«Val Bedretto, Robiei, Stabiascio, altri nomi che escono improvvisamente dall’oscurità e vengono ad aumentare le nostre cognizioni geografiche, accanto a quelli di Mattmark, Sass Fee, Marcinelle, Kariba» riporta la rivista, nel suo primo numero, uscito il 28 febbraio 1966, a pochi mesi dalla nascita dell’allora Associazione Emigranti Bellunesi. 

«Nomi dai più diversi accenti, ma ugualmente carichi di tristezza e destinati a rinnovare un dolore che va facendosi sempre più acuto ed angoscioso. Nomi che ripropongono, nelle sue tragiche dimensioni, il dramma della nostra gente, costretta a cercare, lontano dalla propria terra, il pane per le famiglie, ben sapendo che, assai spesso, la ricerca di una sicurezza economica è un viaggio verso la morte». Così è stato per Casanova e Chenet. 

Per capire chi erano questi due nostri conterranei tragicamente scomparsi, leggiamo ancora da Bellunesi nel mondo del febbraio ’66. 

Il pensiero di loro potrà aiutarci perché la galleria della morte di Robiei non rimanga un freddo e triste ricordo.

«Angelo Casanova aveva quarantaquattro anni. Fu obbligato a trasferirsi a Sedico in seguito alla costruzione del bacino idroelettrico della Valle del Mis, dove abitava con la sua famiglia. “Due volte vittima del progresso – disse di lui il Sindaco di Sedico – una prima volta cacciato di casa, una seconda volta privato della vita”. A Sedico aveva un appezzamento di terra e stava sistemando decorosamente la sua casetta. Aveva ripreso il lavoro in galleria da meno di un mese e con qualche anticipo sul previsto, per guadagnare al più presto quanto gli bastasse ad affrontare i suoi impegni e realizzare il suo sogno. 

Valerio Chenet, il più anziano degli operai italiani: cinquantun anni. Era uomo di grande rettitudine, preciso, competente; un vero esperto del lavoro di galleria, come ci dissero i suoi amici. Da molti anni ormai viveva in Svizzera, a Masciano, nel Ticino. Ma l’aver conservato la cittadinanza italiana indicava in lui il desiderio di ritornare un giorno nel suo bel paese, Rocca Pietore, fra il Civetta e il Marmolada, dove ancora molti lo ricordano. È stato l’ultimo ad essere travato, nella tragica galleria».

«Il pensiero di loro – concludeva l’articolo – potrà aiutarci perché la galleria della morte di Robiei non rimanga un freddo e triste ricordo, ma costituisca un impegno: un impegno di amore e di giustizia: un impegno umano e cristiano: un impegno per tutti».

Giuliani e dalmati in Australia

dal Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo; Roma: SER, ItaliAteneo, Fondazione Migrantes, 2014.

Le emigrazioni dal Friuli Venezia Giulia verso l’Australia dopo la Seconda guerra mondiale videro tre gruppi distinti in viaggio: i friulani, i triestini e gli istriani, fiumani e dalmati. Le prime ondate migratorie del dopoguerra furono proprio quelle forzate dei giuliano dalmati nativi dei territori allora amministrati dalla Jugoslavia.

Questi zaratini, friulani, polesi vennero inseriti nell’Australian Displaced Persons Scheme insieme ad altri profughi, provenienti in particolare dall’area balcanica e da quella sovietica. Il movimento migratorio delle displaced persons era gestito da un organismo internazionale, l’IRO (International Refugee Organization), che operava da Ginevra su mandato dell’ONU dal 1947 al 1951. Chi intendeva recarsi in Australia doveva abbandonare il campo profughi in cui viveva per raggiungerne uno gestito dall’IRO, perlopiù Bagnoli (Napoli) o Cinecittà (Roma) per le selezioni e gli arruolamenti. Partivano da Napoli, da Genova o da Bremerhaven in Germania e viaggiavano in condizioni in genere disastrose. 

Ai primi del 1952 i compiti dell’IRO passarono al Comitato provvisorio intergovernativo per il movimento dei migranti dall’Europa, poi Comitato intergovernativo per le migrazioni europee (CIME). Il CIME di Trieste svolse un ruolo di primo piano per l’emigrazione assistita dei candidati residenti nel Triveneto. Un accordo bilaterale di emigrazione assistita tra Italia e Australia, siglato il 29 marzo 1951, favorì la partenza di triestini per l’Oceania; fu sospeso l’anno dopo per i disordini nei campi di raccolta di Boneigilla e di Sydney, causati dagli italiani frustrati dal divario tra le aspettative e la realtà incontrata, ma venne riattivato nel 1954. 

L’emigrazione assistita fu un fenomeno intenso ma limitato nel tempo. Una descrizione delle partenze si deve alle penna dello scrittore triestino Giani Stuparich: «Tutto il cuore della città era là, in quei saluti, in quelle raccomandazioni, in quegli addii: tutto il temperamento del popolo triestino si esprimeva in quelle manifestazioni di popolo che sa essere spiritoso anche tra le lacrime, vivace pur nella disgrazia. “I và, i và e noi restemo… sempre alegri e mai passion”, diceva un giovane operaio con l’occhio lucido e la bocca amara. “Andé fioi, feghe onor a Trieste!”, raccomandava un altro operaio anziano. E una vecchia nonna! Era là, sorretta dai parenti, e continuamente chiedeva se Rico fosse a bordo, e dove fosse, se avesse la sua sciarpa rossa intorno al collo, se salutava, se sorrideva, e se la traversata fin laggiù sarebbe stata buona; non volle muoversi di là neanche quando la nave si staccò e girò al largo; la gente cominciò a sfollare tra commenti e rimpianti: “nonina, la se movi!”, ma la vecchia non si decideva e, col volto rigato di lacrime, andava ripetendo: “Cossa che me toca veder!”».

Una bambina, seduta su una valigia, con una bambola di Cappuccetto Rosso: siamo durante una delle innumerevoli partenze di emigranti dal porto di Trieste nel secondo dopoguerra (per gentile concessione dell’Associazione Giuliani nel Mondo)

La partenza della “Castelverde”, la prima nave diretta in Australia con emigrazione assistita, è così descritta da un comunista muggesano: «Quelli della Castelverde con gesti, fischi, urli, fazzoletti, lampadine tascabili, lanciano segnali, saluti, messaggi. Niente canti, niente allegria. Pare una partenza per la guerra, per un viaggio verso l’ignoto e senza ritorno. Finalmente la nave si muove, Trieste va in Australia, chi poteva immaginarlo?». 

La gran parte dei friulani che partirono per l’Oceania appartenevano alla provincia di Pordenone, forse per la vicinanza con quella di Treviso, una delle aree più rappresentate verso quella destinazione. L’incontro con il continente “nuovissimo” non fu certo soddisfacente; il primo impatto fu con i poliziotti, i doganieri con il cappello a larghe tese, che «controllano i passaporti con facce bisbetiche, dure, accigliate. […] Non capiscono gli agenti, e non lo capiranno mai, che si può essere vestiti bene ed essere poveri. Per quelle teste coperte da un cappello a larghe tese, chi è povero deve essere vestito da povero». 

Il successivo impatto fu con i campi di raccolta, ex campi dell’esercito o di internamento per prigionieri di guerra. Ecco una testimonianza a proposito di quello di Boneigilla: «Appena usciti dal vagone, siamo stati accolti da migliaia e migliaia di mosche, una vera invasione, sembrava che ti volevano mangiare vivo. […] Il cibo che ricevevamo dalla cucina, a non stare molto attenti, prima di arrivare alla nostra stanza era pieno di vermi; la maggior parte del vitto andava a finire nel bidone dell’immondizia. Non molto dopo è arrivata l’epidemia di morbillo, la poliomielite era in giro. Nessuno te lo diceva, l’ambulanza veniva a prenderti i bambini e tante volte non sapevi il perché». L’unica proposta culinaria era il castrato di pecora o di montone, cucinato e condito con il suo stesso sebo: «Questa pecora ci veniva data ogni giorno: fritta, lessa, arrosta ed impanata: Papà andava in mensa e diceva: Di nuovo castrone! e, preso un pezzo di pane, se ne tornava in baracca». I rimedi erano peggio del male: «Ve lo potete immaginare che faccia aveva la gente nel vedersi servire maccheroni rossi al sugo con miele e zucchero. I cuochi, non c’è bisogno di dirlo, erano tedeschi». 

Un altro problema era rappresentato dalla lingua. Ecco la testimonianza di un equivoco: «Dopo alcune settimane mi chiamarono dall’ufficio di collocamento; dopo aver spiegato tramite interprete che avevo lavorato in Italia presso i cantieri navali di Monfalcone, sapendo che conoscevo le navi (in inglese ship) che suona molto vicino a sheep (pecora), mi assegnarono un posto di pastore, ai limiti del deserto, e m’indicarono sulla carta geografica dei bei laghi […] quei laghi erano laghi di sale, non d’acqua, e le navi erano con quattro gambe». 

Perlopiù si trattò di essere avviati a lavori essenziali all’economia australiana, a prescindere dalle competenze degli immigrati; e in genere massacranti. Del resto gli italiani adulti avevano firmato un contratto per due anni con il governo australiano accettando di fare qualunque lavoro fosse richiesto, come raccogliere frutta, posare le rotaie della ferrovia, pulire gabinetti, lavorare l’acciaio o il cemento, ma anche tagliare la canna da zucchero. Scarse le previdenze e protezioni sociali: «L’Australia di allora era un paese, per certi aspetti, quasi primitivo. Lavoro sì, ma basta. Non previdenza sociale, non casse ammalati; una settimana di ferie; alloggio: arrangiati. Si viveva in affitto in case occupate a volte anche da sei famiglie, con un solo bagno, una sola cucina ed un solo gabinetto esterno, che poi era praticamente una cisterna senz’acqua che veniva rimossa dagli addetti comunali una volta alla settimana». 

I pregiudizi, nei comportamenti e nelle parole, erano costanti, uniti a un certo risentimento. Un’altra testimonianza: «Gli australiani, essendo di razza inglese o irlandese, si sentivano superiori a noi, anche se erano molto inferiori per molti aspetti a noi emigranti giuliano-dalmati. Basti pensare che gli uomini allora non portavano le mutande sotto i pantaloni, erano vestiti come all’epoca del 1935, mentre noi eravamo sempre eleganti, con abiti più moderni, anche se al principio avevamo poco da indossare. Gli australiani non usavano il fazzoletto per pulirsi il naso». 

Ma non per tutti gli emigrati dal Friuli Venezia Giulia il rapporto con il Paese di destinazione fu alle origini così conflittuale. E alcuni trovarono una nuova terra nella quale progettare il futuro e mettere radici per progettare una vita nuova.

La Carta Mondiale dei Migranti

Il 4 febbraio 2023 compie dodici anni la Carta Mondiale dei Migranti, approvata nel 2011 a Gorée, in Senegal, al termine di un incontro internazionale organizzato a margine del Forum Sociale Mondiale di Dakar.

Il progetto prende però avvio già nel 2006, a Marsiglia, in occasione della lotta che centoventi famiglie senza permesso di soggiorno intraprendono con l’obiettivo di ottenere i documenti necessari. 

«Fu un migrante in situazione irregolare di nome Crimo – spiega Maria Grazia Sanzi, nel Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo – a proporre la redazione di un testo da parte dei migranti basato sul loro vissuto e sulle loro esperienze». 

Un primo testo dal quale presero il via diversi incontri internazionali, con la suddivisione dei migranti coinvolti in Coordinamenti Continentali: gruppi costituiti allo scopo di organizzare assemblee locali per agevolare un processo di scrittura collettiva.

Dalle proposte giunte dalle diverse parti del mondo, un Coordinamento Internationale ha tratto una sintesi, diffusa tra le assemblee locali tra settembre 2010 e gennaio 2011, fino ad arrivare all’approvazione definitiva del 4 febbraio 2011.

«La Carta Mondiale dei Migranti – sottolinea ancora Sanzi – non è una semplice dichiarazione o convenzione. La sua reale innovazione consiste nel permettere a tutti coloro che hanno conosciuto forme di migrazione di scrivere attraverso il proprio vissuto e le proprie esperienze una Carta di princìpi legati ai diritti fondamentali: la libertà di restare dove si vive; la libertà di spostarsi sul nostro pianeta e di stabilirsi liberamente dove si desidera allo stesso titolo e con gli stessi diritti che sono accordati alla libera circolazione delle merci e dei capitali; la parità di diritti in tutti i campi della vita fra i migranti e i cittadini dei paesi di residenza o di transito; l’esercizio per tutti di una piena cittadinanza fondata sulla residenza e non sulla nazionalità». 

L’approvazione del 2011 non ha rappresentato un punto di arrivo per la Carta, bensì un nuovo punto di partenza, dato che – dopo la stesura finale – le assemblee locali hanno avviato un’opera di diffusione e promozione della Carta «in modo – evidenzia sempre Sanzi nel Dizionario – che un numero crescente di migranti se ne potesse appropriare», utilizzandola «per la difesa e la promozione dei propri diritti e della propria libertà». 

Concluso l’appuntamento di Gorée, la rete che ha dato vita alla Carta si è estesa e strutturata, facendo sorgere un comitato internazionale che agevolasse il raccordo fra le iniziative locali e ne migliorasse la visibilità a livello globale.

Informazioni tratte dal Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo; Roma: SER, ItaliAteneo, Fondazione Migrantes, 2014.