Archivio di Agosto, 2022

Lo scrittore Antonio G. Bortoluzzi promuove il concorso letterario Abm “Raccontare l’emigrazione veneta”

Antonio G. Bortoluzzi testimonial del concorso letterario “Raccontare l’emigrazione veneta”. Lo scrittore bellunese, autore dell’antologia Montagna madre, Trilogia del Novecento e dei romanzi Come si fanno le cose, Paesi alti, Vita e morte della montagna e Cronache dalla valle, vincitore, con le proprie opere, di numerosi premi e riconoscimenti a livello nazionale e membro accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, sposa l’iniziativa dell’Associazione Bellunesi nel Mondo. E la promuove.
«L’epopea dell’emigrazione italiana, in particolare veneta, vive nelle memorie di chi è partito nell’Ottocento, nel Novecento e ci ha lasciato quella che possiamo chiamare “la grande narrazione della lontananza”», il suo pensiero. «Questa lunga storia ha sempre bisogno di nuove voci: anche oggi alcuni giovani fanno le valigie, certo, non è un esodo che riguarda milioni di persone, ma sono esperienze e numeri importanti. Dai nostri avi fino a noi e ai nostri figli, la memoria individuale e famigliare può diventare patrimonio comune, una terra piena di storie dove conoscerci, dove sentirci a casa e compresi».
Da qui l’invito: «l’Associazione Bellunesi nel Mondo attende il tuo racconto sull’emigrazione veneta. Buona scrittura».
«Siamo grati ad Antonio Bortoluzzi per le belle parole espresse a favore del nostro concorso», il commento del presidente Abm, Oscar De Bona. «Speriamo che l’appello di un autore così stimato e apprezzato anche fuori dai confini del nostro territorio possa stimolare tanti a prendere in mano la penna o a mettersi alla tastiera per dare forma al proprio racconto».
Il concorso è dedicato a racconti inediti e originali, reali o di fantasia, in lingua italiana, aventi a tema, appunto, l’emigrazione veneta, storica e attuale.
La partecipazione, gratuita, è aperta a chiunque abbia almeno sedici anni (bisogna essere nati entro il 31 dicembre 2006), ovunque residente (in Italia o all’estero).
Ogni autore può partecipare con un solo racconto, che dovrà avere minimo 10 mila e massimo 25 mila battute, spazi compresi. La scadenza per l’invio degli elaborati, da spedire via email a concorsoemigrazione@bellunesinelmondo.it, è fissata al 4 novembre 2022.

I dieci racconti finalisti verranno pubblicati in un libro edito dall’Abm. I primi tre saranno inoltre premiati con 500 euro (primo classificato), 300 euro (secondo) e 200 euro (terzo).
Il bando completo, con l’indicazione delle modalità di partecipazione, è disponibile sul sito: www.bellunesinelmondo.it.

Per maggiori informazioni è inoltre possibile contattare la sede Abm ai seguenti recapiti: tel. 0437 941160; email: concorsoemigrazione@bellunesinelmondo.it.

Geremia scolpisce l’America

Scultore, autore di grandi complessi monumentali in marmo e in bronzo che ancora oggi decorano alcuni dei più prestigiosi palazzi pubblici in America, Geremia Grandelis fu un illustre cittadino del Comelico.

Nato a Campolongo il 10 luglio 1869, fin da bambino dimostrò il suo talento. Si narra che a soli nove anni abbia scolpito con il temperino due statute in legno alte più di un metro. Raffiguravano San Giacomo Minore e San Giacomo Maggiore.

Delle sue abilità si accorse uno scultore già affermato come Antonio Dal Zotto, che convinse il padre di Geremia a farlo studiare. Eccolo nel 1881 a Venezia a farsi le ossa nello studio dello scultore Guglielmo Michieli. Racconta Giovanni Fabbiani, nell’Omaggio a Geremia Grandelis scultore italo americano: «Di notte disegnava vignette e caricature da pubblicare in giornali e riviste, di giorno frequentava l’accademia e lo studio del suo Maestro».

Maestro che, come da tradizione, venne presto superato dall’allievo. Nel 1886 Geremia espose alla prima Biennale di Venezia e ottenne il primo premio nella sezione umoristica, proprio davanti al suo insegnante, che finì secondo. In anticipo sui “cervelli in fuga”, nel 1893 fece le valigie diretto a New York.

Nel Nuovo Mondo collezionò un successo dietro l’altro, realizzando lavori che lo resero celebre e apprezzato in tutto il Nord America: 500 teste grottesche per il Metropolitan Opera House, il teatro d’opera più grande del pianeta; le decorazioni interne e i portoni di bronzo per la cattedrale di Washington; le statue del Tempo e della Gloria per il parlamento di Ottawa, in Canada; dodici statue per la biblioteca di New York; il portale in bronzo e diverse decorazioni per quella di Filadelfia; il monumento in onore di Abraham Lincoln, sedicesimo Presidente degli Stati Uniti; i piloni monumentali per la bandiera della città di New York e tanti altri capolavori.

Morì il 2 novembre del 1929 a Perth Amboy, nel New Jersey, dove tuttora riposa accanto al figlio.

I moléte: artigiani senza insegna e senza eredi

di Lois Bernard

«Donneee alé rivà al moléta»: grido che, con cronologica puntualità, invadeva le vie del borgo, a rompere il torpore sonnacchioso di una mattinata qualunque. Dalle cucine udivi un frenetico sferragliar di lame: coltelli di disparate fogge, forbici, mezzelune…, tutte bisognose di ritrovare il filo. Arrivava col suo marchingegno spinto a braccia o portato sulle spalle, pesante fardello di ancestrali fatiche, o con una strana bicicletta, frutto di un ingegno senza formule. Passava mesto porta a porta a raccoglier la ferraglia che avrebbe restituita, sul far della sera, arrotata e scintillante. Dentro un cortile o sotto un portico, vedevi la mola vomitar scintille: ad osservarlo, monelli curiosi e donzelle neghittose. Pedalava lesto pensando con nostalgia ai monti della Val Rendena o della Val Resia, donde era partito per guadagnarsi il pane.

Contesto geomorfologico e socioeconomico
Vien da chiedersi per quale ragione il lavoro di arrotino (moléta, brüsar, slàifer, ucefuarfis, gue), al pari di altri lavori itineranti di strada, si sia sviluppato in particolare all’interno di valli dell’arco alpino, al punto che alcune di esse furono antonomasticamente associate a tale mestiere.
Per quanto riguarda gli arrotini, le valli più famose, quasi vi fosse lì una sorta di vocazione per questo mestiere – benché non ne avessero l’esclusiva – erano la Val Resia (UD), nota appunto come “Terra di arrotini”, e la Val Rendena (TN), anch’essa prolifica fucina di affilatori. Altre valli alpine hanno conosciuto, sia pure in misura minore, questo fenomeno; fra queste merita menzione la zona dell’Alta Carnia con i comuni di Ligosullo, Paularo e Treppo Carnico.

Il fenomeno dell’artigianato ambulante nacque in particolari contesti in cui la tipica geomorfologia delle valli alpine, per lo più strette e scoscese, e l’altimetria, rendevano problematico il reperimento dei necessari mezzi di sostentamento. La conformazione delle valli limitava pesantemente la possibilità di attuare un’agricoltura redditizia in quanto solo il fondovalle permetteva una pur minima coltura a campo o a prato. Le coltivazioni, a volte insufficienti persino a garantire una produzione di mera sussistenza, erano limitate ai fagioli, alle fave, al granoturco, alle patate, alle rape e a poco altro. Le alternative al lavoro agricolo erano la pastorizia, svolta a titolo principale o integrativo (importante era il ruolo della caseificazione), la silvicoltura e, se valle di confine, addirittura l’esercizio del contrabbando, con i rischi e le conseguenze che ne potevano derivare (1).

L’offerta del territorio era quindi inadeguata: la povertà diffusa non consentiva ai valligiani di condurre una vita dignitosa. Restava la valigia, metonimia di un andare – con biglietto a doppio o unico senso – cui i montanari diverranno adusi. Il fatto che nelle valli succitate abbia primeggiato la figura dell’arrotino ambulante è verosimilmente da ascrivere alla perizia e manualità dei loro artigiani, i quali apprendevano il mestiere da qualche compaesano che l’aveva pioneristicamente intrapreso e ne aveva saggiato e divulgato le potenzialità.

Ad averlo favorito può essere stata anche la crisi dei cròmer (kràmars), dovuta al diffondersi anche nei paesi più piccoli e sperduti di una qualche attività commerciale stanziale: quella di arrotino costituiva una alternativa valida ed economicamente gratificante. Inoltre, il fatto di poter lavorare autonomamente senza dipendere da terzi che non fossero i clienti, può aver influenzato tale scelta e concorso a farne una sorta di tradizione di famiglia. Ogni arco temporale ha generato forme di emigrazione diverse. Nelle valli di montagna, anguste e isolate, il percorso lavorativo individuale, specie se replicato da più soggetti, diventava anche storia della comunità (2), ecco perché la Val Rendena e la Val Resia sono diventate “Terre di arrotini”.

Guà (moléta), Gaetano Zampini, Arti che vanno per via nella città di Venezia, Venezia, 1754

Lo strumento di lavoro
Lo strumento principe dell’arrotino era la mòla, uno spesso disco di materiale abrasivo (pietra arenaria) (3) che veniva fatto ruotare manualmente o mediante un meccanismo a pedale. La lama da arrotare veniva messa a contatto con la mòla rotante in modo da assottigliare il lato da affilare. L’attrito provocava delle scintille. Durante il funzionamento, la mòla doveva essere continuamente bagnata, sia per favorire lo scioglimento del materiale connettivo che cementa i cristalli di quarzo (responsabili dell’azione abrasiva che produce l’affilatura), sia per impedire il surriscaldamento della lama. Per mantenerlo costantemente bagnato, il disco veniva irrorato attraverso un recipiente sistemato sopra la mola, solitamente un barattolo munito di un piccolo rubinetto. Nel macchinario usato dal moléta nel suo continuo peregrinare, il moto di rotazione era impresso da un ingegnoso sistema a biella e manovella azionato da un pedale che permetteva all’operatore di avere le mani libere. La configurazione di tale dispositivo, una struttura lignea dotata di cassetti per ospitare mole di differente grana e altri attrezzi (una piccola incudine, una morsa, tenaglie, martelli ecc.), poteva cambiare a seconda dell’ingegno del costruttore; erano molti i moléte che se lo fabbricavano in proprio. Caratteristica comune era quella di avere almeno due diverse ruote: una cerchiata che serviva per il trasporto, a mo’ di carriola, l’altra scanalata per muovere, mediante il pedale e una cinghia collegata alla relativa puleggia, l’albero su cui era inserita la mòla. Tale ruota svolgeva anche la funzione di volano.
Modelli più completi avevano due ruote per il trasporto e una per far ruotare la mòla. Siffatta attrezzatura era chiamata argagn o slaifera dagli arrotini della Val Rendena e krösma da quelli della Val Resia e, ancorché funzionale al lavoro, essendo piuttosto pesante e ingombrante doveva essere spostata a spinta e/o traino o, nel caso di modelli più leggeri, portata sulle spalle a mo’ di pesante zaino. Il trasporto risultava comunque lento e faticoso.

Fu così che per velocizzare il trasferimento da un paese all’altro, si pensò di adattare allo scopo una bicicletta, dotandola dei necessari accessori. La catena di trazione veniva utilizzata per collegare la corona della pedaliera a un pignone opportunamente fissato sulla canna. A esso solidale (e coassiale) era un’altra corona la cui catena faceva ruotare il pignone dell’albero su cui era montata la mòla. Tale disposizione sortiva altresì un effetto moltiplicatore. Solitamente, oltre alla mola per affilare, ve n’era un’altra, più piccola, per lucidare gli utensili arrotati. Un cavalletto sulla ruota posteriore e due aste di metallo divaricate poste anteriormente conferivano all’insieme la necessaria stabilità. Successivamente, il progresso della tecnologia permise l’allestimento di furgoncini attrezzati, migliorando sensibilmente sia le modalità di trasporto, sia le condizioni di lavoro.

Bicicletta di arrotino resiano. Archivio Ciceri, Tricesimo. Antonio Longhino, Val Resia terra di arrotini

L’arrotino: artigiano emigrante girovago
Il lavoro di arrotino doveva trovare necessariamente sbocco al di fuori della piccola valle d’origine, per cui, come già era avvenuto per altre categorie di lavoratori (kràmars, muratori, carpentieri, minatori, scalpellini ecc.), innescò un fenomeno migratorio che da inizio/metà Ottocento si protrasse fin verso gli anni Sessanta del Novecento. L’esercizio di tale mestiere, a fronte di un continuo girovagare, consentiva una sostanziale autonomia ed era sufficientemente remunerativo. Quella di emigrare non era, come detto, solo una scelta personale, ma un fenomeno condiviso con l’intera comunità. Un modo di essere, tramandato da una generazione all’altra, tale da costituire una vera e propria cultura della gente di valle (4). Con la slaifera o la krösma, a seconda della valle, o con la bicicletta elaborata, l’arrotino partiva portandosi appresso la nostalgia della famiglia e della valle. Armato di speranza e sorretto dalla convinzione di aver intrapreso un percorso per il quale si sentiva portato e nel quale riponeva fiducia, si involava gagliardo per le vie del mondo.
Verso la metà dell’Ottocento, in virtù anche dei grandi lavori infrastrutturali della Mitteleuropa che richiamarono molta e varia manodopera, cambiarono anche i tempi dell’emigrazione. Venne abbandonato il vecchio stereotipo che vedeva l’emigrante assentarsi nel periodo autunno-inverno per dedicarsi durante la stagione estiva ai lavori agricoli, sostituito da un nuovo modello contemplante una partenza che dall’inizio della primavera si protraeva fino all’autunno inoltrato (5).

Gli arrotini svolgevano la loro opera sia sul versante italiano, sia su quello austriaco e nord-europeo, arrivando a raggiungere anche, come vedremo in seguito, Londra e gli Stati Uniti d’America. Quello di arrotino era considerato un lavoro umile. Ciò nondimeno, richiedeva una perizia e una manualità non comuni, tali da fare di lui un vero artista, un virtuoso del filo. Egli sapeva destreggiarsi con perizia affilando gli strumenti più diversi: dalle accette alle roncole (6), dai coltelli alle forbici, dai rasoi fino agli strumenti chirurgici. Sapeva inoltre aggiustare ombrelli e altri utensili di casa. Tuttavia, nelle contrade veneto-friulane, il moléta, anche se atteso e apprezzato par la sua abilità, non godeva di grande prestigio: il suo vestire dimesso, il suo nomadismo, il suo linguaggio spesso incomprensibile, lo rendevano un personaggio piuttosto anonimo. Non era infrequente, specie se era giovane, che venisse deriso e sbeffeggiato dalle ragazze del posto con espressioni, spesso allusive, del tipo: «El gue pui al mene, pui al frue (L’arrotino più mena, più consuma)», «Cjantial il cuc a Resie? (Canta il cuculo in Val Resia?)», «Al è malât el ucefuarfis – al à pore de murî – Al à impegnade la cariole – cun sperance di vuarî (è ammalato l’arrotino, ha paura di morire, ha impegnato la carriola con la speranza di guarire)» e «El gno morôs al’è di Resie – rosean; al’à mangjat i bêz de glesie e lis orelis al plevan (Il mio fidanzato è della Val Resia; ha mangiato i soldi della chiesa e le orecchie al parroco)», «Al fâs il gue, ce vustu cjalâ un gue (è un arrotino, cosa vuoi aspettarti da un arrotino)» (7). Ciò era alquanto umiliante (8).
In realtà, anche per il fatto di crearsi un giro stabile che lo portava a rivisitare periodicamente i medesimi paesi (fra colleghi vigeva un patto ferreo, da tutti osservato, di non invadere il territorio altrui), l’arrotino instaurava con la gente, che lo stimava e ne ammirava la bravura, un rapporto molto gioviale e confidenziale che lo rendeva simpatico e bene accetto.

Giunto sul luogo prestabilito, annunciava con voce stentorea il suo arrivo e dava inizio al percorso di raccolta porta a porta, tenendo scrupolosamente separati gli utensili consegnatigli dalle varie famiglie (a volte tale incombenza era affidata al figlio che lo accompagnava e veniva così iniziato alla professione). Ciò fatto, allestiva velocemente il suo laboratorio mobile in un luogo acconcio – un angolo di piazza, un cortile, uno spiazzo di via – e si metteva alacremente all’opera. Attorno a lui si raccoglieva presto un capannello di curiosi che si soffermavano ad ammirarne la destrezza, affascinati dal nugolo di scintille eruttate dal contatto fra lama e mola, magico impatto di corpi avulsi.
L’arrotino, attore solitario, si esibiva così nel suo muto monologo, rivelazione di un’arte corporea che diventava spettacolo di strada. Al giro dei prelievi seguiva, a fine giornata, quello delle riconsegne e degli incassi: pretese modeste, talvolta surrogate da un piatto di minestra o una fetta di polenta. Nel suo peregrinare contava, come del resto gli altri itineranti, sull’ospitalità delle famiglie, specialmente quelle contadine (dalle case dei contadini nessuno usciva a mani vuote), presso le quali pernottava: sul fienile d’estate e nella stalla d’inverno. Da tempo ormai questa eroica figura di artigiano ambulante, così come l’abbiamo conosciuta, è tramontata, fagocitata dall’incalzare della tecnologia. Resta comunque vivo il ricordo di questo caratteristico e nobile lavoro, vanto della civiltà artigiana (9), segno indelebile di laboriosità e sagacia.

Moléta sotto i portici in Piazza delle Erbe a Belluno.
Luisadema Rossi, Pinterest

Emigrazione nelle metropoli estere. Evoluzione e affermazione professionale
L’esperienza migratoria degli arrotini non si fermò appena fuori l’uscio di casa. Se le prime destinazioni erano per lo più indirizzate alle regioni limitrofe e all’allora Impero austro-ungarico, il loro ambito di lavoro si estese ben oltre, orientandosi verso le coste istriane e dalmate, la Mitteleuropa e persino Londra e gli Stati Uniti d’America.
I moléte che si avventurarono nelle metropoli europee e nord-americane come Londra, New York, Chicago, dovettero affrontare una realtà completamente nuova e complessa: da un paesino sperduto fra le montagne, si trovarono catapultati nella vita effervescente e caotica di città in fase di rapido e tumultuoso sviluppo. L’impatto non fu semplice, occorreva ambientarsi, imparare la lingua, costruirsi il cosiddetto giro, vale a dire contattare i potenziali utenti e instaurare con loro un rapporto di fidelizzazione che garantisse continuità al lavoro. È in questo contesto che i montanari emigranti dimostrarono spirito di adattamento e dettero prova, a margine della loro consolidata professionalità, di insospettate qualità organizzative e imprenditoriali che portò molti di essi a raggiungere elevati livelli di business.

Le vie delle città venivano percorse spingendo dapprima la vecchia slaifera, indi avvalendosi di un carretto attrezzato a traino animale (in genere un cavallo); infine, con l’avvento dei veicoli a motore, i moléte si dotarono di un vero e proprio laboratorio viaggiante. Molti, una volta avviato il lavoro, si facevano raggiugere dai figli più grandi, la qual cosa permetteva loro di ampliare il giro acquisendo nuovi clienti. Fra gli arrotini emigranti vigeva un codice di comportamento basato sulla lealtà reciproca e sulla mutua solidarietà. Gli arrotini furono molto attivi anche nel campo dell’innovazione: ne è tangibile dimostrazione l’adozione del cosiddetto rental service, un sistema di lavoro che si rivelò molto fruttuoso. Si trattava in sostanza di dotarsi di batterie di coltelli e darle in affitto all’utenza: con frequenza solitamente settimanale veniva fornita al cliente una serie di coltelli affilati, ritirando quella consegnata precedentemente da sottoporre a nuova arrotatura.

Tale servizio incontrò il favore della clientela e permise all’arrotino di togliersi dalla strada e operare in forma stabile presso il proprio laboratorio fisso; alcuni moléta comunque non abbandonarono completamente l’ambulantato e continuarono a lavorare usando entrambe le forme. Gli arrotini emigranti intuirono altresì l’opportunità di creare una forma di associazionismo volta a calmierare i prezzi, difendersi dalla concorrenza e stabilire di comune accordo le coordinate dei giri di ciascuno. Nacque così nel 1930 la New York Grinder Association, una sorta di corporazione di categoria. Nello statuto lo scopo dell’associazione è così espresso:

«di organizzare tutti coloro che esercitano il mestiere di arrotino nell’area metropolitana, onde avere migliori condizioni di lavoro e promuovere fra i medesimi arrotini l’affratellamento e il rispetto reciproco» (10).

Anni dopo, nel 1971, gli arrotini operanti a Londra ne seguirono l’esempio, istituendo, con finalità analoghe, la London Grinder Association (11).
L’umile arrotino che scendeva le valli con animo triste e rassegnato è riuscito, grazie alla sua tenacia, abnegazione e lungimiranza, a realizzare il proprio sogno di affermazione professionale innescando altresì una sorta di continuum dinastico con i figli che hanno deciso di proseguirne il cammino. All’atto di abdicare, dopo aver tanto lavorato, alcuni moléte, specie gli iniziatori, hanno voluto far ritorno alla terra natia, a naturale coronamento di una carriera densa di sacrifici, ma anche di soddisfazioni.

L’irresistibile richiamo della valle che li ha visti nascere, e cui spesso era rivolto il loro nostalgico pensiero, ha alla fine avuto il sopravvento. Non altrettanto per le generazioni a seguire che hanno scelto di continuare il lavoro dei padri, infittendo la folta schiera di emigranti italiani sparsi in tutto il mondo. Una presenza importante che affonda le proprie radici nell’humus del paese d’origine di cui sono stati e continuano a essere, per l’ingegno e la laboriosità che li contraddistingue, i migliori e più credibili ambasciatori.

NOTE
1 Longhino Antonio, Val Resia terra di arrotini, Circolo Culturale Resiano “Rosajanska Dolina”, Udine, 2014, p. 15 e segg.
2 Grassi Patrick, Sul filo dell’emigrazione, Centro Studi Judicaria, Tione (TN), 2015, p. 14.
3 Bernard Lois, La ruota dell’ultimo carro, Edizioni DBS, Rasai di Seren del Grappa (BL), 2019, pp. 297-304.
4 Grassi Patrick, Sul filo dell’emigrazione, cit., p. 26.
5 Longhino Antonio, Val Resia terra di arrotini, cit. p. 19.
6 Bernard Lois, La ruota dell’ultimo carro, cit., p. 36 e p. 53.
7 La traduzione, puramente letterale, è stata effettuata dall’autore del presente articolo avvalendosi del Vocabolario Friulano “Il Nuovo Pirona” e della collaborazione di un “madrelingua” friulano; va pertanto presa con cautela.
8 Longhino Antonio, Val Resia terra di arrotini, cit. p. 27.
9 Longhino Antonio, Val Resia terra di arrotini, cit. p. 31.
10 Grassi Patrick, Sul filo dell’emigrazione, cit., p. 36.
11 Grassi Patrick, Sul filo dell’emigrazione, cit., p. 26.


Il vescovo dei diritti umani

Un eroe bellunese. Assassinato il 26 aprile del 1998 in Guatemala. Si tratta di Juan José Gerardi Conedera, il vescovo dei diritti umani.

Discendente di una famiglia di Taibon giunta dall’altra parte dell’oceano nel 1879, mons. Juan Gerardi nacque il 27 dicembre 1922. Nel 1946 divenne sacerdote. La sua opera religiosa fu sempre mirata all’aiuto degli ultimi: i poveri, gli indios, la gente delle campagne. «Se il povero rimane fuori della nostra vita – sosteneva – allora forse anche Gesù è fuori della nostra vita».

Nel 1967 venne nominato vescovo di Verapaz e nel 1974 assunse l’incarico di reggente del Quichè, una regione all’epoca martoriata dalla guerra civile che per quasi quarant’anni, tra il 1960 e il 1996, devastò il Guatemala. Erano gli anni in cui centinaia di catechisti, dirigenti delle comunità cristiane e contadini, quasi tutti maya, venivano assassinati brutalmente.

Coordinò un vastissimo progetto di memoria raccogliendo migliaia di testimonianze su sistematiche violazioni da parte dell’esercito e dei gruppi paramilitari legati al regime.

Lo stesso Gerardi nel 1980 fu bersaglio di un attentato dal quale riuscì a salvarsi. Sempre in quell’anno, dopo che trentanove persone erano state bruciate vive nell’Ambasciata di Spagna perché manifestavano contro la violazione dei diritti umani nel Quiché, il vescovo denunciò pubblicamente la gerarchia militare. In risposta, gli fu impedito di rientrare in Guatemala fino al 1982.

Come fondatore dell’Ufficio per i Diritti umani dell’arcivescovado, coordinò un vastissimo progetto di memoria raccogliendo migliaia di testimonianze tra i civili – perlopiù indigeni – vittime di sistematiche violazioni da parte dell’esercito e dei gruppi paramilitari legati al regime nel corso del conflitto interno.

Dall’inchiesta, cominciata nel 1988, scaturì un rapporto in grado di documentare oltre 55 mila casi di violenze, torture, sparizioni, mutilazioni, massacri e stupri. “Nunca Más”, si intitolava, “Mai più”, e venne reso pubblico il 24 aprile 1998. Due giorni dopo, Juan José Gerardi Conedera, il vescovo della verità, venne fatto tacere per sempre, assassinato in maniera talmente barbara che il cadavere potè essere riconosciuto solo attraverso l’anello episcopale.

Tre degli esecutori materiali del delitto furono individuati. Il volto dei mandanti, invece, è ancora avvolto nelle nebbie di depistaggi e omertà istituzionale.

L’Eroina di Monongah

Nata a Domegge di Cadore il 21 novembre 1864, il suo nome è poco noto nel Bellunese. La ricordano con affetto, invece, negli Stati Uniti, in un piccolo villaggio del West Virginia di nome Monongah. Qui, il 6 dicembre del 1907 avvenne il più grave disastro minerario della storia americana, con 361 vittime ufficiali. Tra queste, 171 emigrati italiani.

Uno di loro era Vittorio Da Vià, marito di Catterina De Carlo, la vedova celebrata negli States per aver eretto la “collina dell’amore”.

Dopo la scomparsa del coniuge, per ventinove anni la quotidianità di Catterina fu scandita da un rito: ogni giorno percorreva oltre tre miglia di strada e si recava alla miniera teatro della tragedia, dove prelevava un sacco di carbone che poi svuota davanti alla propria abitazione. Diceva di farlo per «alleggerire il peso che lì sotto dovevano sostenere i suoi morti».

Rimasta sola a badare ai cinque figli, riuscì a garantir loro una vita più che dignitosa, battendosi al fianco delle altre donne affinché la causa del loro dolore non cadesse nell’oblio.

E così nel tempo, sacco dopo sacco, alleggerimento dopo alleggerimento, si formò la popolare collina, simbolo di amore e di denuncia per quanto accaduto il 6 dicembre. Pare che più volte i responsabili del sito minerario abbiano cercato di negarle l’accesso al luogo dell’incidente, arrivando ad accusarla di appropriazione indebita. Ma non fu solo questo a rendere Catterina l'”Eroina di Monongah”, come recita il monumento inaugurato in West Virginia nel 2007 (in occasione del centenario del disastro) e dedicato alle vedove e agli orfani di tutti i minatori.

Rimasta sola a badare ai cinque figli, riuscì a garantir loro una vita più che dignitosa, battendosi al fianco delle altre donne, vedove e madri, affinché la causa del loro dolore – la sciagura nelle gallerie 6 e 8 della Fairmont Coal Company – non cadesse nell’oblio.

La fiamma che animava la tenacia di Catterina si spense il 9 agosto del 1936, ma il suo ricordo continua ad ardere oltreoceano.

Per la sua instancabile opera e per il valore della sua testimonianza, nel 2012 l’Ugl (l’Unione Generale del Lavoro) le conferì una medaglia d’oro, in memoria di “Una meravigliosa e coraggiosa Donna italiana”, medaglia recapitata negli Stati Uniti al nipote James Davià, il cui cognome, pur trasformato in versione “americana”, rimanda ancora al luogo da cui questa storia ebbe inizio.