Archivio di Aprile, 2019

L’immigrazione in Argentina raccontata da Gastón Gori, scrittore di origini italiane.

Gaston GoriAvvocato e scrittore, Gastón Gori (pseudonimo di Pedro Marangoni) nasce a Esperanza (ex colonia di immigranti europei) nel 1915. È nipote di immigranti friulani che si stanziarono ad Esperanza negli anni ‘70 del XIX secolo. Gori, però, non è molto conosciuto al di fuori del contesto argentino. Eppure, è un elemento molto importante nello studio dell’immigrazione europea in Argentina. I suoi scritti spaziano da studi scientifici e storici a racconti fittizi, ma tutti a volti ad analizzare l’immigrazione in uno studio che tende alla ricerca della verità. Gori non ha vissuto direttamente il processo d’immigrazione, ma è legittimato a parlarne in quanto è cresciuto nella colonia di Esperanza, i nonni erano italiani ed è stato uno dei primi studiosi che ha deciso di documentarsi e studiare avanti poterne parlare. Inoltre, grazie agli studi da avvocato, per Gori è fattibile analizzare come la società oligarchica argentina abbia cercato di organizzare la colonizzazione europea nella pampa, l’immigrazione urbana (le due si dividono in immigrazione organizzata e spontanea) e la distribuzione della terra. L’oligarchia, per aiutare l’Argentina a crescere economicamente (come stabilito dalla Costituzione argentina firmata a Santa Fe nel 1853), offre le terre fertili agli europei che, spinti dalla necessità di sopravvivenza, prendono al volo l’occasione. L’immigrante è speranzoso di poter velocemente esercitare il ruolo di padrone del pezzo di terra assegnatoli, ma, molto spesso, inizia la sua avventura già indebitato: riceve animali, materiale, attrezzi, ma in cambio deve pagare con denaro o con un terzo della cosecha. Chi riesce a pagare il debito può diventare a sua volta proprietario del suo campo.  Un esempio di successo è la colonia di Esperanza, da Gori nominata come “madre de colonias” (Esperanza, madre de colonias, 1969), la prima ad aver ottenuto ottimi risultati; mentre un caso particolare che trionfa e di cui Gori racconta, è il personaggio fittizio di El desierto tiene dueño (1958), Ernesto Bourdin. Dalla Svizzera, con la famiglia si stabilisce nella pampa, precisamente nella colonia di San Carlos, fondata dall’imprenditore Charles Beck-Bernard. Inizialmente, lavorare la terra è un’operazione ostica: la pampa è deserta, infinita, piena di segreti, lavorarla è difficile e diventa metafora della difficoltà dell’immigrato europeo nell’adattarsi a questa nuova realtà L’umore di Bourdin peggiora con i fallimenti finchè riesce con la famiglia a pagare il debito e diventare padrone del suo campo.
La ricerca della fortuna spinge un numero spropositato di europei ad emigrare in Argentina con la speranza di poter lavorare le sue terre. Attorno al 1870 l’immigrazione diventa incontrollata e  i contadini non ricevono più contratti regolari. Questo favorisce abusi, sfruttamento, favoritismi, la nascita del latifondo e come conseguenza, l’impoverimento della psiche dell’immigrato costretto a volte a fare un lavoro pesante e monotono, sotto un padrone e senza nessuna prospettiva di miglioramento. Molti si trasferiscono nelle città per tentare una sorte migliore, ma nemmeno l’immigrazione urbana sfugge alle difficoltà. È probabilmente il caso dell’italiano Nicola di cui Gori parla in El ultimo reparto, racconto pubblicato in El camino de las nutrias. Otros cuentos del 1955. Nicola per 20 anni ad Esperanza lavora e trasporta il ghiaccio durante l’estate. Vive in una stanza di legno, con odore nauseante e sporca, ma che non può modificare perché proprietà del padrone. A causa delle condizioni poco favorevoli e del calore torrido, Nicola ha un volto invecchiato dal lavoro ed è stremato. Nella sua ultima giornata, gli appare la visione di una donna che lo accompagna fino alla sua stanza dove muore. Forse l’ultima e unica possibilità di riscattare la propria dignità, consumato dalla stanchezza fisica e psicologica e dalla consapevolezza di non essere padrone nemmeno di sé stesso.
Sempre  nella stessa raccolta, si può leggere la storia di Nacho: panettiere in Italia e poi ad Esperanza, a Santa Fe e a Cavour. Questo italiano ha un carattere turbolento: è schiavo dell’alcol e, gelosissimo della moglie, la abbandona quando resta incinta. A Cavour è ben noto per il suo naso e per essere un ubriacone. Tutti lo conoscono, ma al momento della sua morte tutti ne spettegolano rivelando falsa solidarietà e malignità. Muore da solo in condizione pietose.
Antonini invece (La muerte de Antonini, 1956) migliora la sua condizione economica. Il padre con l’amico emigrano dal Veneto per stabilirsi in una città del litorale ricca di cosechas, trigos e maíz. Alternano il lavoro de jornalero con quello della trilla. Sono jornaleros agrícolas nella pampa, ma marginali senza terra. Alla morte della moglie e dei fratelli a causa del vaiolo, il papà torna in Italia lasciando Antonini alla famiglia dell’amico il cui figlio Dalmacio racconta le vicende del “fratello” durante il funerale di quest’ultimo. È l’unico che dimostra un po’ di pietà per Antonini. Il piccolo cresce in silenzio, ma la sua indole avara e tirchia si accentua sempre di più. Imbroglia, racconta menzogne e manipola le persone per accaparrarsi le proprietà altrui. Diventa proprietario di alcuni appartamenti che affitta, ma tratta con egoismo gli inquilini, in quanto li vede come causa di una sua possibile rovina economica. Sposa la figlia di un proprietario di terre, la umilia e la controlla. Incapace di far fronte ai cambiamenti economici e politici a causa della sua indole avara, Antonini muore solo e odiato da tutti. Se da un lato, Antonini si è arricchito economicamente, dall’altro si è ridotto a fare lo stesso gioco dell’oligarchia e si è corrotto moralmente.  Si potrebbe pensare che Dalmacio e Antonini siano le due facce della stessa medaglia: il primo onesto, il secondo corrotto. Forse Antonini rapresenta quella parte di immigrati che, nel tentativo di rivendicare un’ascesa sociale, perde la propria integrità morale.  La sua morte è fisica, ma simboleggia anche la perdita dell’onestà sociale. La sua condizione ricorda il giudizio negativo sviluppatosi dal governo argentino quando il numero di immigrati stava diventando troppo elevato e venivano incolpati di corrompere la società argentina. Ma, si sa, non tutti gli immigrati sono stati mala gente, anche se non tutti sono stati brava gente. Nicola e Dalmacio sembrano essere l’esempio di immigrato onesto e semplice. Nacho e Antonini, invece, sono la parte negativa della società: il primo corrotto dall’alcool, il secondo corrotto dal denaro.

 

 

Dall’Italia al Brasile: fotografie che raccontano storie

Aletheia_Santa_Catarina_07Sono state recentemente caricate delle foto dei nostri emigranti bellunesi e veneti che hanno scelto il Brasile come paese di destinazione e di speranza. Immagini che ritraggono i nostri conterranei tra l’800 e il ‘900: delle vere e proprie testimonianze che raccontano storie, tutte diverse fra loro, ma per questo uniche e fondamentali per conoscere la nostra storia come emigrati, ma anche come immigrati.
In questo viaggio fatto di fonti visive, si ripercorrerà in qualche modo alcune fasi di questo grande fenomeno e di come il Brasile si è trasformato in questo arco di tempo grazie ai lavori degli immigrati italiani, soprattutto bellunesi.  Un percorso nel quale si conosceranno varie famiglie stanziate in diverse zone del paese oltreoceano (nel Rio Grande Do Sul, a Caxais Do Sul, a Bahia ecc) alcune delle quali con nomi che rimandano all’Italia (Nova Trento, Nova Vicenza, Nova Belluno chiamata anche Siderópolis, Nova Bassano, Nova Venezia). Tra le tante persone fotografate, troveremo Angela Pellin e Antonio Bigolin ritratti con le loro rispettive famiglie; Vittoria Santa Bortoluzzi con i figli Franco e Nerina in una foto destinata al passaporto nel 1949; Giovanni Budel con la moglie; Giovanni Menegaz e Amalia Zanolla; numerose foto di Italo Pierobon a Macapà negli anni ’60 e a Mato Grosso Do Sul; Martino Da Rin Zanco a Bahia; Matteo De Bona Sartor e Maria Feltrin Cesconetto ad Urussanga nello stato di Santa Catarina; la famiglia di Vincenzo De Prà a Vitória nel 1931; foto di sacerdoti e missionari e un’immagine della famiglia Bof in una tipica casa bellunese a Caxais Do Sul nel 1904, fonte che fa capire quanto i nostri connazionali avessero cercato di mantenere le proprie tradizioni e quanto queste ultime abbiano influenzato paesi così lontani. Viene anche ricordata (non citarla è impossibile) l’importantissima figura di Anna Rech di Pedavena che da sola nel 1876 decise di lasciare il nostro territorio e di trasferirsi in Brasile con i suoi 7 figli. Anna, nonostante fosse analfabeta, grazie alla sua determinazione e intelligenza, diede piano piano origine ad una cittadina che oggi porta proprio il suo nome.
Le fotografie non servono solo a testimoniare i fatti storici: si invita ad osservare gli sguardi e ricordare che dietro alla figura del migrante, dietro agli studi storici, dietro alle date e ai numeri, si nascondono essere umani pieni di sentimenti, di sofferenze, di dolore, di nostalgia, ma anche di tanta soddisfazione per coloro che riuscirono a far fortuna in un altro paese. Perché migrare non è mai facile, specialmente per coloro che partirono per il Brasile, viaggio di tanti dubbi e incertezze, con la consapevolezza che forse non si sarebbe più ripresentata la possibilità di ritornare alla propria terra d’origine.
Alcune foto sono, però, più recenti e rappresentano raduni di discendenti di famiglie bellunesi o venete come la famiglia Sebben a Garibaldi nel 2000, o la famiglia Tormen a Caxais Do Sul nel 2013.
Insomma, un viaggio tra ieri e oggi: tra coloro nati nel territorio bellunese e che sono emigrati e i loro discendenti che a distanza di anni non hanno dimenticato le loro radici e mantengono un legame profondo con la patria natia dei loro nonni o bisnonni. In entrambi i casi si intuisce che preservare le proprie origini diventa necessario e fondamentale per non dimenticare chi siamo.

Le storie di Mario: la testimonianza di un bellunese a Buenos Aires

storie_di_marioLe storie di Mario

Mario Giacchetti nasce a Belluno nel 1925. Durante il conflitto mondiale partecipa alla Resistenza e nell’immediato dopo guerra la situazione è difficile per tutti. Lo stipendio del papà (anche se vicedirettore della Banca Cattolica) non è sufficiente per mantenere la famiglia numerosa. Mario, fratello maschio maggiore, decide di compiere un atto importante e difficile per dare una svolta alla vita dei suoi cari e alla sua: emigrare in Argentina. Mario è un combattente e lotta per riscattare la propria esistenza. E scrive lettere alla famiglia e racconti come testimonianze dirette. Perchè scrivere risulta importante per mantenere la memoria di ciò che si è e del nostro vissuto per evitare che si offuschi. Probabilmente per evitare che ciò accada, nel 2014 i figli di Mario decidono di commemorare il padre raccogliendo le sue testimonianze e le sue storie in un unico libro, Le storie di Mario. La sezione dedicata all’Argentina è breve per un’esperienza così grande durata all’incirca 7 anni. Dalla lettura e dalla scelta delle parole utilizzate, si può dedurre che Mario avesse un certa cultura e che essa avesse un certo peso nella sua vita. Purtroppo, nel dopoguerra essere colti conta poco: l’importante è mangiare e nonostante Mario abbia un diploma di perito edile, rinascere dopo il conflitto mondiale a Belluno (realtà ancora abbastanza “primitiva” rispetto ad altre città) è molto difficile. Lui stesso scrive “le prospettive, nell’immediato dopo guerra, di trovare lavoro erano quanto mai scarse e così (…) mi candidai all’emigrazione organizzata per l’Argentina” e ammette di accettare con una certa tranquillità di partire con un contratto da muratore. Dev’essere stata una scelta difficile, ma indispensabile: nessuno emigrerebbe dall’altra parte dell’oceano da solo e senza nessuna garanzia se non per disperazione. Nel momento della separazione dalla famiglia, Mario sa benissimo che quei saluti dati tempi e le circostanze, potevano benissimo essere gli ultimi. Può essere un arrivederci o un addio. Questa incertezza rende il viaggio e la partenza un po’ “per sempre”.
A Genova lo aspetta il piroscafo Tucumán organizzato per i migranti e Mario non può non notare “(…) l’amarezza e l’umiliazione della bonifica di massa. Due alla volta nelle cabine doccia dei bagni pubblici, simili ad una nera ferriera fumante”; anche la visita medica crea un certo imbarazzo, “tutti nudi come vermi”. Le sue parole trasmettono l’idea e la sensazione che i migranti siano merce di scambio o oggetti e non persone: “la Commissione argentina fece certo il suo lavoro, ma la dignità ed il pudore di molti non parvero interessarla per nulla”. Il viaggio dura 17 giorni, confinati in spazi ristrettissimi: nonostante l’oceano e il piroscafo siano una novità che regalano anche uno spettacolo indimenticabile del tramonto e del gioco dei delfini, per Mario è una traversata solitaria e si ritrova a far fronte anche al mal di mare e al movimento del piroscafo che fa uscire la minestra dai piatti. Inoltre, “un odore nauseabondo di cucina misto alla puzza di nafta, bloccava il respiro e lo stomaco (…)”. La preghiera, perciò, diventa una necessità per sconfiggere la nostalgia grazie alla presenza di un sacerdote o durante la notte da solo in coperta. Anche le foto nel taccuino dei familiari aiutano. D’altra parte bisogna aggrapparsi a qualcosa per sopravvivere. Di notte, “la luna avvolgeva quel misero punto luminescente qual era il bastimento in viaggio col suo carico d’umanità”.
All’arrivo a Buenos Aires lo sconvolgono i violenti riflessi del Rio de la Plata. Un gruppo di scout lo aiuta e gli offre un alloggio temporaneo. Nella prima visita alla città, lo scontro con una metropoli è inevitabile: “le auto silenziose e grandi, le strade lisce e scure pavimentate, e lo seppi dopo, i negozi con tante merci, mi fecero pensare all’inizio di un qualcosa inconsueto ed interessante”. Nella periferia di Buenos Aires, Villa Urquiza, entra con i suoi compagni in un cantiere appena messo in moto. La speranza di un buon inizio sfuma immediatamente: “l’alloggio fu traumatizzante. Capannoni di trecento persone di lamiera ondulata. Enormi, con sole porte. Di giorno, sotto il sole, diventavano dei forni. Letti, come il solito, a castello, ma il ferro arrugginito, con reti metalliche sfondate e con dei materassi che, poco dopo, furono bruciati perchè invasi da cimici”. Un luogo così ristretto e la precarietà dell’igiene favoriscono la dissenteria. La polizia gira di notte svegliando con la torcia chi dorme. Ma questo non è nulla in confronto alla nostalgia, il nemico numero uno da combattere. Mario ritorna a buttarsi nella preghiera, in Dio e nella conoscenza di nuove persone, nonostante rifiuti alcune occasioni di amicizia in quanto “(…) fare delle amicizie significava frapporre ostacoli al mio ritorno in Patria”. Un punto di riferimento sono i religiosi dell’Opera Cardinal Ferrari, ma per raggiungerla Mario, non abituato, deve imparare ad un usare il tram. Le prime lettere della famiglia arrivano per smussare un po’ la nostalgia. Eliseo, un cugino del papà, e Fernando e Fosca lo invitano nelle loro rispettive case. Anche nel lavoro la situazione non parte bene: Mario comincia come muratore, ma vuole che il suo diploma valga qualcosa anche in Argentina. Per questo fa prevalere il suo coraggio e la sua determinazione: riesce ad entrare nella Direzione Lavori per poi lavorare più autonomamente. In più, ottiene la possibilità di affittare un stanza appena fuori dal cantiere e, benché non offra i servizi di una vera casa, Mario ha finalmente un letto degno di essere chiamato tale. Inoltre, inizia a studiare spagnolo, lingua che imparerà benissimo. Pian piano, accresce le sue conoscenze: Mario incontra per caso Jorge Frumento con il quale instaura un fortissimo legame che rimarrà saldo anche a distanza di anni. Così, Mario esce dalla routine lavoro-casa: innanzitutto, Jorge lo sposta in un’altra mensa più pulita (“ricordo ancora il piatto di tagliatelle servitomi per la prima volta….Buono!”) e lo fa entrare nella sua cerchia di conoscenze. Jorge è il primo amico con il quale Mario si sente libero di esternare i propri stati d’animo in un paese dove è solo: ” L’america io non la farò, ma se è vero, com’è vero, che chi trova un amico trova un tesoro, il tesoro io l’ho trovato e «l’America» l’ho fatta”. Sebbene i familiari e gli amici di Jorge non conoscano tutti bene l’italiano, Mario scrive: “è evidente che, quando c’è sintonia di sentimenti, gli ostacoli sono superati e ci si intende perfettamente”. Grazie a Jorge, Mario conosce Lucia la futura moglie, nata in Argentina, ma di origine italiana, con la quale successivamente tornerà in Italia dove vivranno tutta la vita.

Nelle pagine seguenti, Mario racconta singoli episodi della sua avventura in Argentina, ma ugualmente importanti se sono stati trascritti. Un racconto toccante e pieno di significato si intitola Chi era? scritto nel 1950. In un viaggio in autobus, Mario si trova incastrato vicino a un uomo piuttosto basso. Di lui non può non notare la sua sporcizia, la sua puzza che provoca in lui ribrezzo tanto da non osare sfiorarlo e la sua condizione quasi gli fa vergogna. Una volta sceso, una voce dentro di Mario smuove il suo animo: “ti è passato accanto e non l’hai riconosciuto (…) perchè hai visto solo il berretto, solo il fazzoletto, solo il suo sudiciume? E lui, Lui, non lo hai visto? Non lo hai notato Lui pure ha un mondo (…) Che cumulo di crucci aveva forse in lui. Quali idee geniali, forse, potrebbero scaturire da quella testa (…) Perchè non l’hai conosciuto? Anche tu hai tante cose nell’animo. Tu le conosci le tue. Le sue no. Sai solo che non era pulito; ma non era che un fratello; forse russo dagli occhi, dai capelli; forse indio dalla pelle; ma tuo fratello era, Mario. Un tuo fratello”. Mario non spiega il significato di questa breve lettura… si può, però, intuire che delle volte il nostro arricchimento e la nostra ascesa sociale possono portare alla discesa della nostra umanità. D’altra parte lui stesso a Belluno era povero, quindi perchè umiliare un altro essere umano? Diventa necessario difendere la nostra umanità e umiltà. Mario sembra, perciò, fare dentro di sé un lavoro per non lasciare che queste due qualità vengano corrotte.

In un’intervista, la figlia Maria racconta che le cose in Argentina, dal punto di vista lavorativo, non andarono esattamente come il papà sperava e per questo decise di ritornare in Italia. Per tutta la vita, Mario ha sempre pensato alla sua amata Argentina, per lui la terra dell’affetto e delle amicizie. Come lui stesso ha affermato, Mario “l’America l’ha fatta”, ma dentro di sé grazie agli intrecci di relazioni con le persone che lì ha conosciuto, alle amicizie, all’amore per la cultura di questa terra che l’ha ospitato, passione che ha anche trasmesso ai figli. Quindi, perchè non scrivere un’avventura così importante e indelebile? Le memorie iniziali riguardo l’arrivo in Argentina sono state messe per iscritto 53 anni dopo (circa nel 2001), mentre gli altri racconti sono datati 1950. Si ritorna, perciò, al discorso già accennato al principio di quest’articolo: la scrittura diventa necessaria per mantenere la memoria principalmente per noi stessi. Tantissimi sono coloro che dopo una vicenda negativa o positiva hanno sentito il bisogno di mettere per iscritto i sentimenti, le emozioni, i fatti. Per non dimenticare e forse per riordinare i ricordi, renderli tangibili sulla carta e vederli concreti. Perchè sono leggeri e basta poco per farli volare via. Mario inizia i suoi racconti sull’Argentina così: “Ripensare, vincendo varie titubanze, avvenimenti di tanti anni prima, è un riviverli, un rituffarsi in quello che è stato e non si ripeterà. Ma sono fatti, circostanze, stati d’animo, emozioni che segnano in profondità la mente ed il cuore, in modo indelebile, di chi li ha vissuti”. È un inizio che fa anche capire il forte legame con questo paese oltre oceano. A Mario, perciò, la scrittura sembra necessaria: “penso di voler limitare queste note solo a me stesso, giacchè desidero e posso considerare un tratto di vita che m’appartiene e mi vede protagonista, molto spesso solo ed isolato. L’obiettività e la rigorosa esposizione non so fino a che punto possano essere ben aderenti alla realtà ed equilibrate. A distanza di 53 anni e più anni esiste il rischio d’aver deformato, inconsciamente, il ricordo del passato e d’averlo interiorizzato lasciando emergere qualcosa più di altro. Perchè lo faccio? Non lo so. L’ordinare i ricordi di un certo periodo vissuto a volte con rabbia, altre pervaso di misticismo o incertezze, mi sollecita, quasi a fare un bilancio d’una partita di cassa”.
Ovviamente i ricordi, purtroppo, diventano meno nitidi con il passare del tempo: molte cose, i fratelli Giacchetti, tra cui le date precise le hanno dimenticate. La figlia Maria, infatti, lamenta di non aver scritto i racconti di genitori e nonni: se l’avesse fatto non sarebbero svaniti. Per lo meno restano questi ricordi del papà. E forse per evitare di dimenticare anche questi, i fratelli Giacchetti hanno sentito la necessità di raccogliere gli scritti del padre in un libro per vederli tangibili. È un modo per rivivere la memoria del papà in ogni pagina ed in ogni parola, tutto scritto di suo pugno. E non a caso nella prima pagina, riportano una citazione come dedica “è il ricordo che costituisce l’essere umano… e le parole sono le tracce che lasciamo dietro di noi” (Susanna Tamaro).

Giulia Francescon

La storia di Mario Giacchetti tra Italia e Argentina. Un’intervista alla figlia Maria

matrimonio mario e lucia

Matrimonio di Mario Ghacchetti e Lucia

Maria Giacchetti nasce a Belluno nel 1956. Le sue origini, però, si mescolano tra italiane a argentine. Il papà Mario, infatti, ancora molto giovane, spinto dalla necessità di dare una svolta di fortuna alla sua vita, decide di partire per Buenos Aires dove incontrerà e poi sposerà una donna argentina, Lucia, nata da padre argentino e madre italiana.  Nell’intervista, Maria ci racconterà dei suoi genitori, delle storie sull’Argentina che essi le raccontavano e di quanto questo paese sia diventato parte di lei entrandole nel cuore. Ad oggi, Maria sente di appartenere a due nazionalità e a due paesi che, simili e differenti, si intrecciano fra di loro. Il legame speciale con l’Argentina si intensificherà tanto da sentire di dover soddisfare un bisogno ed una necessità di visitare i suoi luoghi e conoscere le sue persone. L’Argentina è entrata a fa parte di lei in modo totalmente naturale.

 

Mi racconti chi della tua famiglia è andato via? E dove?
Il primo della famiglia a lasciare il Paese è stato mio padre Mario, all’epoca poco più che ventenne e appena diplomato presso un Istituto Tecnico Superiore nel campo dell’Edilizia. Nell’immediato dopoguerra Mario, primo di cinque fratelli, spinto dalla necessità di trovare lavoro decise di emigrare in Argentina.

 

È stato l’unico a partire della famiglia?
No, in un secondo momento Carlo, il fratello di mio padre, lo ha raggiunto rimanendo in argentina per un periodo limitato. Mario invece, oltre a rimanervi circa 7 anni, ha conosciuto e poi sposato mia madre Lucia.

 

Inizialmente è partito solo lui perché era il fratello maschio più vecchio e doveva sostentare la famiglia? È stato l’unico motivo?
Mario ha lasciato il paese tra il 1950 e il 1952 lasciandosi alle spalle la guerra e la liberazione ma le motivazioni che lo hanno spinto non ci sono mai state riferite esplicitamente. Penso che oltre alla necessità di trovare un lavoro, nel difficile periodo del dopoguerra, ci fosse il desiderio di partecipare al sostentamento della famiglia. Infatti, nonostante il buon impiego di mio nonno Francesco come vicedirettore di banca, mantenere una famiglia così numerosa all’epoca era molto faticoso.

 

Il lavoro che ha svolto in Argentina lo aveva trovato cercando informazioni da Belluno?
Si, erano dei viaggi pianificati: venivano organizzati i piroscafi per i lavoratori italiani. All’epoca infatti, l’Argentina sotto il Governo Perón era una nazione florida e gli italiani venivano immediatamente impiegati dopo l’arrivo. Mio padre era perito edile, ma per iniziare è stato assunto come muratore. Distinguendosi poi per intraprendenza e preparazione è riuscito ad ottenere una posizione adeguata a quanto studiato.

 

Mi racconti del viaggio e dell’arrivo a Buenos Aires?
L’attraversata in piroscafo, della durata di circa 20 giorni, partiva dal porto di Genova e aveva un costo sicuramente molto elevato da affrontare per quell’epoca. Il piroscafo era purtroppo anche l’unico mezzo per coprire tragitti così elevati, rendendo difficile anche tornare in visita alle famiglie durante gli anni lontani da casa. Mario era molto religioso e appena arrivato in Argentina ha cercato conforto per la lontananza da casa presso una comunità di salesiani già frequentata da molti operai suoi compatrioti. Mio padre ci raccontava che la prima cosa che ha fatto appena raggiunto il paese d’oltremare è stato cercare una chiesa per recarsi a messa. Nel suo diario scrive che la fede e il rigore gli sono stati sempre di grande sostegno durante gli anni lontano da casa.

 

Sapeva già lo spagnolo quando è arrivato?
No, è partito senza conoscere la lingua. Tuttavia, negli anni è riuscito ad apprenderla in maniera egregia, infatti a volte dimostrava proprietà di lessico e linguaggio più spiccate di mia madre madrelingua Argentina.

 

Durante gli anni da Lavoratore Emigrato, Mario si è sempre sentito trattato bene o ha anche subito discriminazioni?
Gli italiani erano considerati sporchi, fannulloni e incapaci dalla popolazione argentina. Venivano esclusi, discriminati, sfruttati e alloggiati in baracche di lamiera torride e sovraffollate.
All’inizio per Mario non deve essere stato facile: appena arrivato non conosceva la lingua e non aveva amici. Fortunatamente grazie alla comunità religiosa che Mario ha iniziato a frequentare poco dopo il suo arrivo è riuscito ad integrarsi creando una rete di conoscenze nella quale ha incontrato Jorge, il suo più grande amico e Lucia, la sua futura sposa. Con il tempo, Mario è riuscito anche a migliorare la sua condizione di lavoratore, da muratore a capocantiere spostandosi a vivere nel centro di Buenos Aires.

 

Mi racconti di come ha conosciuto tua mamma?
Mio padre ha conosciuto Lucia, nata e cresciuta a Buenos Aires in una famiglia Italo-Argentina, ad una festa tramite il suo migliore amico Jorge. Nonostante i tentativi di osteggiamento del matrimonio da parte della famiglia di mia madre, dovuti alla possibilità di un rientro in Italia di Mario, nel 1952 i miei genitori si sposano e come meta del viaggio di nozze scelgono l’Italia.  Dopo essere rientrati in Argentina e aver messo al mondo Claudio, il primo dei miei cinque fratelli, hanno deciso di lasciare definitivamente il paese d’oltremare alla volta delle terre natie di Mario.

 

I tuoi nonni materni di che parte d’Italia erano?
La nonna originaria di Cavasso nel Friuli si è trasferita durante la guerra a Milano dove ha conosciuto mio nonno, meneghino di origini argentine. Dopo essersi sposati, sono partiti alla volta di Buenos Aires dove, una volta stabiliti, hanno avuto mia madre Lucia. Con il tempo, prima la sorella della nonna, Olga, sposata per procura con un calabrese emigrato, e poi il fratello con la moglie si sono trasferiti a Buenos Aires.

 

Con il trascorrere degli anni come si è evoluto il rapporto con il paese in cui tuo padre è emigrato?
Mario ha sempre avuto un rapporto speciale con l’Argentina, vuoi per gli affetti lasciati una volta rientrato in terra natia che per l’accoglienza e la solarità delle persone della comunità in cui si era stabilito. Il desiderio di tornare in visita in Argentina è rimasto sempre vivo e per mio padre la cultura e le usanze argentine sono sempre state di grande interesse.

 

Come mai Mario ha deciso di rientrare in Italia?
Nonostante la buona integrazione nella comunità, mio padre non era riuscito a portare a termine il suo progetto lavorativo e per questo nel 1954 ritorna definitivamente in Italia.

 

Com’è stato per i tuoi genitori, così legati all’Argentina, rientrare in Italia?
La nostalgia per l’Argentina è sempre stata molto presente. Infatti, mio padre, ma soprattutto mia madre hanno sempre manifestato il dolore per il distacco e la sensazione di lontananza, vuoi per gli usi e costumi che per gli affetti lasciati con il ritorno in Italia. Il primo periodo una volta trasferiti definitivamente in Italia, per mia madre è stato particolarmente duro: la realità cittadina, le abitudini erano completamente diverse e il clima non aiutava di certo. Lucia veniva considerata da tutti la “Straniera”, la “Foresta” e complice il suo temperamento molto timido non era riuscita a coltivare delle amicizie al di fuori dei rapporti familiari. La famiglia di Mario aveva accolto Lucia con un immenso amore e le è stata sempre di sostegno. Nonostante questo, mia madre ha sempre vissuto un’intera via sospirando per la nostalgia della sua patria.

 

E per voi figli com’è stato avere i genitori così profondamente legati ad un paese lontano?
Credo che questo legame così profondo sia stato trasmesso anche a noi fratelli. Infatti, alcuni di noi negli anni sono stati a vistare i luoghi dove è cresciuta la mamma e dove i nostri genitori si sono conosciuti. Io a 28 anni sono stata per circa un mese perché sentivo crescere in me il desidero di vedere personalmente i luoghi della giovinezza di mia madre. Quando ho deciso di intraprendere questo viaggio dentro di me sentivo proprio un bisogno, una nostalgia.

 

Voi figli avete imparato lo spagnolo?
Purtroppo, no. Qui a Belluno, a casa dei genitori di mio padre, si parlava il dialetto e Lucia, con la sua indole timida, ha preferito adeguarsi e parlare questa lingua. Utilizzava la lingua spagnola solo per parlare con Mario e con noi figli. Io lo spagnolo lo comprendo discretamente proprio per questo motivo, ma non lo parlo e non lo scrivo e me ne dispiaccio molto.

 

E i nonni in Argentina come si rivolgevano a tua mamma?
I genitori di mia mamma parlavano solo in spagnolo ed anche le lettere e successivamente le telefonate erano in spagnolo. In più noi fratelli ricevevamo spesso dei libretti scritti in spagnolo spediti dalla nonna argentina. Abbiamo sempre avuto questa lingua vicino che poi è diventata la lingua del cuore e dell’affetto.

 

In che modo i vostri genitori hanno contribuito a creare questo legame con l’Argentina?
Mia mamma ci raccontava molto della sua vita in Argentina. L’Argentina veniva descritta come un bellissimo paese e quando ci sono andata è stata, per me, un’esperienza meravigliosa: ho ancora oggi il ricordo del colore del cielo e il profumo dell’aria.

Per questo paese, ho sempre avuto un grande legame affettivo.

 

È interessante questo legame che descrivi. Certi posti li senti parte di te anche senza spiegartene il motivo. Anche a me è successo quando sono andata in Argentina. Io non ho particolari legami familiari con argentini, però ho sofferto molto quando l’ho lasciata. È stata la prima esperienza nella quale ho dato più valore alle cose positive che a quelle negative e queste ultime ho saputo apprezzarle ed ero in qualche modo contenta che fossero successe. Credo sia l’unico posto al quale non riesco a staccarmi.
Certo, lo capisco. Penso sia anche per le relazioni che hai instaurato con le persone lì. Qui siamo più isolati rispetto a loro e penso che il clima detti molto sull’aspetto comunicativo delle persone. La gente di montagna è generosa e affidabile, ma non ha lo stesso carattere degli argentini. Ad esempio, mia cugina è tornata in Italia dopo 30 anni che non la vedevo, ma era come se l’avessi lasciata il giorno prima.

 

Vuoi raccontarmi qualcosa anche dei tuoi parenti in Perù?

Erano due fratelli del nonno che sono partiti dal Cadore, prima della guerra. Hanno fatto fortuna e si sono stabiliti a Lima dove vivono tutt’ora le loro rispettive famiglie. I loro figli sono venuti in Europa in più occasioni. Nei loro viaggi sono sempre venuti a Belluno a trovare mio padre e assieme si sono recati in Cadore in visita ai cugini.

 

Giulia Francescon