Archivio di Marzo, 2022

Vita nei boschi

Provengo da una famiglia di mezzadri, originaria di Combai, in provincia di Treviso. A Combai rimanemmo fin quando avevo quindici anni. Poi, avendo dei parenti nel bellunese, a Farra di Mel, ci trasferimmo a Casteldardo. Eravamo una famiglia molto numerosa. Io sono il settimo di undici fratelli, ed ero sempre quello che rimaneva a casa, mentre gli altri andavano all’estero.

A vent’anni, quindi, decisi di andare via anch’io, perché chi rimaneva doveva lavorare sempre, anche la domenica. Nell’aprile del ‘62 feci i bagagli. Avevo la valigia di un fratello già emigrato in Australia. Era tornato dopo tre anni, si era sposato e di lì a qualche giorno sarebbe dovuto ripartire. Tutto era pronto, ma ebbe un incidente. Allora presi io la sua valigia. Partii da Trichiana. Non sapevo niente. Sapevo solo di avere un fratello più vecchio a Saarbrücken, in Germania, che mi aspettava alla stazione.

Eravamo in otto, in un sottotetto dove si entrava a malapena. Ci consegnò un sacco di juta, ci indicò dove era situato il fienile e così dormimmo in questa soffitta.

Durante il viaggio, per tutta la notte non chiusi occhio. Non sapevo qual era la mia stazione, dove potevo arrivare, comunque nella carrozza cercai di farmi capire e mi avvisarono al momento che dovetti scendere. Mio fratello, con la vespa, mi portò dal padrone nella segheria dove lavorava, a Dudweiler, e mi presentò. Il padrone ci mandò in una specie di dormitorio in cui alloggiavano altri italiani. Eravamo in otto, in un sottotetto dove si entrava a malapena. Ci consegnò un sacco di juta, ci indicò dove era situato il fienile e così dormimmo in questa soffitta.

Il primo periodo lo passai in segheria. Poi ci misero su una sorta di baracca mobile, su quattro ruote, che all’interno aveva l’attrezzatura da lavoro. Il lavoro consisteva nell’addentrarsi nei boschi della Foresta Nera a sbucciare i tronchi col coltello. Eravamo pagati a cottimo. Ci portavano all’interno delle foreste, a cinque o sei chilometri dal paese, ci preparavano la legna lungo la strada e noi dovevamo asportare la corteccia e riaccatastare i tronchi. Si guadagnavano quattro marchi al metro cubo.

Le foreste sembravano senza fine, ma di acqua nemmeno l’ombra. Ce la portavano con i camion quando venivano a caricare la legna. Tre o quattro taniche, che dovevano bastare per tutto.

Appena svegli al mattino si iniziava a lavorare e si andava avanti fin che le forze ci sostenevano. I più vecchi erano più furbi e individuavano subito la catasta dove sarebbero riusciti a fare più lavoro. In questa situazione, il principale problema era rappresentato dalla mancanza d’acqua. Le foreste sembravano senza fine, ma di acqua nemmeno l’ombra. Ce la portavano con i camion quando venivano a caricare la legna. Tre o quattro taniche, che dovevano bastare per tutto. In sostanza, non si poteva quasi mai lavarsi e d’estate era davvero un grosso problema. Le dita dei piedi mi sanguinavano a causa del sudore e della polvere. Anche bere era difficile. Ci portavano la birra e la grappa, altra seccatura.

Non scorderò mai il mal di denti che fui costretto a soffrire in Germania. Per cercare di dormire alla sera l’unica soluzione era mettere dei grani di sale grosso tra un dente e l’altro e così riuscivo a riposare un po’. Talvolta i camion con l’acqua non arrivavano, e ci capitò di rimanere senza una goccia anche per tre giorni interi. Feci questa vita per due anni, tra il ‘62 e il ‘63. Dal punto di vista economico ne valeva la pena, mandavo a casa un bel gruzzolo di soldi, ma il lavoro era estremamente duro. Si lavorava fino a Natale, poi si faceva una pausa di un paio di mesi e si ricominciava da capo.

Camillo Moro

Camillo Moro al lavoro nella foresta

A far la balia

Mia nonna si chiamava Maria Corso. Era nata nel 1882 a Seren del Grappa. Dopo essersi sposata, quando nel 1902 ebbe il secondo figlio, tramite un baliatico di Feltre andò balia da latte a Milano. Vi rimase un anno, poi tornò a casa e nel 1904 ebbe un’altra bambina, così partì di nuovo balia da latte, questa volta a Trento, in casa Marangoni.

Nel 1906, con il marito (mio nonno), si trasferì in America e vi rimase per tanto tempo. Lì ebbe altri due figli. In America mio nonno lavorava nelle ferrovie e mia nonna aveva una cantina, una sorta di trattoria, e cucinava per gli operai.

Nel 1912 tornò in Italia ed ebbe un altro figlio, mio papà. Andò nuovamente balia da latte – sempre tramite il baliatico di Feltre – a Milano, in casa Brambilla. Rimase nel capoluogo lombardo un anno, dopodiché tornò per un po’ a Seren e poi mio nonno volle tornare in America, dove rimasero fino al 1918, riprendendo i loro vecchi lavori.

Quando rientrò, purtroppo rimase vedova. Ecco allora che riprese la via della balia, non più da latte, ma balia asciutta. Prestò servizio in diverse case di Milano. Andando di quando in quando al parco, conobbe mia mamma, che faceva la tata in una famiglia (anche mia mamma cominciò molto giovane ad andare a lavorare e la sua passione era quella dei bambini). Tramite mia nonna, mia mamma e mio papà si incontrarono e in seguito si sposarono.

Mia mamma, quindi, non potè più andare a fare la tata. Si prese una portineria a Milano, mentre mio papà lavorava all’Alfa Romeo. Tramite le tante conoscenze sviluppate lavorando come tata tra le famiglie nobili e dell’alta borghesia milanese, riuscì però a far da tramite con le donne che da Belluno necessitavano di lavorare e cercavano impiego come balie, riuscendo a sistemarle presso diverse case.

Così facendo, diventò un mito per Milano, un punto di riferimento tanto per le balie quanto per le case signorili. Ricordo che ospitava le donne alle quali trovava lavoro finché non si sistemavano. Con molte delle famiglie milanesi presso cui prestò servizio rimase un forte legame, tanto che io, tuttora, mantengo i contatti.
Quando sono a Milano e si parla di mia mamma, queste famiglie la ricordano ancora.

Elena Cassol
Storia raccolta da Luciana Tavi

Maria Corso, balia 
a Milano presso la famiglia Brambilla
Maria Corso, balia a Milano presso la famiglia Brambilla

Come si impara ad apprezzare le cose

Sono di Tambre, ma nata a Rho di Milano nel 1940, perché i miei genitori erano anch’essi emigranti. Poi tornarono in Alpago e nel 1953 costruirono casa. Così si trovarono pieni di debiti e io a quindici anni dovetti andare a servizio per aiutare un po’ i miei, che si sacrificarono tanto. Mio padre faceva il cardatore di lana. Mia mamma era anch’essa a servizio a Milano. Io trovai un posto a Padova.

Ricordo la mattina in cui partii, alle undici, per arrivare a Padova alle sei di sera con la nebbia e un buio profondo. Era il mese di novembre. Non sapevo come trovare il posto a cui ero destinata. A forza di chiedere, giunsi in via S. Pietro 44 e poi su all’ottavo piano di un palazzo. Fui ricevuta senza tanta accoglienza. C’erano una vecchia zitella, due professori e due bambini.

Dovevo prendere due secchi di carbone per tre volte al giorno, facendo le scale perché non c’era l’ascensore. Quando arrivavo in cima ero stanca morta, non ne potevo più. Per giunta non mi davano da mangiare abbastanza, così scrissi ai miei e mia mamma venne a prendermi. Lì quindi ci rimasi solo un mese.

… la mia camera da letto era giù nella cantina, vicino alla caldaia. Una stanzetta di due metri per tre con una piccola finestra che sembrava una grata, più o meno una piccola prigione

Poi trovai un posto a Belluno. Ero contenta, essendo più vicina a casa. Purtroppo mi ero illusa! I padroni erano soltanto due anziani con dodici stanze da pulire di fino, perché la padrona controllava se facevo bene. Però la mia camera da letto era giù nella cantina, vicino alla caldaia. Una stanzetta di due metri per tre con una piccola finestra che sembrava una grata, più o meno una piccola prigione, con un rumore assordante per tutta la notte. Dopo due mesi lì mi abituai un po’.

Un giorno, mentre la signora era fuori, mi misi a cantare. Non mi ero accorta che nel frattempo lei era rientrata… Alla fine, mi diede una lavata di capo, dicendomi che in casa d’altri non si canta. Scoppiai a piangere. Un giorno venne a trovarmi mio padre. La padrona era fuori. Gli dissi: «Papà, vieni a vedere dove dormo!». Quando vide la stanza si mise a piangere e mi disse: «Dalle gli otto giorni e vieni a casa!» e così feci.

Praticamente divenni la pecora nera. Mi dicevano parolacce a non finire, non ne potevo più

Poi trovai un posto in Svizzera, in filanda. Stavo in convitto dalle suore. Là mi trovavo bene, sia dal punto di vista del lavoro che dell’alloggio. Ero contenta. Eravamo tante ragazze, tutte venete e tutte minorenni. Vista la giovane età, le suore non ci consentivano di uscire la sera. Le altre erano arrabbiate per questo motivo e così decisero di andare dal capo della fabbrica a reclamare. Chiesero anche a me di protestare, ma io mi rifiutai: per me andava tutto bene, non sentivo nessuna esigenza di uscire la sera.

Non l’avessi mai fatto! Praticamente divenni la pecora nera. Mi dicevano parolacce a non finire, non ne potevo più, finché decisi di andare via e per fortuna trovai un altro posto dove finalmente fui proprio felice, tanto è vero che ci rimasi un anno e mezzo, fino a quando tornai a casa per sposarmi.

Questa fu la mia emigrazione. Però tutto mi servì per essere contenta di ogni cosa e per imparare ad apprezzare ciò che ho, poco o tanto.

Anno 1956. Dipendenti di una filanda di Siebnen nel convitto delle suore in cui vivevano.

Dalla Libia alla Francia

Un’emigrazione durata quarant’anni. E una vita lavorativa vissuta interamente all’estero. È la storia di Luigi Tormen, raccontata dalle figlie Luigina e Adele, partecipi anch’esse, insieme al padre e alla madre, Maria Camana, dell’esperienza, spesso dura, della vita al di fuori del proprio paese natale.

«Nostro papà – precisano le due sorelle – è nato a Belluno il 15 ottobre 1909. Nel 1930 è in Libia, dove inizia a lavorare nell’impresa di costruzioni Lonati di Tripoli, prima come muratore e poi come assistente». Partecipa alla realizzazione di opere importanti, come la nuova sede Infail* di Tripoli, e ai lavori di difesa a Castel Benito. Il 28 novembre del 1936 sposa Maria (nata il 2 agosto 1910).

ho l’immagine vivida del bunker in cui vivevamo e del fatto che intorno a noi c’era solo sabbia.

«Prima di sposarsi si erano scritti per ben sette anni – racconta Luigina – Io sono nata nel 1938. Ero bambina, della Libia non ho molti ricordi, ma ho l’immagine vivida del bunker in cui vivevamo e del fatto che intorno a noi c’era solo sabbia. E ricordo bene il ritorno in Italia: papà aveva firmato per rientrare con l’ultima nave, solo per donne e bambini».

Ma ecco il ricatto: era il 1941 e sarebbe potuto salire a bordo solo a patto di partire per la guerra se l’Italia vi fosse entrata. E così fu. Nel 1942 è in Albania. Nel 1943 la guerra lo porta in Francia, in Costa Azzurra. «Provvidenzialmente, e senza aspettarselo, incontra sua sorella, che aiutava i soldati dando loro del cibo». L’8 settembre, data dell’armistizio, fugge da Cagnes-sur-Mer e arriva a Verona, dove è salvato dal rastrellamento tedesco grazie all’aiuto di una donna che, quando scendono dal treno, finge che Luigi sia suo marito.

In Italia non c’è lavoro e nel 1946 decide di emigrare di nuovo in Francia, clandestinamente: fino a Torino in treno, poi attraversa a piedi il Piccolo San Bernardo. Oltre confine può contare sull’appoggio del cognato Rodolfo e inizia a lavorare nell’impresa “Weiler”, a Morhange, nel dipartimento della Mosella, dove poi lavorerà anche Luigina.

… noi italiani eravamo visti male, non era semplice integrarsi.

«Nel luglio 1947, dopo la domanda di ricongiunzione – spiega ancora Luigina – io e mia mamma lo raggiungiamo». Luigina ricorda gli anni di stenti. «Nel 1951 nasce mia sorella Adele. In Alsazia Lorena, prima territorio tedesco e poi francese, noi italiani eravamo visti male, non era semplice integrarsi. Vivevamo in una baracca. Ma un po’ alla volta le cose cambiano. Io a nove anni inizio a fare lavoretti in un panificio, mia madre dai contadini. E la gente comincia ad avere stima di noi, finché riusciamo ad acquistare una casetta».

Nel 1970 Luigi ottiene la pensione d’invalidità per eczema da cemento e la famiglia torna in Italia, a Castion, dove realizza il sogno di costruirsi la casa tanto desiderata, casa in cui Luigina e Adele vivono tutt’ora. «La dipartita del papà è avvenuta nel 1983, quella della mamma nel 1990 – concludono le due sorelle – rimane il ricordo di anni belli e sereni dopo il ritorno a Castion».

Martina Reolon

*L’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.

Tripoli. La piccola Luigina Tormen con sua madre Maria Camana.