Un emigrante bellunese che ha onorato pienamente la sua provincia di origine

di Pier Celeste Marchetti

Domenico De Demo, per gli amici “Meno”, nacque il 24 maggio 1934. È stato uno dei tanti bellunesi dell’Alpago emigrati all’estero per la povertà della montagna bellunese negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.

Cresciuto a Borsoi (Tambre), dove fin da giovanissimo aiutava suo padre in una cava di pietre e nel mulino di farina di famiglia, commerciava in farina e vino.

Siccome tutte queste attività a un certo punto non gli garantivano più le risorse economiche necessarie a un mantenimento dignitoso della famiglia, nel febbraio 1966 emigrò in Lussemburgo, nel comune di Strassen, nella stessa via dove già viveva il cugino Gino De Demo. Lì trovò lavoro come autista di camion.

Conobbi Meno, sua moglie Maria Lavina e l’allora figlioletto Gastone nel 1976, quando giunsi in Lussemburgo per insegnare nella Scuola Europea.

Ad appena un mese dal mio arrivo, fui invitato a una riunione della Famiglia Bellunese del Lussemburgo, allora presieduta da Merlin, dimissionario, e immediatamente eletto Presidente, avendo il privilegio di conoscere bellunesi eccezionali. Meno e Gino furono per me da subito persone preziose, Gino per i collegamenti con le istituzioni europee, dove lavorava, Meno per la sua grinta nel raccogliere iscrizioni dei bellunesi residenti nel Granducato. La sua conoscenza del territorio gli consentì in un anno di triplicare il numero degli iscritti.

Da allora, Meno divenne il tesoriere della Famiglia, mentre Gino ne divenne Vicepresidente.

A distanza di un anno, il Consiglio organizzò la Festa nel Bosco di Bridel, prima fra le associazioni italiane a farlo, che divenne un appuntamento annuale di grande successo. Nella conduzione della festa erano tutti impegnati, compresi figli e mogli. Meno si occupava in particolare di procurare braciole e salsicce e di intrattenere, con Gino, i partecipanti, provenienti dal Lussemburgo, ma anche dalla Francia e dal Belgio (da Liegi arrivavano con un pullman).

Erano tre giorni impegnativi: il primo si erigeva una costruzione in legno su uno spiazzo messo a disposizione dal Comune, la si copriva e la si metteva in sicurezza; il secondo si mangiava, beveva e festeggiava in allegria, con quintali di pasta al ragù, quintali di polenta e formaggio, e con i bambini che partecipavano numerosi alle classiche gare di corsa con i sacchi, albero della cuccagna e rottura di pentole di coccio a occhi bendati; il terzo, si smontava il tutto e si lasciava lo spiazzo libero, obbligatoriamente messo in ordine e ripulito.

Strassen-Bridel, 1977. Prima festa nel bosco organizzata dalla Famiglia Bellunese di Lussemburgo. Da sinistra, secondo: Gastone De Demo, figlio di Domenico; Gino De Demo (terzo), Claudio Ganz, figlio del consigliere Celeste; e dietro, Loris Lazzaris, Vicepresidente della Famiglia.

Il successo fu tale che le casse della Famiglia, gestite con oculatezza da Meno, si rimpinguarono in tale misura da consentire di finanziare molte altre iniziative: l’invio di un contributo sostanzioso per i terremotati del Friuli e successivamente per i terremotati dell’Irpinia; la partecipazione annuale alla Festa delle Rose a Walferdange, comune gemellato con Limana; la partecipazione con un uno stand alla festa annuale dell’immigrazione in Piazza Guillaume, a Lussemburgo; l’organizzazione degli incontri dei Presidenti delle Famiglie Bellunesi di Lussemburgo, Germania, Francia, Belgio e Olanda nella sede del Segretariato Europeo di Lussemburgo; l’organizzazione di eventi culturali, ospitando cori e gruppi folcloristici sia nel capoluogo, sia nella Scuola Europea, principalmente il Coro Minimo Bellunese, il Coro Agordo, il Coro Cadore, il Coro Monti del Sole e i gruppi folk Nevegal e di Sospirolo. 

In particolare, si ricorda che il Coro CTG bellunese diretto da mons. Sergio Manfroi, si esibì nella Cattedrale del Lussemburgo e a RTL, la televisione lussemburghese. Il Coro era accompagnato da una trentina disSindaci bellunesi, dall’allora Vicepresidente dell’Associazione Bellunesi nel Mondo Renato De Fanti e da Edoardo Luciani, fratello di Papa Giovanni Paolo I.

Lussemburgo, 1980. Su invito della Famiglia Bellunese del Lussemburgo, presieduta dal prof. Pier Celeste Marchetti, il Coro Polifonico del CTG di Belluno, diretto da don Sergio Manfroi (primo a sinistra) e presieduto da Emilio Piol (ultima fila, primo a destra), dopo essere stato ospite di RTL – la televisione lussemburghese -, del Parlamento europeo e della Casa d’Italia, ha altresì accompagnato la messa celebrata dal Vescovo lussemburghese Mons. Hengen, quindi ha tenuto un applauditissimo concerto nella Cattedrale Notre-Dame della città di Lussemburgo. Qui, il Coro posa davanti all’entrata laterale della Cattedrale.

Per l’occasione, tutti gli ospiti si ritrovarono a casa mia, dove le signore Maria De Demo e Angela Monaco De Demo, moglie di Gino, con un altro paio di signore bellunesi, sfornavano panini, pasta e tartine in quantità, aiutate dai mariti che si occupavano di versare vino a litri.

Con Meno e Gino ci incontravamo anche fuori dalle riunioni del Consiglio, nel bistrot di fronte alla chiesa di Strassen, per quattro chiacchiere e un bicchiere rigorosamente di Merlot (i gestori erano originari di San Donà di Piave). Qui, una volta ospitammo con tutto il Consiglio anche il parlamentare europeo Arnaldo Colleselli.

Con Meno mi vedevo anche quando, insieme, andavamo a trovare famiglie bellunesi nelle Ardenne lussemburghesi.

Meno e Gino continuarono con lodevole impegno a ricoprire le rispettive cariche anche dopo il mio passaggio di testimone ad altri presidenti, fino alla fine del secolo.

L’ho rivisto qualche anno fa, quando ancora la malattia che lo ha portato alla morte non aveva iniziato i suoi drammatici e lunghi effetti, che lo avrebbero tolto all’affetto dei suoi cari e dei suoi amici il 24 novembre 2023.

In me rimarranno per sempre impresse la sua sincera e profonda amicizia e la sua preziosissima collaborazione. Tutti i bellunesi devono essere orgogliosi di lui.

Anno 1978, riunione del Consiglio della Famiglia Bellunese di Lussemburgo, ospite del Presidente Pier Celeste Marchetti. Da sinistra: Maria De Demo, Angela De Demo, Domenico De Demo, Gino De Demo, Celeste Ganz, Giorgio Ganz, Bruno De Toffol, sua moglie Annalinda; dietro: Dall’Acqua.

In ricordo di Lena

di Giovanna Toniolo

Mi chiamo Maddalena, detta Lena. Ho tredici anni e sono seduta al buio nel cassone di questo camion che, dicono, mi porterà a Milano. Io non so dove sia Milano. 

Parto da Vellai… sono appena rientrata dal Belgio. II mio papà è morto di possiera… faceva il minatore, ed io con la mamma, mio fratello e mia sorella siamo tornati a casa, in campagna, alla periferia di Feltre. Non ho neppure avuto il tempo di godermi le corse nei prati. II caldo della piccola stalla. Le nascite dei coniglietti. 

Mia mamma ha parlato con la perpetua e mi hanno caricata qui. In questo cassone buio, freddo. In mezzo ad altre persone che non conosco. So solo che vanno tutte a Milano. 

II parroco di Zermen organizza questi viaggi. Dice che Milano è grande, grandissima, e tutti trovano lavoro. Lui i contatti li ha già. Lui sa dove andremo. Sa anche dove andrò io. Ma ho paura lo stesso. Mi chiamo Lena e ho tredici anni. So a malapena parlare italiano. La mia lingua è un misto tra francese e feltrino. Tra feltrino e francese. So a malapena scrivere il mio nome. Non conosco i numeri. So, però, che mi manca già la mia famiglia. Che sono invasa dalla malinconia. 

Non so, invece, da quanto tempo sono seduta in questo cassone. Non so quando arriverò nella grande Milano, se ci arriverò. Mi sa che ho dormito per un po’, non ho idea di quanto tempo. Un uomo è venuto a “sgorlarmi” e a dirmi: «Desmissiete che presto son rivadi. Su su bela, corajo». Inutile dire che la paura è cresciuta a dismisura, così come il senso di solitudine e abbandono. Inutile dire che mi sento persa. Così è, che mi piaccia o meno. 

Arriviamo nei pressi di una canonica, adiacente a una chiesa immensa. Lì ci sono diverse persone. Ci chiamano per nome. Mi chiedo come facciano a sapere che io sono Lena da Vellai, ma loro lo sanno. E arriva il mio turno. Un signore basso, con coppola e baffetti buffi, mi avvicina, mi prende sottobraccio e urla (non so a chi…): «È questa la ragazza che va a servizio?». «Mí no so che cossa che ol dir ‘ndar a servizio» penso tra me e me. «Però se si deve, ci vado. E sarà quel che sarà. Semmai imparerò». E con questa convinzione salgo in auto. 

II “viaggio” è piuttosto lungo e tortuoso. Fermate, ripartenze, lunghi rettilinei. Non guardo, non voglio guardare, ma poi la curiosità ha il sopravvento e dal finestrino scorgo un lungo viale alberato. Infine una villa grande, bella come quelle dei film. L’auto si ferma. L’omino coppola e baffetti mi fa un cenno: «Sei arrivata… comportati bene, m’arcormandi». 

Scendo con la mia minuscola borsa. II cuore mi rimbalza in gola. Alla porta si presenta una signora. Non è anziana. Non è nemmeno giovane. Di mezza età. È bella. Indossa un golfino girocollo bianco, impreziosito da una collana di perle che si accompagna agli orecchini. Non è truccata. Ha occhi azzurri e profondi. Parla un italiano perfetto. Mi saluta con cordialità. «Ciao Maddalena, ben arrivata. Spero tu abbia fatto un buon viaggio. Ti accompagno nella tua camera (una camera tutta per me!). Domattina alle sette ti presenterai in cucina, dove conoscerai i tuoi colleghi. Ora riposa. Penso tu ne abbia un gran bisogno». 

Era grande come Milano la mia Parona. E bella. Sì, parchè la era bela la me Parona. Tant. Ma proprio tant. No ho mai savest al so nome. Ela la era la me Siora. E la era bela. Tant. Proprio tant. E bona. De pì. 

Da quella sera la bella ed elegante signora è diventata la mia Parona. Tutto, tanto di ciò che sono diventata, lo devo a lei. Ai suoi pazienti insegnamenti. Mi ha insegnato a camminare con la testa dritta (io guardavo sempre a terra), come vestirmi con il poco che avevo… ogni tanto mi allungava i vestiti che le sue figlie non mettevano più… erano bellissimi, molto fini. 

Mi ha trasmesso l’amore per la cucina. Dopo meno di un anno sapevo fare la pasta fatta in casa, gli gnocchi, il risotto, quello giallo, dolci e tanti tipi di carne… oh che passione aveva la me Parona!

Si andava ogni giorno al mercato comunale, mai visto nulla di così grande, nemmeno in Belgio. La sera, non tutte, ci mettevamo in cucina e, libri alla mano, mi insegnava la grammatica. Mi faceva scrivere e far di conto. Mi piaceva così tanto!

La Parona diceva sempre: «Bisogna studiare per essere davvero liberi, per guadagnarsi la stima degli altri. Diventare persone dignitose». 

Non è che capissi molto di quanto dicesse (ere na tosata), ma con il tempo ho fatto tesoro di ogni sua parola. 

Era grande come Milano la mia Parona. E bella. Sì, parchè la era bela la me Parona. Tant. Ma proprio tant. No ho mai savest al so nome. Ela la era la me Siora. E la era bela. Tant. Proprio tant. E bona. De pì. 

Sono stata a servizio per quasi dieci anni. Staccarmi dalla Parona, da quella famiglia che mi aveva accolto con affetto, da quella bella casa, non è stato per nulla facile, ma a Vellai c’era bisogno di me. 

Mia sorella si era sposata e portava già in grembo il suo primogenito. Non poteva certamente più lavorare la terra, né andare a fare i mestieri nelle case de ì siori de Feltre

Sono tornata a casa. Ventitré anni erano troppi per far su fameja, ma mi sono ugualmente innamorata del me Bepi e desideravo tanto dei figli miei. 

Ci ha pensato la mamma a sistemare le cose tra il Bepi e me. Mi ha portata nella casa buia in fondo alla campagna. Lì viveva una vecchia che faceva paura solo a guardarla. La mamma le ha raccontato la mia storia d’amore. Poche, asciutte, scarne parole. Ha posto nelle mani della vecchia la foto del mio Bepi, quella che tenevo sul mio comodino. La donna ha preso un bicchiere sbeccato. Ha versato dell’olio, lo ha mescolato… 

Il Bepi, dopo poco tempo, si è ammalato e ha perso l’uso dell’occhio destro. Non mi ha più voluta, nonostante io lo amassi ancora. Ho pianto (in silenzio e di nascosto) tutte le lacrime che avevo. Ho deciso che non avrei più avvicinato un uomo. E così feci. 

Poco tempo dopo sono andata a servizio presso una famiglia di Feltre. La Parona aveva da poco avuto un bambino, ma non poteva stare a casa, doveva lavorare. Erano tempi complicati quelli. II lavoro, soprattutto se autonomo, assorbiva la maggior parte del tempo e delle energie delle persone. II bimbo era piccolo e io lo accudivo come fosse mio.

La Parona di Feltre era un po’ severa, ma buona. Mi lasciava tutto lo spazio di cui necessitavo. Avevo la mia camera. Avevo piena autonomia nella gestione della cucina, così potevo mettere a frutto tutto ciò che avevo imparato nella grande Milano e, soprattutto, da quella bella Parona che mi aveva aiutato a crescere. 

Non ho avuto un marito. Non ho avuto figli miei. Ho cresciuto quelli degli altri. Negli anni la Parona di Feltre ebbe un bimbo che nacque morto. Che dispiacere fu per tutti. II Paron non poteva nemmeno lontanamente pensare che il suo bambino venisse seppellito in terra sconsacrata.

Si fece fare una dispensa dal Vescovo in persona, nella quale risultava che il bimbo aveva ricevuto il Sacramento del Battesimo in sala parto. Così il piccolo Antonio fu tumulato accanto ai suoi nonni. Poi arrivò un altro bambino. Tutti maschi in quella famiglia. Ho avuto il bene di crescere anche lui.

Milano, con la sua fitta nebbia che mi obbligava a segnare il marciapiede con un pezzo di mattone, per non perdere la strada di casa – come Pollicino – la porto nel cuore. E con essa la mia Parona

A Feltre posso andare in negozio a comprare la puina. Qui sanno cosa sia. Non devo chiamarla ricotta. Pranzo con la mia nuova famiglia e preparo, quando le trovo, le masanete che tanto piacciano al me Paron

A Milano erano chiamate granchietti… «na parola che no conosee». 

Cambio le vendimele tutte le settimane. Nella biancheria milanese erano le federe. Il Signore mi ha fatto la grazia di crescere anche i nipoti della Parona di Feltre… i me tre sbeteghini.

«Quant ben che ghe ho olest a quei tre tosatei. A la pì cea po’… tuta an fogo!» 

Mi chiamo Lena e questa è la mia storia. Probabilmente simile a quella di tante ragazze, poco più che bambine, strappate alla loro famiglia, alla loro terra, per cercare lavoro altrove. 

Penso di essere stata fortunata. Ho trovato una brava, bella, buona Parona nella grande Milano. Ho trovato la mia famiglia a Feltre. Sono stata la Tata Lena per ben due generazioni. Ora riposo a Vellai. Proprio lì dove avrei voluto essere. Nella mia terra. E sono in pace. Perché so di essermi guadagnata un posto nell’anima, nei ricordi, ma soprattutto nel cuore di chi ho tanto amato e mi ha tanto amata. Qui sanno cosa sia. E questo mi basta. 

Una famiglia dell’Alpago – seconda parte

di Renée Götz 

Mio nonno, Pietro D’Alpaos, nacque a Tignes nel 1915, il più giovane di cinque fratelli e sorelle. Suo padre era Natale D’Alpaos e la madre era Elena Bortoluzzi. 

Elena era la sorella di Pieretto Bianco, il celebre pittore dell’Alpago. Era nata a Trieste, dove la sua famiglia era emigrata per lavoro. Poi tornò e visse a Tignes. 

Mio nonno Pietro fin da giovane andò con suo padre e suo fratello a Waldshut, nel Sud della Germania, per lavorare nelle cave. Durante la guerra finì (non sappiamo come) prigioniero dei tedeschi in Francia. Al suo ritorno in Italia, dopo la fine delle ostilità, lui e mia nonna si sposarono e andarono in Svizzera, in una città vicino al lago di Costanza, Amriswil, dove c’erano già due sorelle di Pietro con i loro mariti, uno svizzero/italiano e l’altro svizzero. 

Pietro lavorava da un contadino. A quei tempi si poteva svolgere solo il lavoro che era scritto sul permesso di soggiorno, e lui poteva lavorare solo nell’agricoltura. Mia nonna lavorava in una fabbrica di tessuti come sartina (la Sallman, oggi ISA Bodywear). 

Nel 1950 nacque la prima figlia, Giovanna, che a otto mesi prese la polmonite. Dicevano che fosse successo perché la stanza dove abitavano si trovava in cantina ed era molto umida. La portarono in Italia, poiché credevano che i medici svizzeri non l’avrebbero trattata bene in quanto erano una famiglia di poveri italiani. La bimba morì poco dopo a Tignes. 

Mia nonna decise che da allora in poi avrebbe partorito in Italia. Così mio nonno tornò da solo in Svizzera a lavorare e mia nonna rimase in Italia con le altre due figlie arrivate in seguito: Gabriella e Ivonne, mia madre. 

Nel 1956, quando Gabriella aveva quattro anni e Ivonne ne aveva due e mezzo, la famiglia decise di emigrare in Germania. Mia nonna non voleva più andare in Svizzera dopo quello che era successo alla prima figlia. Andarono a vivere a Mauenheim (Immendingen), un piccolo villaggio a circa mezzora dal lago di Costanza. Pietro era già stato lì prima della guerra e sapeva che lì vicino c’era una cava dove poteva trovare lavoro. Li raggiunsero anche un fratello con la famiglia e un cugino.

Il fratello si ammalò di silicosi e, tornato in Italia, morì nel 1959. Poco dopo, anche Pietro si ammalò di silicosi e dovette smettere di lavorare. Mia nonna aveva trovato lavoro in un’altra fabbrica di tessuti, la Schiesser, in una città vicina, Engen. All’inizio andava al lavoro a piedi, sei chilometri all’andata e sei al ritorno, dopo un turno di otto ore a cucire. Poi il nonno le regalò una bicicletta per facilitarle il viaggio. Alcuni anni dopo la Schiesser mandò un pulmino per raccogliere le donne che abitavano nei villaggi nei dintorni di Engen e portarle al lavoro. 

Mio nonno passava molto tempo tra un sanatorio e l’altro. Nel 1962 decise di tornare in Italia, perché aveva la speranza che l’aria buona di montagna gli facesse bene. Purtroppo, però, morì il 26 marzo 1963. Mia nonna restò sola con le bimbe. 

La famiglia voleva costringerla a ritornare in Italia: una vedova sola, lontana, con due figlie – le dicevano – non andava bene. Ma mia nonna non voleva abbandonare l’idea, avuto con suo marito, di costruirsi una vita migliore all’estero, dove c’era più lavoro. Entrambi volevano dare un’educazione migliore alle loro figlie, offrendo loro la possibilità di studiare e imparare una professione.

La nonna lavorava in fabbrica, lavorava anche per i contadini nella stagione del raccolto, e lavorava come sarta per le persone in paese. Spesso i contadini la pagavano con un sacco di patate o altri prodotti, anziché con i soldi. 

Siccome nei dintorni non c’erano scuole superiori e dato che lei lavorava a turni, anche di notte, per garantire alle figlie una miglior educazione dopo la scuola elementare decise di mandarle in collegio a Lindau, un’isola sul Lago di Costanza. 

Mia mamma lavorò sempre in amministrazione aziendale e come mediatrice e mia zia si laureò in Economia e Commercio. 

Nel 1978, a mia zia Gabriella venne proposta una posizione di lavoro come contabile per un’azienda farmaceutica di Milano. Quando dette la notizia del trasferimento a sua mamma, lei si mise a piangere e disse: «Ma no la finiss mai…». Era addolorata dal continuo migrare della famiglia tra Italia e Germania, sempre avanti e indrio

Facendo l’albero genealogico della mia famiglia, ho trovato che dal 1800 in poi altri miei antenati sono andati in America, Argentina, Francia, Belgio, Svizzera, Germania.

Amriswil. Anna Bortoluzzi al lavoro in fabbrica.

Amriswil. Pietro al lavoro come contadino.

NOTA: La prima parte della storia è disponibile QUI.

Una famiglia dell’Alpago

di Renée Götz

Il mio bisnonno Giovanni Bortoluzzi (nato a Tignes nel 1875) andò in Germania prima della Grande Guerra per lavorare alla costruzione della ferrovia a Dieringhausen (vicino a Gummersbach), uno snodo ferroviario importante nella parte Nord-Ovest della Germania, oggi parte del “Nordrhein-Westfalen”, vicino al fiume Reno e alle grandi industrie e miniere di carbone presenti in quella zona. Emigrò con suo fratello Domenico e altri compaesani.

Entrambi i fratelli sposarono donne tedesche. Domenico rimase in Germania con la sua famiglia e purtroppo, con il passare degli anni, abbiamo perso i contatti.

Mia nonna, figlia di Giovanni, nacque in Germania nel 1917. Alla fine del conflitto, Giovanni, sua moglie e la bimba piccola tornarono in Italia. Giovanni lavorò alla costruzione dell’impianto idraulico che consente di produrre elettricità con l’acqua del lago di Santa Croce e gli altri laghi nella zona di Vittorio Veneto, e anche all’impianto di Soverzene.

Mia bisnonna lavorava la terra della famiglia in Alpago, dalla quale ricavava il necessario per il sostentamento. Divideva una mucca con una sorella del marito e nei campi coltivava il mais per la farina da polenta e la canapa per realizzare tessuti per vestiti e lenzuola.

Mia nonna andò a scuola e suo padre le fece ripetere l’ultimo anno (la terza elementare, se non sbaglio) perché imparasse di più, visto che non poteva permettersi di mandarla alle medie (figurasi alle superiori!). Nel pomeriggio e durante le vacanze, lavorava da una zia come sarta e aiutava sua madre nei campi e a prendersi cura della mucca e delle galline. Imparò a cucire ed era bravissima, sapeva fare tutto, anche completi da uomo.

Già da ragazza, a soli undici anni, sapeva che, se fosse rimasta in Alpago, non avrebbe avuto speranza di fare una vita diversa dai suoi antenati. Parlava di questo con suo padre già a quell’età. Così, a tredici anni, decise di andare a servizio da una famiglia benestante a Busto Arsizio. Viaggiò da sola. Raccontava sempre che non aveva mai visto un treno prima del viaggio a Milano e che era molto impressionata dalla grande locomotiva a vapore.

Dormiva in una stanza sotto il tetto della casa, freddissima d’inverno e caldissima d’estate. Doveva lavorare molto duro per i signori di casa, che non erano molto benevoli. Non le piaceva ricordare quei tempi. Mandava a casa i soldi che guadagnava, per aiutare i genitori.

Nel 1935, suo padre morì e sua madre rimase sola con il fratello più giovane, Alfredo (detto Guido). Lui voleva diventare prete e frequentò il seminario. Però, per ragioni a noi ignote, decise di lasciare prima di finire gli studi e andò in Venezuela a trovare la sua fortuna. A quei tempi, tanti italiani andavano in Venezuela, un Paese con un’economia crescente. Anche uno dei cugini di mia nonna e di Guido andò in Venezuela a lavorare per un paio d’anni. Lui scriveva alla mamma in francese. Lei parlava francese, come tanti della sua regione in Germania, vicina alla Francia.

Nel 1936, un terremoto devastò la conca dell’Alpago e anche a Tignes ci furono molti danni. La nonna raccontava che aveva dormito con sua mamma nei campi per parecchi giorni dopo la scossa principale. Era ottobre, faceva freddo, e avevano molta paura che arrivassero altre scosse.

Mia nonna andò poi a Cortina d’Ampezzo durante la Seconda guerra mondiale e lavorò come cameriera ai piani in un albergo.

Una storia che raccontava spesso di quei tempi era quella della squadra tedesca dei mondiali di sci, che alloggiava nell’albergo dove lavorava e che per colazione mangiava pappa d’avena ogni mattina, una cosa che sembrava molto strana agli italiani, ma che la nonna sapeva dar loro la forza necessaria per le competizioni.

Giovanni Bortoluzzi a Dieringhausen con i compagni di lavoro.

Un cadorino pioniere di Loretto, Michigan

di Luisa Carniel

Giuseppe Andrea Marinello, i cui genitori Antonio e Maria Antonia Agnoli erano originari di Valle di Cadore, nacque a Fiume nel 1868, proprio nell’anno in cui venne firmato l’accordo croato-ungherese secondo il quale la città istriana tornava sotto il controllo dell’Ungheria, divenendone così il principale emporio marittimo e portuale. 

Giuseppe prese fin da giovane la strada dell’emigrazione, che lo portò in Sud America e successivamente in Messico. Nel 1892 sposò, a Venas, Angela Gei, dopo di che partì per gli Stati Uniti, dirigendosi nel Michigan, dove divenne ben presto caposquadra della vecchia miniera di Loretto, nella contea di Dickinson. Si trattava di una miniera, ora non più aperta, che faceva parte dell’importante distretto minerario del ferro della zona di Vulcan. 

Giuseppe Marinello è considerato uno dei pionieri della zona di Loretto, dove rimase più di cinquant’anni, riuscendo a inserirsi molto bene nella società civile ed entrando a far parte di diverse associazioni. Stabilì una particolare amicizia con altri due emigranti italiani, tali Domenico Girardi e Fortunato Cristianelli, che si consideravano “compari” e che divennero padrini l’uno dei figli degli altri. 

La moglie Angela, classe 1865, dopo aver dato alla luce la loro prima figlia in Cadore (Maria, 1893-1978), emigrò anche lei a Loretto, dove nacque la secondogenita Pierina (1895-1958). 

Seguì un rientro temporaneo a Venas, dove nel 1897 nacque l’unico figlio maschio della coppia, Amedeo Giacomo, e un anno dopo ripartirono tutti per il Michigan, riunendosi così nuovamente al padre. L’anno seguente venne alla luce la piccola Olga (1899-1980) e nel 1904 fu la volta di Angela che, preso il nome della madre morta presumibilmente di parto, morì anch’essa nel settembre dello stesso anno, pare di colera. 

Successivamente Giuseppe si concesse un periodo di ritorno in Cadore che durò circa tre mesi.

A un anno di distanza dalla morte della moglie, Giuseppe si risposò con la vedova Maria Fedrizzi, con la quale ebbe altri sei figli. Diventarono un’unica grande famiglia alla quale Giuseppe fu in grado di assicurare una certa tranquillità economica.

Il capofamiglia morì nel 1944, quando l’ultimogenito Fred era di stanza in Corsica, impegnato nel secondo conflitto mondiale. Venne sepolto nel cimitero di Norway, poco distante da Loretto. 

Nel 1919 Olga e Amedeo aprirono la Marinello Grocery, un’importante attività commerciale della città di Caspian, sempre nella contea di Dickinson: un grande magazzino che fu attivo fino al 1961. 

Giuseppe Marinello posa con la moglie Angela e i figli Amedeo, Maria, Pierina e Olga.