Archivio di Febbraio, 2020

Evaristo Menegon e Maria Rita Zuco. Ricordi di emigrazione in Svizzera

Correva l’anno 1963 quando Evaristo, di Alano di Piave, nato il 28 dicembre 1946, decise di andare a passare le feste natalizie e il suo diciassettesimo compleanno dai fratelli, in Svizzera da parecchio tempo. Non pensava neppure lontanamente che quel viaggio gli avrebbe aperto delle porte fino a quel momento sconosciute. Aveva vissuto sempre ad Alano, dove dopo le elementari aveva frequentato la scuola di muratore.
Eccolo arrivare a Zurigo e quindi a Räterschen, un piccolo paese nel quale già vivevano la sorella – coniugata e con figli – e il fratello. Il 28 dicembre gli fecero una grande festa. Parlando del più e del meno finirono con il chiedergli: «Perché non resti qui?». Evaristo non pensò né al lavoro di muratore in Italia, che gli piaceva tanto, né ai genitori, e rispose in modo affermativo. Fece la visita medica, tutti i documenti necessari e andò a lavorare alla papierfabrik, la cartiera.Dopo un anno cambiò mestiere e passò a un’impresa edile di Räterschen, la Landgart & Valdvogel. Vi rimase per 15 anni, sempre ben voluto dai datori di lavoro, tanto da diventare presto, per la sua bravura e onestà, capocantiere. Prese la patente e comprò la macchina. Decise anche di ottenere la licenza media alla scuola serale italiana e il diploma di congegnatore meccanico. Nel frattempo, studiò da autodidatta il francese, lo spagnolo e naturalmente il tedesco. Viaggiò parecchio in Austria, in Francia e in Spagna.

Per le feste tornò sempre dai genitori a bordo della sua bellissima Volvo, che cambiava spesso e volentieri. D’inverno il luogo di lavoro era molto freddo, con neve e ghiaccio, ma Evaristo non si lamentò mai. Anzi, fu sempre contento e sereno, anche se ogni anno doveva sottoporsi a una nuova visita medica. La Confederazione Elvetica voleva infatti accertare lo stato di salute di tutti gli stranieri. Passati dieci anni ebbe diritto al permesso di soggiorno permanente, ma mai gli venne l’idea di rinnegare la sua patria per ottenere la cittadinanza svizzera.

Nel settembre del 1972, a casa di un amico, conobbe Maria Rita Zuco, una ragazza di 22 anni che viveva a Winterthur con i genitori. Maria Rita era diplomata in Italia come Perito aziendale, ma lavorava nella cucina dell’ospedale e la sera studiava il tedesco per stranieri. I due ragazzi fecero subito amicizia. Lui da Räterschen andava spesso a trovarla a Winterthur. Dopo qualche tempo, Maria Rita si dimise dall’ospedale e trovò impiego alla Volg, un grande ingrosso per l’agricoltura. Lavorava nella posta privata dell’azienda.
Nel luglio 1974 i due giovani si sposarono a Catania, luogo di origine della famiglia Zuco. Tornati in Svizzera dopo le nozze, si trasferirono in un bell’appartamento con tutte le comodità a Räterschen. Comprarono i mobili nuovi e furono felici. Maria Rita prendeva il treno la mattina alle 7 per arrivare sul posto di lavoro e si impegnava alacremente fino alle 17.30. Il lavoro al Postabteilung, il dipartimento postale, era appagante, era rispettata da tutti per la sua precisione, onestà e sveltezza. Era responsabile per il Kanton Thurgau e, ben preparata com’era al lavoro d’ufficio, non commetteva mai errori. Purtroppo perse il suo primo bambino quando era incinta da tre mesi e mezzo. Per lei fu un dolore fortissimo, poiché lo vide: era un maschietto, lungo sei centimetri, con i capelli neri.

Comunque, anche questo brutto momento passò, per lasciare spazio, tre mesi più tardi, a una nuova gravidanza.

Il 7 luglio nacque una bellissima bambina: Jeannette. Per il battesimo arrivarono molti famigliari dall’Italia, fu una grande festa. Dopo sei settimane dalla nascita e due settimane di ferie, Maria Rita dovette tuttavia tornare al lavoro. In Svizzera non esiste il permesso di maternità. La bambina venne iscritta al miglior asilo nido della città, visto che nessuno dei parenti volle accudirla. Fu un periodo intenso, la piccola veniva accompagnata al nido alle 6 del mattino, per tornare a casa alle 6 di sera. Maria Rita si stancò molto e finì con l’incappare in una depressione post parto. Venne ricoverata in ospedale e dovette assentarsi dal lavoro per sei mesi. Tornata alla Volg, pian piano le balenò, assieme ad Evaristo, l’idea di un ritorno in Italia. Quando la bimba aveva due anni e mezzo, comprarono un appartamento a Quero e il 27 marzo 1979 fecero rientro in patria, nella casa dove vivono tuttora.

La Famiglia De Nes. Dall’Italia al Brasile

137 anni di emigrazione in Brasile. È il traguardo raggiunto dalla famiglia De Nes, che ha festeggiato il 16 novembre 2019 con il primo incontro dei discendenti nella città di Encantado (Rio Grande do Sul). Proprio lì dove tutto ebbe inizio.
I primi ad arrivare furono Francesco De Nes, nato a Longarone il 18 settembre 1869, e sua mamma Giacomina Bratti, nata il 4 giugno 1846. Francesco aveva tredici anni e Giacomina era rimasta vedova. Con loro, a ricominciare la vita oltreoceano, c’erano anche i nonni materni, Andrea Bratti, nato il 19 febbraio 1821, e Domenica De Bona, nata il 30 agosto 1819.
La famiglia arrivò in Brasile, nel porto di Rio de Janeiro, il 15 dicembre 1882, a bordo della nave “Berlin”. Scelsero il Sud del Paese per vivere, stabilendosi nell’attuale città di Encantado – allora 3ª frazione di Lajeado – dove lavorarono come contadini.

Il 7 maggio del 1892 Francesco sposò Pia Giongo, nata nel 1870 nell’Impero austro-ungarico. Anche lei era arrivata nel porto di Rio de Janeiro, il 7 luglio 1879, quando aveva 10 anni. Era emigrata con i genitori, David Giongo e Maria Penes, viaggiando sulla nave “La France”. Nei registri dei passeggeri di quella nave sono presenti 54 austriaci. Di questi, 26 – inclusa Pia – ricevettero un sussidio dal Consolato brasiliano a Genova.

Gli sposi ebbero sette figli: David Pio De Nes, nato il 28 aprile 1893; Antonio Augustinho (28 novembre 1894), Ernesto Luiz (14 novembre 1896), Benjamin Degnho (25 agosto 1898), Giacomina De Nes (19 luglio 1900), Maria (22 settembre 1905) e Giusto João (1904).
Anche Giacomina Bratti, la madre di Francesco, in Brasile si risposò con Antonio Lucca. Morì a Encantado il 18 dicembre 1929, a 84 anni.
Francesco si spense invece il 26 aprile 1930, a 61 anni, e Pia venne a mancare il 12 settembre 1948, a 78 anni. Furono sepolti nel cimitero di Santo Antão, a Encantado.
Attualmente il cognome De Nes è diffuso tra gli stati di Rio Grande do Sul, Santa Catarina, Paraná, São Paulo, Mato Grosso e Rio de Janeiro.
I discendenti si impegnano a portare avanti ricerche per conoscere meglio la loro storia e per ampliare i rapporti fra parenti di questa grande famiglia italo-brasiliana.

Valdir Francisco De Nes Chapecó, SC, Brasile

Vite migranti tra Canada e Belgio

Belgio, fine anni ‘40. Antonio (a destra) con due compagni di lavoro

«Diceva che si doveva lavare tre volte: la prima volta veniva fuori ancora nero, la seconda si cominciava a vedere la pelle un po’ bianca e la terza volta era pulito». Racconta così Francesca Faoro, emigrate arsedese a Montreal, per rendere l’idea di quanto dura potesse essere la vita del marito. Prima di conoscerla faceva il minatore in Belgio. Lei, invece, non ha dovuto soffrire come il suo Antonio. Lo precisa spesso nella sua azione di memoria, quasi a sottolineare – con un velato senso di colpa che nasce dall’amore e dall’empatia – una sua maggior fortuna rispetto alle sventure patite dal coniuge. «Io mi sono sempre trovata bene in Canada. Per questo non ho una particolare nostalgia dell’Italia. Delle montagne bellunesi invece sì, quelle mi mancano». Per il resto, una vita dignitosa, serena, felice nel Quebec. Non come Antonio, salvo per miracolo in una miniera a pochi passi da quella più famosa – tristemente famosa – di Marcinelle.
«È partito dopo la guerra e ha lavorato sei anni a Charleroi. Se ne è andato dopo un incidente in cui ha visto morire tanti suoi amici». Non si conoscevano ancora – dicevamo – Antonio e Francesca. Ma lui di quell’incidente, impossibile da cancellare dalla mente, le ha raccontato. Un racconto che parla di quanto gli attimi, il caso, la fortuna, possano fare la differenza.

«Aveva avuto dei problemi di digestione per qualcosa che aveva mangiato la sera prima. Dovendo andare alla toilette, aveva perso l’ascensore per scendere in miniera, e questo gli ha permesso di restare vivo. Diceva sempre che era stato un miracolo. Lo raccontava piangendo perché da quel momento non ha più rivisto tanti dei suoi compagni».

Troppo dolore, troppo pericolo. Antonio torna in Italia, parla con il padre e gli annuncia di non volerne più sapere del Belgio. Meglio tentare con il Canada, la nuova terra promessa di quegli anni, i primi anni ‘50. In Canada ci arriva nella primavera del ‘51, nell’Ontario. Ma anche qui le cose partono con il piede sbagliato.
«Lavorava in una farm – racconta ancora Francesca – con duecento capi di bestiame da mungere ogni mattina, tutto solo, sotto il sole e tra le mosche e gli insetti. Era talmente pieno di punture sulla schiena che faticava a dormire. Gli davano così poco da mangiare che doveva rubare qualche uovo dalle galline». Impossibile restare.
«Dopo qualche mese ha scritto una cartolina a uno zio a Chicago: chiedeva qualche dollaro per scappare e andare a Niagara, dove c’erano altri paesani. Ma quando il padrone ha capito che se ne stava andando, l’ha aspettato sulla porta con la forca in mano. Allora lui gli ha detto: “Non rimango qui a morire di fame, nemmeno in Italia ho mai lavorato così tanto”. Lavorava dalle quattro del mattino alle dieci di sera».

A Niagara lo accoglie una signora di Fonzaso. «Era una donna che dava aiuto a quelli che arrivavano lì all’improvviso, dava loro ospitalità finché trovavano lavoro. Per tutta la vita, non ha mai smesso di ringraziarla, era stata il suo angelo custode».

Antonio trova impiego nelle costruzioni. Sono gli anni del pieno sviluppo. Un boom che prosegue con l’Expo di Montreal del 1967, l’evento che porta Antonio nella città in cui tuttora vive Francesca.
Ma i due non si incontrano in Canada. La loro storia comincia in Italia, quando Antonio rientra per far visita alla famiglia.
«Io lavoravo all’ospedale a Feltre – spiega Francesca – ci siamo conosciuti lì e sono finita in Canada anch’io».
Purtroppo Antonio a cinquant’anni si ammala. La maledetta miniera torna nella sua vita per presentare il conto. Dolore ai polmoni e problemi di respirazione, la diagnosi è inequivocabile: silicosi. «È stato fortunato perché un dottore ha appurato che la malattia era causata del lavoro e quindi ha potuto avere una pensione, ma ne ha sofferto per quindici anni prima di morire».
E nel ricordare questo ennesimo episodio di sventura, Francesca si fa prendere ancora dall’idea che ci sia stato un divario tra la sua vita e quella del marito.
«Io sono stata molto più fortunata: sono arrivata con l’aereo, non ho viaggiato in nave come lui, sono stata accolta dai paesani, non ho sofferto quello che lui ha dovuto soffrire. La lingua mi è entrata facilmente, ho imparato meglio il francese che l’inglese. Grazie all’esperienza di lavoro a Feltre ho fatto domanda per lavorare in ospedale e ci sono rimasta per venticinque anni.
Nella mia emigrazione non ho avuto disagi come invece li ha avuti mio marito. E come lui molti altri emigrati agli inizi degli anni ‘50. Per loro sì che è stata dura».