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Celestina, Domenico e quelle lettere dal Belgio

Domenico e Celestina Comiotto
Domenico e Celestina Comiotto

Qualche tempo fa, riordinando la cantina della nostra casa di Cesiomaggiore, mia mamma trovò una scatola di cartone con dentro decine di vecchie lettere. Alcune rovinate, altre meno, tutte scritte a mano con una grafia ordinata e pulita. Venivano tutte da Charleroi, in Belgio, ed erano state scritte con amorevole dedizione da mio nonno Domenico a mia nonna Celestina, che per un lungo periodo era stata costretta a vivere sola con la loro bambina (mia mamma Adriana) a Farra di Mel, attendendo che il giovane marito minatore potesse mettere da parte abbastanza denaro da consentire loro di raggiungerlo e di vivere quella vita da emigranti in modo dignitoso. Una vita che, leggendo quelle lettere e ricordando i loro racconti, sembrava la sceneggiatura di un film più che una storia di vita vera e che ogni giorno mi fa riflettere su quanto sia diversa la mia esperienza di emigrante (attualmente vivo in Spagna).

Mio nonno Domenico ha sempre avuto fretta di fare le cose. Le volte che non l’ha avuta è stata la vita ad imporgliela. Veniva da una famiglia povera, aveva completato solo la seconda elementare quando gli chiesero di dedicarsi a pascolare le vacche, ma questo non gli impedì – anni dopo – di scrivere a mia nonna quelle splendide lettere.

Con qualche errore di ortografia, magari, ma con un’eleganza (ognuna inizia con “Amatissima moglie mia”) ed una chiarezza di sentimenti indescrivibili.

Da bambino ascoltavo mia nonna raccontarmi di come – durante la guerra – lui avesse rischiato spesso la vita pur di vederla, scendendo la notte dai boschi dove si nascondeva con gli altri partigiani per poter passare qualche istante con lei. Ero piccolo e probabilmente non capivo il senso di quel sorriso tenero che le copriva il viso quando mi raccontava queste cose. Dopo il Belgio, con i soldi messi da parte, i miei nonni riuscirono a realizzare il sogno di aprire un bar. Il destino volle che lo fecero proprio a Marsiai, frazione di Cesiomaggiore, dove, per un’altra casualità, si era appena trasferita anche la famiglia di mio padre Fabio. Domenico e Celestina ebbero un altro figlio, questa volta maschio – Fabrizio – e continuarono a lavorare ancora più duramente. A mio nonno piacevano le grandi tavolate con amici e parenti, un buon bicchiere di vino, un buon piatto caldo. Celestina cucinava divinamente, qualsiasi cosa passasse per le sue pentole aveva un gusto differente e per quanto gli altri provassero a fare esattamente quello che faceva lei non ottenevano mai gli stessi sapori o gli stessi profumi.

Mio nonno invecchiò più velocemente a causa degli anni in miniera.

Celestina, invece, continuò per anni a macinare scale come una ragazzina. Un giorno quelle scale le fece perfino rotolando a causa di uno scivolone e si ruppe un paio di costole, ma nemmeno questo la tenne ferma troppo a lungo. In un giorno di febbraio, quando io avevo una decina d’anni e lui meno di settanta, mio nonno Domenico ci salutò. Mia nonna pianse tanto, io ero piccolo e spesso andavo a dormire da lei perché non le piaceva stare sola in casa e vederla piangere mi spezzava il cuore. Quando si accorgeva che m’intristivo, però, mi faceva sempre un sorriso. Perché pensava sempre prima al nostro di bene che al suo. Il 17 luglio scorso, Celestina è andata a riabbracciare il suo Domenico. Aveva 94 anni e tutta la sua famiglia stretta attorno a lei. Ora più che mai, sono sicuro che ogni volta che prenderò in mano una di quelle loro lettere, mi riempirà d’orgoglio sentire che nel mio petto batte un po’ del loro grande cuore.

Paolo Rizzardini