La storia di Mario Giacchetti tra Italia e Argentina. Un’intervista alla figlia Maria

matrimonio mario e lucia

Matrimonio di Mario Ghacchetti e Lucia

Maria Giacchetti nasce a Belluno nel 1956. Le sue origini, però, si mescolano tra italiane a argentine. Il papà Mario, infatti, ancora molto giovane, spinto dalla necessità di dare una svolta di fortuna alla sua vita, decide di partire per Buenos Aires dove incontrerà e poi sposerà una donna argentina, Lucia, nata da padre argentino e madre italiana.  Nell’intervista, Maria ci racconterà dei suoi genitori, delle storie sull’Argentina che essi le raccontavano e di quanto questo paese sia diventato parte di lei entrandole nel cuore. Ad oggi, Maria sente di appartenere a due nazionalità e a due paesi che, simili e differenti, si intrecciano fra di loro. Il legame speciale con l’Argentina si intensificherà tanto da sentire di dover soddisfare un bisogno ed una necessità di visitare i suoi luoghi e conoscere le sue persone. L’Argentina è entrata a fa parte di lei in modo totalmente naturale.

 

Mi racconti chi della tua famiglia è andato via? E dove?
Il primo della famiglia a lasciare il Paese è stato mio padre Mario, all’epoca poco più che ventenne e appena diplomato presso un Istituto Tecnico Superiore nel campo dell’Edilizia. Nell’immediato dopoguerra Mario, primo di cinque fratelli, spinto dalla necessità di trovare lavoro decise di emigrare in Argentina.

 

È stato l’unico a partire della famiglia?
No, in un secondo momento Carlo, il fratello di mio padre, lo ha raggiunto rimanendo in argentina per un periodo limitato. Mario invece, oltre a rimanervi circa 7 anni, ha conosciuto e poi sposato mia madre Lucia.

 

Inizialmente è partito solo lui perché era il fratello maschio più vecchio e doveva sostentare la famiglia? È stato l’unico motivo?
Mario ha lasciato il paese tra il 1950 e il 1952 lasciandosi alle spalle la guerra e la liberazione ma le motivazioni che lo hanno spinto non ci sono mai state riferite esplicitamente. Penso che oltre alla necessità di trovare un lavoro, nel difficile periodo del dopoguerra, ci fosse il desiderio di partecipare al sostentamento della famiglia. Infatti, nonostante il buon impiego di mio nonno Francesco come vicedirettore di banca, mantenere una famiglia così numerosa all’epoca era molto faticoso.

 

Il lavoro che ha svolto in Argentina lo aveva trovato cercando informazioni da Belluno?
Si, erano dei viaggi pianificati: venivano organizzati i piroscafi per i lavoratori italiani. All’epoca infatti, l’Argentina sotto il Governo Perón era una nazione florida e gli italiani venivano immediatamente impiegati dopo l’arrivo. Mio padre era perito edile, ma per iniziare è stato assunto come muratore. Distinguendosi poi per intraprendenza e preparazione è riuscito ad ottenere una posizione adeguata a quanto studiato.

 

Mi racconti del viaggio e dell’arrivo a Buenos Aires?
L’attraversata in piroscafo, della durata di circa 20 giorni, partiva dal porto di Genova e aveva un costo sicuramente molto elevato da affrontare per quell’epoca. Il piroscafo era purtroppo anche l’unico mezzo per coprire tragitti così elevati, rendendo difficile anche tornare in visita alle famiglie durante gli anni lontani da casa. Mario era molto religioso e appena arrivato in Argentina ha cercato conforto per la lontananza da casa presso una comunità di salesiani già frequentata da molti operai suoi compatrioti. Mio padre ci raccontava che la prima cosa che ha fatto appena raggiunto il paese d’oltremare è stato cercare una chiesa per recarsi a messa. Nel suo diario scrive che la fede e il rigore gli sono stati sempre di grande sostegno durante gli anni lontano da casa.

 

Sapeva già lo spagnolo quando è arrivato?
No, è partito senza conoscere la lingua. Tuttavia, negli anni è riuscito ad apprenderla in maniera egregia, infatti a volte dimostrava proprietà di lessico e linguaggio più spiccate di mia madre madrelingua Argentina.

 

Durante gli anni da Lavoratore Emigrato, Mario si è sempre sentito trattato bene o ha anche subito discriminazioni?
Gli italiani erano considerati sporchi, fannulloni e incapaci dalla popolazione argentina. Venivano esclusi, discriminati, sfruttati e alloggiati in baracche di lamiera torride e sovraffollate.
All’inizio per Mario non deve essere stato facile: appena arrivato non conosceva la lingua e non aveva amici. Fortunatamente grazie alla comunità religiosa che Mario ha iniziato a frequentare poco dopo il suo arrivo è riuscito ad integrarsi creando una rete di conoscenze nella quale ha incontrato Jorge, il suo più grande amico e Lucia, la sua futura sposa. Con il tempo, Mario è riuscito anche a migliorare la sua condizione di lavoratore, da muratore a capocantiere spostandosi a vivere nel centro di Buenos Aires.

 

Mi racconti di come ha conosciuto tua mamma?
Mio padre ha conosciuto Lucia, nata e cresciuta a Buenos Aires in una famiglia Italo-Argentina, ad una festa tramite il suo migliore amico Jorge. Nonostante i tentativi di osteggiamento del matrimonio da parte della famiglia di mia madre, dovuti alla possibilità di un rientro in Italia di Mario, nel 1952 i miei genitori si sposano e come meta del viaggio di nozze scelgono l’Italia.  Dopo essere rientrati in Argentina e aver messo al mondo Claudio, il primo dei miei cinque fratelli, hanno deciso di lasciare definitivamente il paese d’oltremare alla volta delle terre natie di Mario.

 

I tuoi nonni materni di che parte d’Italia erano?
La nonna originaria di Cavasso nel Friuli si è trasferita durante la guerra a Milano dove ha conosciuto mio nonno, meneghino di origini argentine. Dopo essersi sposati, sono partiti alla volta di Buenos Aires dove, una volta stabiliti, hanno avuto mia madre Lucia. Con il tempo, prima la sorella della nonna, Olga, sposata per procura con un calabrese emigrato, e poi il fratello con la moglie si sono trasferiti a Buenos Aires.

 

Con il trascorrere degli anni come si è evoluto il rapporto con il paese in cui tuo padre è emigrato?
Mario ha sempre avuto un rapporto speciale con l’Argentina, vuoi per gli affetti lasciati una volta rientrato in terra natia che per l’accoglienza e la solarità delle persone della comunità in cui si era stabilito. Il desiderio di tornare in visita in Argentina è rimasto sempre vivo e per mio padre la cultura e le usanze argentine sono sempre state di grande interesse.

 

Come mai Mario ha deciso di rientrare in Italia?
Nonostante la buona integrazione nella comunità, mio padre non era riuscito a portare a termine il suo progetto lavorativo e per questo nel 1954 ritorna definitivamente in Italia.

 

Com’è stato per i tuoi genitori, così legati all’Argentina, rientrare in Italia?
La nostalgia per l’Argentina è sempre stata molto presente. Infatti, mio padre, ma soprattutto mia madre hanno sempre manifestato il dolore per il distacco e la sensazione di lontananza, vuoi per gli usi e costumi che per gli affetti lasciati con il ritorno in Italia. Il primo periodo una volta trasferiti definitivamente in Italia, per mia madre è stato particolarmente duro: la realità cittadina, le abitudini erano completamente diverse e il clima non aiutava di certo. Lucia veniva considerata da tutti la “Straniera”, la “Foresta” e complice il suo temperamento molto timido non era riuscita a coltivare delle amicizie al di fuori dei rapporti familiari. La famiglia di Mario aveva accolto Lucia con un immenso amore e le è stata sempre di sostegno. Nonostante questo, mia madre ha sempre vissuto un’intera via sospirando per la nostalgia della sua patria.

 

E per voi figli com’è stato avere i genitori così profondamente legati ad un paese lontano?
Credo che questo legame così profondo sia stato trasmesso anche a noi fratelli. Infatti, alcuni di noi negli anni sono stati a vistare i luoghi dove è cresciuta la mamma e dove i nostri genitori si sono conosciuti. Io a 28 anni sono stata per circa un mese perché sentivo crescere in me il desidero di vedere personalmente i luoghi della giovinezza di mia madre. Quando ho deciso di intraprendere questo viaggio dentro di me sentivo proprio un bisogno, una nostalgia.

 

Voi figli avete imparato lo spagnolo?
Purtroppo, no. Qui a Belluno, a casa dei genitori di mio padre, si parlava il dialetto e Lucia, con la sua indole timida, ha preferito adeguarsi e parlare questa lingua. Utilizzava la lingua spagnola solo per parlare con Mario e con noi figli. Io lo spagnolo lo comprendo discretamente proprio per questo motivo, ma non lo parlo e non lo scrivo e me ne dispiaccio molto.

 

E i nonni in Argentina come si rivolgevano a tua mamma?
I genitori di mia mamma parlavano solo in spagnolo ed anche le lettere e successivamente le telefonate erano in spagnolo. In più noi fratelli ricevevamo spesso dei libretti scritti in spagnolo spediti dalla nonna argentina. Abbiamo sempre avuto questa lingua vicino che poi è diventata la lingua del cuore e dell’affetto.

 

In che modo i vostri genitori hanno contribuito a creare questo legame con l’Argentina?
Mia mamma ci raccontava molto della sua vita in Argentina. L’Argentina veniva descritta come un bellissimo paese e quando ci sono andata è stata, per me, un’esperienza meravigliosa: ho ancora oggi il ricordo del colore del cielo e il profumo dell’aria.

Per questo paese, ho sempre avuto un grande legame affettivo.

 

È interessante questo legame che descrivi. Certi posti li senti parte di te anche senza spiegartene il motivo. Anche a me è successo quando sono andata in Argentina. Io non ho particolari legami familiari con argentini, però ho sofferto molto quando l’ho lasciata. È stata la prima esperienza nella quale ho dato più valore alle cose positive che a quelle negative e queste ultime ho saputo apprezzarle ed ero in qualche modo contenta che fossero successe. Credo sia l’unico posto al quale non riesco a staccarmi.
Certo, lo capisco. Penso sia anche per le relazioni che hai instaurato con le persone lì. Qui siamo più isolati rispetto a loro e penso che il clima detti molto sull’aspetto comunicativo delle persone. La gente di montagna è generosa e affidabile, ma non ha lo stesso carattere degli argentini. Ad esempio, mia cugina è tornata in Italia dopo 30 anni che non la vedevo, ma era come se l’avessi lasciata il giorno prima.

 

Vuoi raccontarmi qualcosa anche dei tuoi parenti in Perù?

Erano due fratelli del nonno che sono partiti dal Cadore, prima della guerra. Hanno fatto fortuna e si sono stabiliti a Lima dove vivono tutt’ora le loro rispettive famiglie. I loro figli sono venuti in Europa in più occasioni. Nei loro viaggi sono sempre venuti a Belluno a trovare mio padre e assieme si sono recati in Cadore in visita ai cugini.

 

Giulia Francescon

 

 

 

Grande interesse da parte degli studenti del “Renier” per il Centro studi sulle migrazioni “Aletheia” presentato all’interno di un progetto di Dolom.it

Dolom.it è il primo museo virtuale del paesaggio dolomitico, composto da materiali digitali co-creati da centinaia di studenti, professori, associazioni e appassionati di cultura, storia e ambiente del territorio dolomitico. Un museo che racconta il paesaggio attraverso gli occhi dei suoi abitanti e permette loro di studiarlo, reinterpretarlo e sentirlo proprio impiegando media e percorsi di rielaborazione espressiva dalla parola scritta alla performance teatrale. Nel 2017 il museo virtuale ha promosso la prima edizione di Invasioni Digitali Dolomitiche, stimolando il pubblico a promuovere delle vere e proprie “invasioni organizzate” di musei, centri storici e itinerari naturalistici che hanno portato il paesaggio dolomitico al centro della vita quotidiana grazie all’attività sui social network.Il corso più recente, partito nel febbraio del 2018, coinvolge due classi dell’istitituto Renier  e prevede la valorizzazione di un sito estremamente importante per la storia medievale della Valbelluna: il castello di Cor.I ragazzi, dopo un inquadramento storico comune sull’Alto medioevo in Valbelluna, divisi in due gruppi, si sono concentrati sull’elaborazione di una invasione digitale del castello di Cor da una parte e sul ruolo degli archivi come poli di conservazione e fruizione del nostro patrimonio culturale dall’altra. In particolare il secondo gruppo è stato portato a riflettere sul ruolo fondamentale che le nuove tecnologie hanno per l’elaborazione di una strategia di valorizzazione del nostro passato. È in questo contesto  che si è inserito il direttore dell’Associazione Bellunesi del mondo Marco Crepaz che su invito dello storico Jacopo De Pasquale ha presentato agli studenti il Centro studi sulle migrazioni “Aletheia”,  che si occupa di archiviare on line e di rendere fruibile in tutto il mondo i ricordi e le vicende di tutte le famiglie bellunesi emigrate all’estero. Una presentazione che ha riscontrato grande interesse da parte degli studenti, tanto da rendersi subito disponibili a dare il proprio contributo per arricchire lo stesso archivio con materiale fotografico personale riferito ai loro parenti emigranti all’estero. Finita questa interessante presentazione i ragazzi si sono allenati ad archiviare in un ambiente di test una serie di materiali relativi al castello di Cor seguendo alcuni standard di catalogazione in uso in questo momento nel mondo. Il percorso, che continuerà anche nei prossimi mesi (conclusione giugno 2019), porterà gli studenti a creare un percorso di valorizzazione museale nel digitale del  castello di Cor volto a dare nuovo lustro ad uno dei siti più importanti ma meno conosciuti dal grande pubblico della nostra storia.

Il Centro studi sulle migrazioni “Aletheia” si presenta agli studenti del “Renier”

Non sempre un archivio deve essere visto come un luogo polveroso e noioso. Il Centro studi sulle migrazioni “Aletheia”, il nuovo strumento dell’Associazione Bellunesi nel Mondo, vuole proprio eliminare questo cliché e lo farà martedì 19 marzo al Liceo statale “Renier” di Belluno. L’incontro, organizzato dalla Isoipse con la collaborazione dello storico Jacopo De Pasqule, ha l’obiettivo di presentare agli studenti un innovativo archivio fotostorico (Centrostudialetheia.it), che sta divulgando attraverso il web migliaia di documenti inerenti l’emigrazione bellunese. Il progetto sarà presentato dal direttore Abm Marco Crepaz.

«Sono davvero felice che il nostro nuovo archivio fotostorico entri nelle scuole», sono le parole del presidente Abm Oscar De Bona, «e sono convinto che da questo incontro nasceranno nuovi interessi verso un periodo storico, quello dell’emigrazione, ancora poco conosciuto e studiato».

Da Belluno alle grandi città: il coraggio e la forza delle nostre balie

Sono state recentemente caricate una serie di fotografie che ritraggono le nostre balie bellunesi assunte da famiglie (solitamente facoltose) con il compito di accudire i bambini di queste Aletheia_Balie_86ultime. Il fenomeno baliatico comprende due realtà simili, ma differenti: vi era la balia da latte la quale, appena diventata mamma, partiva per allattare il bambino della famiglia presso la quale avrebbe svolto il suo lavoro. Il contratto poteva durare un anno o un anno e mezzo a seconda delle esigenze del bambino. Come requisiti, la balia da latte, oltre ad aver appena partorito, doveva essere di corporatura robusta e sana per non trasmettere malattie al bimbo. La seconda realtà è la balia asciutta il cui compito era di accudire i bambini, ma non di allattarli. Le cause che spingevano queste donne ad intraprendere l’attività di balia potevano essere molte, in primis la necessità di sostenere economicamente la propria famiglia. Qualunque fossero le motivazioni, il trauma e il dolore di dover abbandonare il proprio figlio per crescere un’altra creatura erano notevoli.

Durante questa curiosa ed interessante ricerca, si conosceranno varie donne tra le quali Teresa Zampieri, di Limana e Palmira Centeleghe, di San Gregorio nelle Alpi, entrambe trasferitesi a Milano negli anni ’30. Si incontreranno altri esempi come Vittoria De Min (di Sossai) e Lucia Camo (Capraro) entrambe assunte a Torino rispettivamente negli anni ’30 e negli anni ’20. Anche Elvira Capraro esercitava la sua professione a Torino negli anni’ 30 e negli stessi anni Genoveffa Bortoluzzi lavorava a Milano, mentre Maria Cibien a Padova. Maria Corso (originaria di Seren del Grappa) era balia anch’essa a Milano, ma negli anni ’10, mentre Angela D’Incà aveva trovato occupazione a Verona la decade successiva. Molte fotografie qui caricate ritraggono le balie assieme ai bimbi che accudivano, ma si troveranno anche immagini di ritrovi delle balie bellunesi e dediche da parte delle famiglie e dei bambini presso le quali la balia aveva svolto il suo mestiere. Queste ultime sono testimonianze che dimostrano il legame affettivo che si poteva creare ed instaurare da entrambe le parti.

Da non tralasciare come spunto di riflessione sono l’epoca del fenomeno baliatico e le umili origini delle balie che provenivano da paesi molto piccoli per prestare servizio in realtà più moderne e grandi di Belluno.  Impossibili da non notare sono gli sguardi di queste donne: se in alcune foto sono più sorridenti forse per mantenere un certo decoro e una certa posa durante lo scatto, in alcune sembrano quasi assenti probabilmente distratte dal pensiero e dal ricordo del loro bambino naturale che avevano dovuto lasciare.

L’annata 1969 della rivista “Bellunesi nel mondo” è stata caricata

La sezione “documenti” del Centrostudialetheia.it si arricchisce con l’annata 1969 della rivista “Bellunesi nel mondo”. Dodici numeri che parlano della provincia di Belluno, di una serie di aziende pronte a essere realizzate. Di un investimento sulla scuola con la costruzione dell’Istituto Tecnico di Pieve di Cadore. Non mancano le battaglie per la tutela dei malati di silicosi e la cronaca dei numerosi incontri delle “fresche” Famiglie bellunesi da poco costituite.