La figlia di Festus

di Giacomo Alpagotti

Ogni tanto riguardo le fotografie dei posti dove ho vissuto nel mio peregrinare per lavoro. Una in particolare mi riporta alla mente tanti ricordi: la foto di una bambina nigeriana, la figlia di Festus Parlamonte.

Festus era l’impiegato dell’officina, registrava e teneva in ordine i carteggi delle comande e dei lavori eseguiti. Lo conoscevo da quando ero arrivato al Terminale di Brass.

Ogni tanto parlavamo e mi raccontava che c’erano dei giorni in cui la sua famiglia non aveva nulla da mangiare. Un giorno mi raccontò che il figlio più vecchio si era messo a mangiare terra. Il suo datore di lavoro a volte ritardava anche mesi con la paga.

Io a tutte queste storie non davo molto peso. Tra me dicevo: «È il solito sistema per spillare quattrini». A volte gli davo qualche naira, ma non credevo del tutto a quanto mi raccontava.

Poi, quando iniziarono i montaggi su una piattaforma a quaranta chilometri dalla costa, l’ufficio manutenzione mi delegò come tecnico in aiuto al personale del montaggio. Il mio compito era quello di procurare il materiale per l’esecuzione dei lavori, nel magazzino centrale o nel mercato locale di Port Harcourt.

Quando finirono i lavori di montaggio, tutta la squadra sarebbe rientrata in Italia. Non essendo mai stati a terra, non avevano nessun ricordo da portare, così mi chiesero se da Brass riuscivo a procurare loro dei tronchetti dell’albero della felicità. Chi mi sarebbe stato d’aiuto a tale scopo? Pensai subito a Festus.

Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno l’elicottero mi scaricò a Brass. In officina trovai Festus e gli spiegai quale fosse il mio problema. Lui mi disse: «Questa sera dopo le cinque vieni a prendermi a casa mia e assieme vediamo di recuperare quanto ti serve».

D’impulso, rendendomi conto che molto probabilmente quel giorno non avevano mangiato niente, nel piccolo negozio lì vicino comperai un po’ di biscotti…


In attesa che arrivasse l’ora, mi ritirai in camera mia e iniziai a pensare a tante cose, tra queste anche a Festus. Era una persona mite, sempre disponibile ed educata.

All’ora stabilita, mi recai da lui. Quando Festus uscì di casa, assieme uscirono i suoi familiari, moglie e figli. Quando vidi i figli, rimasi colpito per la loro magrezza. Mi sembravano due cerini, con la testa grossa e il corpo sottile.

Non ebbi parole. Nel mio intimo mi vergognai di me stesso per non aver mai prestato fede a quanto Festus mi raccontava e come uomo provai una profonda pietà per quella famiglia.

D’impulso, rendendomi conto che molto probabilmente quel giorno non avevano mangiato niente, nel piccolo negozio lì vicino comperai un po’ di biscotti, ma non volli comperare tante cose, anche per non umiliare la famiglia.

Il recupero dei tronchetti fu una cosa abbastanza semplice. A Festus quella sera diedi qualche naira. Il mio pensiero fisso era cosa potevo fare per aiutare la sua famiglia.

Decisi così di portargli la mia prima colazione. Dalla mensa, preparai una bella pila di pane con burro e marmellata e diverse uova sode. Quando Festus le prese quasi gli venne da piangere e mi disse: «Con questo noi mangiamo sia per pranzo che per cena». Poi gli chiesi quanto fosse l’ammontare del suo salario e mi disse che erano duecento naira al mese.

Gli dissi che gliele avrei date io. «Finché mi sarà possibile te li darò, così anche se il tuo datore di lavoro non ti paga potrai essere tranquillo».
Continuai ad aiutarlo fino al mio rientro definitivo in Italia.

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