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Il santaro Toni Triches

Furono molte le famiglie Triches di origine bellunese a partire alla volta del Brasile: tra loro anche Antonio, classe 1866, che divenne famoso in terra gaucha come scultore di arte sacra. Figlio primogenito di Vittore e Anna Mara Roldo, egli nacque a Sospirolo, ma prima di partire per il Sud America si trasferì più volte con la famiglia tra la Sinistra e la Destra Piave; a quattro anni subì la perdita del padre e dopo qualche tempo la madre si risposò con Giacomo Triches e allargò la famiglia con altri quattro figli.

Partirono tutti per Alfredo Chaves, nel Rio Grande do Sul, nel dicembre 1891, imbarcandosi a Genova sul vapore Orione. Nella città riograndese, oggi chiamata Veranópolis, Antonio si sposò due volte: la prima con Maria Ganzer, che morì nel 1909, e la seconda con Rosa Barratieri, che gli diede tre figli: Genarino Gentile, Adão Candido ed Eva Maria. Antonio morì a soli cinquantaquattro anni, il 22 giugno 1920. Nonostante la sua breve vita, Antonio Triches lasciò una vasta testimonianza della sua arte: sono moltissime infatti le chiese di Veranópolis e dei comuni limitrofi che possiedono ancora oggi crocifissi e statue fatte da questo santaro.

Con questa parola, che fa parte del taliàn ed è tramutata dal portoghese santeiro, si intende uno scultore di santi amatoriale, dotato artisticamente, ma senza una grande conoscenza teorica. I santari producevano perlopiù lavori spontanei e su commissione per l’abbellimento di capitelli e chiese; le facce dei santi non differivano molto tra di loro, ma erano gli indumenti ed altre caratteristiche che determinavano la loro identità: Sant’Antonio veniva raffigurato con il maialino, Santa Caterina veniva abbinata alla ruota di un mulino, solo per citare due esempi.

Antonio Triches abitava in una casetta di legno poco distante dal seminario di Alfredo Chaves. Era piuttosto basso di statura e tarchiato ed era solito portare gli occhiali appoggiati sulla punta del naso. In tasca aveva sempre la scatolina del tabacco e vicino a sé una bottiglietta di grappa. Era solito mettersi a lavorare davanti alla sua casa, al sole e senza alcun copricapo. Come tavola di lavoro aveva il tronco di una grossa pianta. Nel cortile della sua casetta aveva sempre tronchi e pezzi di legno, che poi squadrava con l’accetta. Lavorava soprattutto legno di cedro. Aveva il banco pieno di seghetti, scalpelli, trapani, chiodi, brocchette, martelli. Sui ripiani aveva colori, acquaragia, olio di lino e pennelli di tutti i formati e grandezze. Aveva poi carte, quaderni, libri di figure di madonne, santi e crocifissi, che gli servivano per ispirarsi.

Si dice che, una volta terminata l’opera, lui l’abbia guardata con stupore dicendo: «Óstia, go fato el diàolo pi bel che’l santo».

Dietro la sua casa aveva il pollaio e quando erano le dieci del mattino cercava un uovo fresco e lo beveva crudo, accompagnato da qualche sorso di acquavite. Venivano da lui anche da località lontane e gli chiedevano la statua di questo o quell’altro santo. Fu Toni Triches a scolpire la statua di San Giorgio che sconfigge il drago, presente nell’omonima cappella di Veranópolis. Questa costruzione, eretta in legno dai coloni già intorno al 1893, fu ristrutturata in pietra nel 1907, dopo un anno di miseria e fame dovute a un’invasione di cavallette.
Si dice che, una volta terminata l’opera, lui l’abbia guardata con stupore dicendo: «Óstia, go fato el diàolo pi bel che’l santo».

La cappella di San Giorgio, a Veranópolis, che custodisce la statua scolpita da Triches.

La chiesetta, che vede la presenza di altre statue in cedro scolpite da Triches, è tuttora un importante punto di riferimento della fede e della lotta degli emigranti italiani e dei loro discendenti. Una sera, durante un brutto temporale, Triches andò a bere un paio di bicchieri nell’osteria di Giuseppina migrante, ad Alfredo Chaves. Stava giocando a briscola coi suoi compagni, quando cadde a terra, vittima probabilmente di un infarto. Cercarono di rianimarlo, ma non ci fu niente da fare.

Aveva già preparato la sua tomba e aveva scolpito un angelo di cedro, alto circa ottanta centimetri, chinato su un ginocchio solo, col braccio dritto e il dito che indica il cielo; sull’altra mano, un libro aperto con la scritta RIP. La statua rimase sulla tomba del santaro bellunese Antonio Triches una cinquantina d’anni.

Luisa Carniel