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Le storie di Mario: la testimonianza di un bellunese a Buenos Aires

storie_di_marioLe storie di Mario

Mario Giacchetti nasce a Belluno nel 1925. Durante il conflitto mondiale partecipa alla Resistenza e nell’immediato dopo guerra la situazione è difficile per tutti. Lo stipendio del papà (anche se vicedirettore della Banca Cattolica) non è sufficiente per mantenere la famiglia numerosa. Mario, fratello maschio maggiore, decide di compiere un atto importante e difficile per dare una svolta alla vita dei suoi cari e alla sua: emigrare in Argentina. Mario è un combattente e lotta per riscattare la propria esistenza. E scrive lettere alla famiglia e racconti come testimonianze dirette. Perchè scrivere risulta importante per mantenere la memoria di ciò che si è e del nostro vissuto per evitare che si offuschi. Probabilmente per evitare che ciò accada, nel 2014 i figli di Mario decidono di commemorare il padre raccogliendo le sue testimonianze e le sue storie in un unico libro, Le storie di Mario. La sezione dedicata all’Argentina è breve per un’esperienza così grande durata all’incirca 7 anni. Dalla lettura e dalla scelta delle parole utilizzate, si può dedurre che Mario avesse un certa cultura e che essa avesse un certo peso nella sua vita. Purtroppo, nel dopoguerra essere colti conta poco: l’importante è mangiare e nonostante Mario abbia un diploma di perito edile, rinascere dopo il conflitto mondiale a Belluno (realtà ancora abbastanza “primitiva” rispetto ad altre città) è molto difficile. Lui stesso scrive “le prospettive, nell’immediato dopo guerra, di trovare lavoro erano quanto mai scarse e così (…) mi candidai all’emigrazione organizzata per l’Argentina” e ammette di accettare con una certa tranquillità di partire con un contratto da muratore. Dev’essere stata una scelta difficile, ma indispensabile: nessuno emigrerebbe dall’altra parte dell’oceano da solo e senza nessuna garanzia se non per disperazione. Nel momento della separazione dalla famiglia, Mario sa benissimo che quei saluti dati tempi e le circostanze, potevano benissimo essere gli ultimi. Può essere un arrivederci o un addio. Questa incertezza rende il viaggio e la partenza un po’ “per sempre”.
A Genova lo aspetta il piroscafo Tucumán organizzato per i migranti e Mario non può non notare “(…) l’amarezza e l’umiliazione della bonifica di massa. Due alla volta nelle cabine doccia dei bagni pubblici, simili ad una nera ferriera fumante”; anche la visita medica crea un certo imbarazzo, “tutti nudi come vermi”. Le sue parole trasmettono l’idea e la sensazione che i migranti siano merce di scambio o oggetti e non persone: “la Commissione argentina fece certo il suo lavoro, ma la dignità ed il pudore di molti non parvero interessarla per nulla”. Il viaggio dura 17 giorni, confinati in spazi ristrettissimi: nonostante l’oceano e il piroscafo siano una novità che regalano anche uno spettacolo indimenticabile del tramonto e del gioco dei delfini, per Mario è una traversata solitaria e si ritrova a far fronte anche al mal di mare e al movimento del piroscafo che fa uscire la minestra dai piatti. Inoltre, “un odore nauseabondo di cucina misto alla puzza di nafta, bloccava il respiro e lo stomaco (…)”. La preghiera, perciò, diventa una necessità per sconfiggere la nostalgia grazie alla presenza di un sacerdote o durante la notte da solo in coperta. Anche le foto nel taccuino dei familiari aiutano. D’altra parte bisogna aggrapparsi a qualcosa per sopravvivere. Di notte, “la luna avvolgeva quel misero punto luminescente qual era il bastimento in viaggio col suo carico d’umanità”.
All’arrivo a Buenos Aires lo sconvolgono i violenti riflessi del Rio de la Plata. Un gruppo di scout lo aiuta e gli offre un alloggio temporaneo. Nella prima visita alla città, lo scontro con una metropoli è inevitabile: “le auto silenziose e grandi, le strade lisce e scure pavimentate, e lo seppi dopo, i negozi con tante merci, mi fecero pensare all’inizio di un qualcosa inconsueto ed interessante”. Nella periferia di Buenos Aires, Villa Urquiza, entra con i suoi compagni in un cantiere appena messo in moto. La speranza di un buon inizio sfuma immediatamente: “l’alloggio fu traumatizzante. Capannoni di trecento persone di lamiera ondulata. Enormi, con sole porte. Di giorno, sotto il sole, diventavano dei forni. Letti, come il solito, a castello, ma il ferro arrugginito, con reti metalliche sfondate e con dei materassi che, poco dopo, furono bruciati perchè invasi da cimici”. Un luogo così ristretto e la precarietà dell’igiene favoriscono la dissenteria. La polizia gira di notte svegliando con la torcia chi dorme. Ma questo non è nulla in confronto alla nostalgia, il nemico numero uno da combattere. Mario ritorna a buttarsi nella preghiera, in Dio e nella conoscenza di nuove persone, nonostante rifiuti alcune occasioni di amicizia in quanto “(…) fare delle amicizie significava frapporre ostacoli al mio ritorno in Patria”. Un punto di riferimento sono i religiosi dell’Opera Cardinal Ferrari, ma per raggiungerla Mario, non abituato, deve imparare ad un usare il tram. Le prime lettere della famiglia arrivano per smussare un po’ la nostalgia. Eliseo, un cugino del papà, e Fernando e Fosca lo invitano nelle loro rispettive case. Anche nel lavoro la situazione non parte bene: Mario comincia come muratore, ma vuole che il suo diploma valga qualcosa anche in Argentina. Per questo fa prevalere il suo coraggio e la sua determinazione: riesce ad entrare nella Direzione Lavori per poi lavorare più autonomamente. In più, ottiene la possibilità di affittare un stanza appena fuori dal cantiere e, benché non offra i servizi di una vera casa, Mario ha finalmente un letto degno di essere chiamato tale. Inoltre, inizia a studiare spagnolo, lingua che imparerà benissimo. Pian piano, accresce le sue conoscenze: Mario incontra per caso Jorge Frumento con il quale instaura un fortissimo legame che rimarrà saldo anche a distanza di anni. Così, Mario esce dalla routine lavoro-casa: innanzitutto, Jorge lo sposta in un’altra mensa più pulita (“ricordo ancora il piatto di tagliatelle servitomi per la prima volta….Buono!”) e lo fa entrare nella sua cerchia di conoscenze. Jorge è il primo amico con il quale Mario si sente libero di esternare i propri stati d’animo in un paese dove è solo: ” L’america io non la farò, ma se è vero, com’è vero, che chi trova un amico trova un tesoro, il tesoro io l’ho trovato e «l’America» l’ho fatta”. Sebbene i familiari e gli amici di Jorge non conoscano tutti bene l’italiano, Mario scrive: “è evidente che, quando c’è sintonia di sentimenti, gli ostacoli sono superati e ci si intende perfettamente”. Grazie a Jorge, Mario conosce Lucia la futura moglie, nata in Argentina, ma di origine italiana, con la quale successivamente tornerà in Italia dove vivranno tutta la vita.

Nelle pagine seguenti, Mario racconta singoli episodi della sua avventura in Argentina, ma ugualmente importanti se sono stati trascritti. Un racconto toccante e pieno di significato si intitola Chi era? scritto nel 1950. In un viaggio in autobus, Mario si trova incastrato vicino a un uomo piuttosto basso. Di lui non può non notare la sua sporcizia, la sua puzza che provoca in lui ribrezzo tanto da non osare sfiorarlo e la sua condizione quasi gli fa vergogna. Una volta sceso, una voce dentro di Mario smuove il suo animo: “ti è passato accanto e non l’hai riconosciuto (…) perchè hai visto solo il berretto, solo il fazzoletto, solo il suo sudiciume? E lui, Lui, non lo hai visto? Non lo hai notato Lui pure ha un mondo (…) Che cumulo di crucci aveva forse in lui. Quali idee geniali, forse, potrebbero scaturire da quella testa (…) Perchè non l’hai conosciuto? Anche tu hai tante cose nell’animo. Tu le conosci le tue. Le sue no. Sai solo che non era pulito; ma non era che un fratello; forse russo dagli occhi, dai capelli; forse indio dalla pelle; ma tuo fratello era, Mario. Un tuo fratello”. Mario non spiega il significato di questa breve lettura… si può, però, intuire che delle volte il nostro arricchimento e la nostra ascesa sociale possono portare alla discesa della nostra umanità. D’altra parte lui stesso a Belluno era povero, quindi perchè umiliare un altro essere umano? Diventa necessario difendere la nostra umanità e umiltà. Mario sembra, perciò, fare dentro di sé un lavoro per non lasciare che queste due qualità vengano corrotte.

In un’intervista, la figlia Maria racconta che le cose in Argentina, dal punto di vista lavorativo, non andarono esattamente come il papà sperava e per questo decise di ritornare in Italia. Per tutta la vita, Mario ha sempre pensato alla sua amata Argentina, per lui la terra dell’affetto e delle amicizie. Come lui stesso ha affermato, Mario “l’America l’ha fatta”, ma dentro di sé grazie agli intrecci di relazioni con le persone che lì ha conosciuto, alle amicizie, all’amore per la cultura di questa terra che l’ha ospitato, passione che ha anche trasmesso ai figli. Quindi, perchè non scrivere un’avventura così importante e indelebile? Le memorie iniziali riguardo l’arrivo in Argentina sono state messe per iscritto 53 anni dopo (circa nel 2001), mentre gli altri racconti sono datati 1950. Si ritorna, perciò, al discorso già accennato al principio di quest’articolo: la scrittura diventa necessaria per mantenere la memoria principalmente per noi stessi. Tantissimi sono coloro che dopo una vicenda negativa o positiva hanno sentito il bisogno di mettere per iscritto i sentimenti, le emozioni, i fatti. Per non dimenticare e forse per riordinare i ricordi, renderli tangibili sulla carta e vederli concreti. Perchè sono leggeri e basta poco per farli volare via. Mario inizia i suoi racconti sull’Argentina così: “Ripensare, vincendo varie titubanze, avvenimenti di tanti anni prima, è un riviverli, un rituffarsi in quello che è stato e non si ripeterà. Ma sono fatti, circostanze, stati d’animo, emozioni che segnano in profondità la mente ed il cuore, in modo indelebile, di chi li ha vissuti”. È un inizio che fa anche capire il forte legame con questo paese oltre oceano. A Mario, perciò, la scrittura sembra necessaria: “penso di voler limitare queste note solo a me stesso, giacchè desidero e posso considerare un tratto di vita che m’appartiene e mi vede protagonista, molto spesso solo ed isolato. L’obiettività e la rigorosa esposizione non so fino a che punto possano essere ben aderenti alla realtà ed equilibrate. A distanza di 53 anni e più anni esiste il rischio d’aver deformato, inconsciamente, il ricordo del passato e d’averlo interiorizzato lasciando emergere qualcosa più di altro. Perchè lo faccio? Non lo so. L’ordinare i ricordi di un certo periodo vissuto a volte con rabbia, altre pervaso di misticismo o incertezze, mi sollecita, quasi a fare un bilancio d’una partita di cassa”.
Ovviamente i ricordi, purtroppo, diventano meno nitidi con il passare del tempo: molte cose, i fratelli Giacchetti, tra cui le date precise le hanno dimenticate. La figlia Maria, infatti, lamenta di non aver scritto i racconti di genitori e nonni: se l’avesse fatto non sarebbero svaniti. Per lo meno restano questi ricordi del papà. E forse per evitare di dimenticare anche questi, i fratelli Giacchetti hanno sentito la necessità di raccogliere gli scritti del padre in un libro per vederli tangibili. È un modo per rivivere la memoria del papà in ogni pagina ed in ogni parola, tutto scritto di suo pugno. E non a caso nella prima pagina, riportano una citazione come dedica “è il ricordo che costituisce l’essere umano… e le parole sono le tracce che lasciamo dietro di noi” (Susanna Tamaro).

Giulia Francescon