Saldatore in Medio Oriente e in Svizzera
di Enrico De Col
Saldatore in Medio Oriente e attivo anche nella comunità italiana in Svizzera. È questa la storia del longaronese Albino Sacchet. Nato nel 1932 nella frazione di Podenzoi e mancato nel 2018, è una figura che ha dato tanto all’emigrazione bellunese.
«Negli anni cinquanta – racconta la moglie, Anna Maria Sacchet – il lavoro nel Bellunese era poco e molti andavano all’estero. Mio marito aveva mandato domanda di lavoro in varie zone del mondo ricevendo risposte favorevoli dall’Australia (ma secondo lui era troppo lontana) e dal Canada (diceva che c’era troppo freddo). Il cugino Giuseppe Sacchet lo ha chiamato per lavorare con una ditta. Ha fatto un corso di inglese per tre mesi a Longarone con il maestro Giuseppe De Vecchi. Lui era un uomo di larghe vedute, imparava le lingue in pochissimo tempo, anche arabo, francese e poi tedesco. Era curioso e non aveva paura di accettare sfide anche in luoghi molto diversi dall’Italia.
Ha lavorato dal 1956 al 1958 in una cementiera in Iraq, poi è dovuto andare via per problemi politici, dato che nel Paese era scoppiata la rivoluzione. Dopo un ritorno a casa, mi ricordo il suo arrivo alla sagra di Codissago, la nuova avventura con la ditta Gein di Udine nella primavera del 1959. A Gerusalemme ha contribuito a restaurate la cupola della famosa Moschea di Omar.
Dopo che ci siamo sposati, nel 1960, ci siamo trasferiti in Svizzera, dove ha lavorato per una fabbrica di vagoni di treni. Siamo stati prima in Ticino, poi a Winterthur, nel Canton Zurigo. In Svizzera siamo rimasti fino al 1994, ma tornando ogni anno, o quando possibile, in villeggiatura a Longarone, dove abbiamo una casa in zona Pians. Eravamo via quando abbiamo appreso della tragedia del Vajont.
Io in Svizzera ho dato una mano come domestica nelle famiglie locali. È stata dura, perché non sapevamo bene la lingua. Gli italiani non erano ben visti, alcuni politici nazionali facevano anche una campagna discriminatoria nei nostri confronti. I residenti parlavano il tedesco usando il dialetto di Zurigo per non farsi capire. Anche per entrare nelle case private, salvo chi ci lavorava, c’erano difficoltà. Nonostante tutto, ci siamo aiutati a vicenda tra emigranti e con il tempo ci siamo integrati e ci siamo fatti ben volere dalle famiglie della zona. Nel tempo tante signore della zona venivano da me a confidarsi e io ero sempre pronta a dare loro consiglio.
Mio marito ha sempre aiutato gli italiani in Svizzera ad apprendere il mestiere di saldatore, insegnando nelle scuole di formazione professionale. Aveva la capacità mentale di passare dal disegno di un progetto alla sua realizzazione concreta. Con l’avanzare di età e carriera, la ditta gli aveva proposto una mansione meno impegnativa fisicamente, in ufficio. Era stimato da tutti e apprezzato per il suo impegno. Lui però non ne voleva sapere di stare seduto dietro a una scrivania: voleva essere sul campo e vedere quello che aveva contribuito a costruire. In tanti anni di permanenza in molti gli hanno chiesto: “Perché non si fa Svizzero?”. “Il mio sangue è sempre italiano”, questa è sempre stata la sua risposta».