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Cròmere e Nèrte: donne da soma

Cromera

La chiamavano Mariéta Pasànega (1).
Mariéta era il diminutivo dialettale di Maria, Pasànega il soprannome che, un tempo, veniva spesso appiccicato o sostituito al cognome anagrafico per distinguere una famiglia da un’altra, data la frequente omonimia che caratterizzava gli abitanti dei piccoli borghi di montagna e non solo. Questi soprannomi potevano derivare dal nome proprio del fondatore della famiglia, dal mestiere esercitato, da una caratteristica fisica o di costume, dal toponimo del luogo di provenienza e così via.

Mariéta era una donna piccola e, all’apparenza, gracile; figura che celava però una forza e una tenacia non comuni, tipiche delle montanare. Rimasta vedova, per mantenere la famiglia esercitava il mestiere di Cròmera (2). Partiva a inizio settimana caricandosi sulla schiena la cassèla (3) piena di articoli di varia merceria che non è azzardato dire pesasse quanto lei, e si inoltrava a piedi in direzione della vallata agordina. Faceva ritorno nel fine settimana; nel frattempo, i figli erano custoditi e accuditi dalla loro sorella maggiore poco più che dodicenne.

Mariéta, verso la quale chi scrive ha un legame di “affinità” (4), è lo spunto per tratteggiare due figure femminili (sebbene il genere non sia esclusivo), la Cròmera, appunto, e la Nèrta (5), unite da un comune percorso di dura peregrinazione.

Il secco titolo del libro “Furono sempre le donne a portare” (6) appare eccessivo, ma è indubbio che la donna abbia dovuto caricarsi sulle spalle, in senso non solo metaforico, pesi assai ardui da sostenere. Basti pensare al sistema di trasporto imposto dalla morfologia del nostro territorio, dove a dominare erano il pendio e la carenza di strade rotabili e toccava quindi a schiena e spalle portare la dhèrla (7), la crazh (8), la fièrcla (9) per vincere la forza di gravità, calpestando un suolo spesso accidentato e infido. E cominciavano da giovani, troppo giovani, a portare carichi eccessivi, che non di rado lasciavano segni duraturi sui fragili fisici ancora in formazione (gambe storte, scoliosi, deformazione del bacino).

Ci occupiamo qui solo di Cròmere e Nèrte in quanto figure emblematiche di una singolare forma di emigrazione, in genere a breve raggio (ma non sempre) e temporalmente contenuta (ma non sempre), che potremmo definire “fuoriporta”. Non si tratta di un’emigrazione “minore”, perché ogni forma si porta appresso il proprio stigma, le proprie spine, ed è dettata da una comune motivazione di fondo che ha le sue radici in una condizione socioeconomica inadeguata. L’emigrare è un’opzione, sia che nasca da una necessità, com’è per lo più avvenuto, sia che punti a un traguardo di auto-affermazione.

Il fenomeno in questione, nato dall’esigenza di integrare il magro reddito dell’agricoltura locale, assunse prevalentemente il carattere della stagionalità. Non sono mancati, tuttavia, casi in cui i protagonisti, in questo caso maschi, hanno raggiunto traguardi importanti, soprattutto all’estero, divenendo titolari di negozi e attività commerciali di rilievo.
Si tratta di un fenomeno endemico delle valli alpine, dove il terreno coltivabile era insufficiente in termini di estensione, fertilità e condizioni climatiche, ad assicurare il necessario per vivere e quindi, quando anche la pastorizia transumante andò in crisi in seguito ai crescenti divieti a far svernare le greggi in pianura, bisognò escogitare qualcosa di nuovo, di alternativo.

Una rapida disamina dell’”ambulantato” commerciale del Triveneto ci fa conoscere la geografia e la specificità del fenomeno. Citiamo qualche esempio. Nel Tesino, la riconversione portò gli abitanti, in questo caso quasi esclusivamente maschi, a commercializzare dapprima le pietre focaie (soprattutto per gli archibugi) e poi le stampe sacre e profane dei Remondini di Bassano.

Nel confinante altopiano di Lamon l’attività cominciò con la vendita delle penne d’oca per proseguire con l’attività di cròmer e cròmere. In Carnia, il fenomeno dei venditori ambulanti (Cramars) ha radici antiche. Iniziato in forma stagionale per poterlo conciliare con i lavori agro-silvo-pastorali, è andato via via consolidandosi, espandendosi nell’oltralpe (Austria) e nella Mitteleuropa, assumendo non di rado carattere di stanzialità (negozi e ambulantato locale) (10).

Nella zona di Erto e Casso e nella Valcellina, sono in prevalenza le donne (Nèrte) a svolgere l’attività di venditrici itineranti, proponendo attrezzi per la casa confezionati dai vecchi e dai giovani (gli adulti sono per lo più impegnati in altre forme di emigrazione) durante la stagione invernale.

Cromera

Le Cròmere.

“E lóra, par darte na idèa mi è girà, mi è patì fam, mi è patì frèd, mi è patì mói, mi è combatù coi òmeni, mi è dormi ante le fóie moie… mi le è passae tüte!” (11)

La testimonianza sopra riportata riassume efficacemente l’esperienza, molto dura e sofferta, di una Cròmera, fatta di fatica, di patimenti, di disagi e di rischi.

Il suo strumento di lavoro era la cassèla, una sorta di cassettiera portatile in cui era riposta con cura la varia mercanzia; c’era anche il modello a fisarmonica che si apriva scoprendo contemporaneamente tutti gli scomparti ed era quindi particolarmente adatto ad esporre le merci in occasione di mercati, fiere, feste patronali che, assieme al porta a porta, facevano parte dell’itinerario tradizionale della Cròmera. Vale la pena rovistare un po’ in questi contenitori per conoscere la tipologia merceologica proposta alla clientela. C’erano articoli di merceria quali spagnolette di filo, bottoni vari, elastici, fettucce, cordoni da scarpe, cinture, tiràche (bretelle), gusèle (aghi per cucire), spille da balia, “uova” di legno da rammendo, ditali ecc.; articoli di biancheria come mutande, fanèle (maglie da sotto), calzini, fazzoletti da naso e da testa, traverse ecc.; materiale per l’igiene e la cura della persona come pennelli da barba, lamette, pettini, brillantina, saponette, specchietti ecc.; oggetti vari quali articoli di bigiotteria, tabacchiere, piccole roncole a serramanico, forbici ecc. (per poter vendere occhiali e arnesi da taglio occorreva aver compiuto 21 anni e avere la fedina penale pulita) (12). Si trattava quindi di una vera e propria boteghéta viaggiante.

Cromera

Oltre al materiale che era possibile allogare all’interno, la Cròmera legava sopra la cassèla la merce più ingombrante come telerie, scampoli di stoffe e qualche semplice capo di vestiario. La cassèla così organizzata raggiungeva a pieno carico un peso ragguardevole che poteva raggiungere i 30 chilogrammi e più ed era quindi assai disagevole, non solo da portare, ma anche da caricarsi sulle spalle e da posare. Il carico, con l’ampio fardello legato sopra la cassèla, sopravanzava alquanto la testa della Cròmera alzando il baricentro dell’insieme e rendendo instabile e difficoltoso l’incedere, specie se il terreno era accidentato. Gli spallacci, di canapa o di cuoio, provocavano sulla convessità mediale delle spalle un solco profondo, solo in parte attenuato dallo spesso bustino di stoffa o di pelle di pecora che, a guisa di piccolo scapolare (13) aperto anteriormente, veniva a tal fine indossato; all’inizio era dura, poi finivano col farci il callo.

Altro indispensabile strumento di lavoro della Cròmera era l’ombrello, che doveva essere particolarmente ampio da riparare sia lei che la cassèla, e soprattutto col manico robusto dovendo fungere anche da bastone di appoggio. Il suo abbigliamento, quale si deduce dalle foto che la ritraggono, era essenziale e votato alla praticità: abito per lo più scuro, traversa, scialle, fazzoletto annodato sulla nuca, scarpe robuste o scarpét a seconda della stagione; in un apposito fagotto teneva l’unico cambio che si portava appresso per alternarlo.

Alla fatica di dover affrontare lunghi percorsi a piedi con il pesante carico sulle spalle per raggiungere le case sparse, specialmente quelle più distanti dai centri abitati forniti di negozi che costituivano la clientela potenzialmente più propensa ad avvalersi del suo servizio, si aggiungevano i disagi di natura logistica e climatica (mi è patì fam, mi è patì frèd, mi è patì mói). I problemi maggiori che la Cròmera doveva affrontare erano quelli dell’alimentazione, del proteggersi dalle avversità atmosferiche e del trovare un posto in cui pernottare. Per alimentarsi doveva spesso affidarsi al buon cuore di qualche famiglia che la ristorava con quello che aveva, una fetta di polenta, un piatto di minestra o poco altro (dalle case dei contadini nessuno usciva a mani vuote) e le permetteva di trascorrere la notte, a seconda della stagione, nella stalla o sul fienile. La Cròmera, per gratitudine e per orgoglio, non mancava di compensare il suo temporaneo anfitrione con qualche oggetto del suo piccolo bazar itinerante.

Il passaggio, citato in apertura, che recita “mi è combatù coi òmeni”, sottintende le insidie che una donna, specie se da sola, poteva incontrare da parte di qualche malintenzionato, sia per quanto riguarda la sua integrità fisica, sia per quanto concerne l’essere derubata del denaro guadagnato o della merce trasportata.

Cromere

Fra la Cròmera e la sua clientela si instaurava un rapporto di fidelizzazione che la vedeva passare con puntualità “calendariale” presso le stesse famiglie, cui non solo vendeva la merce che si portava appresso, ma raccoglieva anche ordini e desiderata che si premurava di evadere al passaggio successivo, non solo per interesse, ma anche per il gusto di accontentare l’acquirente (a volte, cessata l’attività, la Cròmera continuava a intrattenere un rapporto epistolare con le famiglie a cui si era affezionata). Solitamente le Cròmere non si facevano concorrenza sleale, esisteva una sorta di tacito accordo in cui ciascuna aveva la propria zona di operazione e non invadeva quella altrui.

Il percorso delle Cròmere poteva essere del tipo “fuoriporta” come nel caso di Marieta Pasànega, ovvero limitato a itinerari brevi nel circondario che permettevano frequenti rientri, sia per non stare per troppo tempo lontane dalla famiglia, sia per approvvigionarsi di merce per il viaggio successivo, oppure di lunga durata quando affrontavano percorsi molto distanti da casa. L’ambito in cui svolgevano il proprio lavoro era comunque per lo più circoscritto all’area delle Tre Venezie, anche se non mancarono Cròmere che, in tempi più recenti (inizio ʼ900), si diressero verso la Svizzera, avendo come punto di riferimento emigranti lamonesi che fin dall’800 vi si erano insediati avviando una fiorente attività commerciale. Qui accorsero un buon numero di giovani Cròmere, che, d’intesa con i compaesani presso cui si approvvigionavano e spesso alloggiavano, formarono una rete di distribuzione capillare sul territorio che si rivelò proficua. Il fenomeno si protrasse fin verso gli anni ʼ70 del secolo scorso coinvolgendo, com’era avvenuto per altre figure dell’emigrazione femminile bellunese (ciòde e balie), altri soggetti dell’area parentale e amicale (14).

Cromera

Le Nèrte.
Il lavoro della Nèrta ha molti punti in comune con quello della Cròmera, tipici di questa peculiare forma di emigrazione itinerante: le motivazioni, la tipologia di lavoro, la mobilità, la cultura.

La Nèrta era, come la Cròmera, una venditrice ambulante che si muoveva a piedi e al posto della cassèla indossava la dhèrla (la differenza non è così netta al punto che le due figure tendevano spesso a sovrapporsi, sia come mezzo di trasporto merci utilizzato, sia come merceologia trattata).
Questa figura di venditrice girovaga ha preso il nome dal luogo di origine, il Comune di Erto Casso, ma la si ritrovava anche in altri centri della Valcellina come Claut e Cimolais.

La Nèrta era, per tradizione, la venditrice di utensili di legno da uso domestico. L’ambito territoriale cui qui ci riferiamo è indicativamente quello della provincia di Belluno; anche se le Valli del Vajont e del Cellina insistono geograficamente su territorio friulano, è indubbio che gravitino in maniera rilevante, ancor prima della costruzione della strada di collegamento, sul versante di Longarone e della Valle del Piave. L’altopiano di Lamon, terra di Cròmere, e quello più angusto di Erto e Casso, patria delle Nèrte, presentano entrambi le caratteristiche orografiche dei paesi prealpini e le problematiche che ne conseguono.

Le motivazioni di base che muovevano la Nèrta erano le stesse della Cròmera: necessità di trovare forme di integrazione del reddito che i piccoli e magri appezzamenti, assieme al minuto allevamento, non erano in grado di assicurare alla famiglia. Le Nèrte più giovani puntavano anche a guadagnare il necessario per farsi il corredo da sposa.

Le coraggiose e dinamiche donne di quella landa del Friuli Nord-occidentale non esitarono perciò a caricarsi sulle spalle la pesante dhèrla, colma di oggetti di legno che gli uomini non emigrati, assieme ai vecchi, ai ragazzi più grandi e talvolta alle donne stesse, realizzavano durante il lungo inverno. L’ambiente di lavoro era per lo più la stalla, maleodorante e male illuminata; gli attrezzi usati erano accette, coltelli a petto, pialle, scalpelli, trivelle, roncole e, importantissimo, il tornio, del tipo a balestra o a pedale. L’artigianato del legno, specie come utensileria, vantava in zona una consolidata tradizione; se ne ha notizia anche in un’istanza che quei villaggi hanno inviato al Senato veneto per essere esonerati da “gravezze” difficilmente sostenibili (15). Anche le Nèrte hanno avuto, in tempi più recenti, chi si è occupato della loro condizione. Il Sindaco di Erto Casso perorò la loro causa presso il Prefetto di Udine (1927), chiedendo una riduzione della cauzione da versare per l’esercizio dell’attività in quanto ritenuta troppo onerosa; successivamente, nel 1930, si rivolse alla Confederazione Nazionale Sindacati Fascisti del Commercio di Udine per chiedere un contributo a favore dei “girovaghi” del suo Comune (16).

Quella delle Nèrte era una vita grama; dovevano girare per case e mercati, con qualsiasi tempo, cercando di vendere la modesta mercanzia di cui era riempita la capace e pesante gerla che gravava sulle loro spalle lasciandovi, nonostante la dopéssa (17), segni incalliti. Solo con il miglioramento della viabilità poterono, a volte, disporre di un carretto, trainato quasi sempre a braccia (avvalersi di un asinello era privilegio di poche): viaggiavano solitamente in due o più, chi tirava e chi spingeva (18).

Rovistando dentro la gerla della Nèrta troviamo un ampio assortimento di oggetti di legno. Utensili da cucina, quali posate e stoviglie di legno, forchettoni e cucchiaioni per mescolare i cibi durante la cottura, mestoli da polenta, mattarelli, martelli a punte piramidali per battere la carne, portasale, mortai pestasale, portauova, sessole, taglieri di varie forme e dimensioni, stampi per burro; altri articoli per la casa come battipanni in canna d’india, spine, cannelle e tappi per le )botti, uova di legno da rammendo, zoccoli, fusi per filare, canói (19) – da cui il nome di Canolàre con cui erano note nel Veneto Sud-Occidentale (20). Quelle che disponevano del carretto vi caricavano anche merce più ingombrante come móneghe (21), botticelle, appendiabiti, portafiori in giunco, assi da bucato, sgabelli, poggiapiedi, seggiole ecc.

Per le donne di Erto l’andare in giro con il carico in spalla era un fatto naturale, accettato, e, per talune, addirittura preferito all’attività agricola. Non per tutte però. Un’anziana donna ertana confessa di aver detestato questo tipo di lavoro, al punto che, una volta cessata l’attività, bruciò la cassèla per non vederla più (22).

La tipologia del lavoro ricalcava quello delle Cròmere. Gli itinerari delle Nèrte comprendevano il Cadore, il Bellunese, l’Agordino, la Carnia con il resto del Friuli, la Lombardia e anche regioni più lontane; all’estero le loro mete erano l’Austria e la Svizzera. Ultimamente avevano esteso il commercio alla merceria e alla maglieria; armate quindi di cassèla e cesta o valigia, prendevano il treno a Longarone per raggiungere lidi più lontani.
L’esercizio dell’emigrazione itinerante ha indubbiamente contribuito al processo di emancipazione della “Nèrta”, pur permanendo forte il legame da essa conservato con il proprio paese e il patrimonio di tradizioni di cui è depositario.

La condizione di donna migrante, comune a Cròmera e Nèrta, ha indubbiamente inciso sulla sua mentalità e i suoi valori, le ha permesso di conoscere il mondo esterno, di venire a contatto con realtà diverse, di assorbire il contagio di altre culture che ne hanno sviluppato la capacità critica e l’hanno resa indipendente. Un ideale gemellaggio unisce Cròmere e Nèrte, protagoniste di una vera epopea in cui la donna, in questo caso la montanara, ha saputo ridisegnare, con tenacia e determinazione, la sua vera immagine, ben diversa da quella stereotipata che la voleva marginale e rassegnata. Anche l’emigrazione femminile itinerante, tipica della micro-mobilità alpina, ha quindi contribuito, al pari di altre forme, al processo di affermazione e autodeterminazione della donna.

Il lavoro di Cròmere e Nèrte resterà parte viva del nostro patrimonio di cultura immateriale, della nostra storia e della nostra peculiarità montanara.

Di Lois Bernard

Cromera

NOTE

1 Al secolo Maria Da Rold.


2 Cròmera – Venditrice ambulate porta a porta di mercerie e chincaglierie varie. Varianti al nome erano Krumern (Valle dei Mocheni – TN) e Cramar (Friuli), Mersàra (Merciaia – Veneto Sud-Occidentale).


3 Cassèla – Mezzo di trasporto da indossare a guisa di basto, fornito di cassetti o di apertura a fisarmonica, in cui era contenuto il materiale da vendere.


4 Nonna della moglie dell’autore.


5 Nèrta – Venditrice ambulante porta a porta di utensili di legno (Taglieri, mestoli, cucchiai, battipanni ecc.) fatti dagli uomini di casa durante l’inverno. Era chiamata anche Mestolaia (venditrice di mestoli), Sedonèra (Friuli) e Canolàra (Veneto Sud-Occidentale).


6 Brolati Paola, Furono sempre le donne a portare, Edizioni Fuoriposto, Mestre-Venezia, 2016.


7 Dhèrla – Gerla. Contenitore troncoconico di vimini, di varie fattezze e dimensioni, munito di spallacci e indossato a guisa di zaino, usato per portare le merci più disparate.


8 Crazh (detta anche rèfa, barcèla, fartòla) – Sorta di basto costituito da un telaio rettangolare di legno munito di un piano di appoggio e dotato di spallacci, anch’esso indossato a guisa di zaino. Usata per trasporti nei quali non era indicato l’impiego della dhèrla e dai careghéte per portarsi appresso i ferri del mestiere.


9 Fièrcla – Simile alla crazh, reca, in luogo del piano di appoggio, due aste incurvate che si sviluppano verso l’alto aprendosi e dando origine a uno scheletro che riprende vagamente la forma della dhèrla. Si presta al trasporto di mannelli di cereali, fascine di legna, tronchetti di legname di piccolo calibro ecc.


10 Molfetta Domenico, I cramars in viaggio, in Ferigo Giorgio, Fornasin Alessio (a cura di), Cramars. Atti del convegno internazionale di studi Cramars. Emigrazione, mobilità, mestieri ambulanti dalla Carnia in età moderna, Arti Grafiche Friulane, Udine, 1997.


11 Facchin Stefano, A sbolognar la maroca… I Cròmer di Lamon, nomadi per mestiere, in Francesco Padovani (a cura di), Con la valigia in mano. L’emigrazione nel Feltrino dalla fine dell’Ottocento al 1970, Libreria Editrice Agorà, Feltre (BL), 2004.


12 Facchin Stefano, A sbolognar la maroca… cit.
13 Lo scapolare è una sorta di sopravveste, usata dai monaci, costituita da una striscia di stoffa, con un’apertura per la testa, che ricade sul petto e sulle spalle.


14 Facchin Stefano, A sbolognar la maroca… cit.


15 Cantarutti Novella, Emigrazione femminile e cultura tradizionale a Erto, in Atti dell’Accademia di scienze lettere e arti di Udine, v. 76, 1983.


16 Boz Nadia, Grossutti Javier, Protagoniste o comparse? L’emigrazione femminile dal Friuli, in Verrocchio Ariella, Tessitori Paola (a cura di), Il lavoro femminile tra vecchie e nuove migrazioni. Il caso del Friuli Venezia Giulia, Ediesse, Roma, 2009.


17 Dopéssa – Coprispalle per la gerla (Claut, Valcellina), vd. Pirona Giulio Andrea, Carletti Ercole, Corgnali Giovanni Battista, Il Nuovo Pirona. Vocabolario Friulano, Società Filologica Friulana, Udine, 2020.


18 Peressi Lucio, Folclore della Valcellina. Portatrici di ieri e di oggi, in Sot la nape, a.12, n. 3-4, 1960.


19 Canói – bacchette forate in cui inserire i ferri da maglia.


20 Frigotto Pier Paolo, Di casa in casa. I vecchi mestieri ambulanti nel Veneto, Cierre Edizioni, Sommacampagna (VR), 2012.


21 Mónega – scaldaletto. Incastellatura di legno atta a ospitare il braciere.


22 Cantarutti Novella, Emigrazione femminile e cultura tradizionale a Erto, cit.