Archivio di Marzo, 2020

Famiglia Ciprian, gelatieri per passione

L’Eis Salon Ciprian

Mi chiamo Attilio Ciprian, ho un fratello gemello di nome Emilio. Siamo nati nel 1945. Ricordo che quando eravamo ragazzini nostra madre e nostro padre partivano per l’estero e quindi noi eravamo accuditi da una zia, sorella di nostro papà. Stavamo con lei fino alle vacanze estive, poi potevamo raggiungere i genitori.
Mio papà era nato a Vienna nel 1908. Vienna era una grande città, che raccoglieva tantissimi emigrati. Molti andavano lì per vendere il gelato artigianale. Anche mio padre faceva il venditore ambulante. Tutte le mattine partiva col carretto e vendeva due sorbettiere di gelato. Prima di cominciare il giro, alle cinque faceva rifornimento di ghiaccio in una grande macelleria. Poi girava tutta la capitale, andando per uffici, scuole, stadi e capitava che vendesse molto di più di quelli che avevano una propria gelateria, perché i clienti lo conoscevano, sapevano l’itinerario che seguiva e l’orario in cui sarebbe passato. Aveva un campanello per richiamarli. Poi tornava e scaricava la salamoia che aveva nel carro.

Più tardi, con un fratello purtroppo morto giovane, aveva deciso di aprire una piccola gelateria in Mariahilfer Strasse, una delle vie più famose di Vienna.

In questa gelateria io e mio fratello ci abbiamo trascorso l’infanzia. Abbiamo infatti frequentato la scuola materna a Vienna. Ricordo che all’epoca, quando avevamo tre o quattro anni, il papà ci metteva uno per sorbettiera. Allora si poteva, oggi non si può più. Poi nostro padre ha deciso di farci rientrare per le elementari e le medie. Io mi sono diplomato all’Iti nel 1967 e sono sempre rimasto in Italia come insegnante tecnico-pratico. Mio fratello, invece, dopo un periodo come meccanico alla Bmw, ha lavorato in Germania. Nel 1956, infatti, nostro padre aveva aperto una gelateria nel Nordreno-Vestfalia. In quella zona la Germania era molto ricca, aveva industrie e miniere e quindi il lavoro non mancava. Purtroppo, però, lui ci ha lasciati a soli 56 anni a causa di un infarto e così mia mamma ed Emilio sono dovuti partire per continuare a mandare avanti la gelateria. Nel 2016 hanno festeggiato i 60 anni di attività.

La storia di Angelo Tabacchi

Angelo Tabacchi e Giorgina Boccingher il giorno del loro matrimonio

Una storia di vita e di emigrazione, bella e dolorosa nello stesso tempo, è quella che ci racconta un ex emigrante, socio della Famiglia emigranti del Cadore: Angelo Tabacchi, classe 1940 di Sottocastello.
«Quelle della mia vita – racconta per introdurre la sua storia – sono piccole e grandi traversie che segnano per sempre la quotidianità di una famiglia.
Finiti gli studi all’Istituto Tecnico di Pieve di Cadore, mi trovai subito faccia a faccia con il lavoro vero in un cantiere quando emigrai nel Cantone Vallese, a Mattmark, dove rimasi dal 1957 al 1959. Su consiglio della mia famiglia, secondo la quale quel lavoro non era adatto a me, rientrai in Italia e iniziai a lavorare nel settore elettrico con la ditta Vascellari di Calalzo. Devo dire che il consiglio fu giusto, perché il nuovo lavoro mi piacque subito, anche grazie alle mansioni che mi vennero assegnate. Nel 1963 lavoravo a Longarone a un compito importante, che riuscii a completare appena venti giorni prima della frana del Monte Toc che travolse il paese. Mi andò bene, visto che lo sto raccontando, contrariamente a molti miei colleghi che furono travolti dalla piena. Per me fu ugualmente un brutto colpo.

Due anni dopo, nel 1965, mi sposai con Giorgina Boccingher. Una bella giornata, in parte rovinata dalla notizia della tragedia di Mattmark, che si portò via molti miei paesani e amici.

Un anno di vita tranquilla, attendendo la nascita del primo figlio, Matteo, venuto al mondo nel novembre 1966, proprio in concomitanza con la grave alluvione che stravolse il Cadore e il Bellunese. Un avvenimento duro e tragico per chi lavorava nel settore elettrico. Seguirono anni di vita tranquilla, rallegrati nell’aprile del 1976 dalla nascita del secondo figlio, Nevio. Una vita normale, con tante gioie in famiglia e in attesa di festeggiare le nozze d’oro, che ricorrevano nel settembre del 2015.
Furono anni felici, nei quali la nostra famiglia visse facendo anche terminare la scuola ai due figli. Purtroppo, all’inizio di quell’anno mia moglie venne colpita da un tumore che si aggravò velocemente, tanto che a malapena riuscì a sopravvivere alla festa e morì il 31 dicembre. Fu un dolore immenso, l’amavo molto. Si era dimostrata veramente una madre di famiglia come avevo desiderato.
Un dolore reso ancora più forte dal fatto che solo due mesi prima, il 28 ottobre, era morto anche mio fratello Giovanni.
Ora vivo nella casa di famiglia a Sottocastello, sempre vicino ai miei figli Matteo e Nevio, che mi stanno dando tante soddisfazioni.

Storia raccolta
da Vittore Doro

Vida e Laoro. Storie della Famiglia di Quintino Padoin e Irma Scarpato

Irma Scarpato e Quintino Padoin

La storia della famiglia di Quintino Padoin e Irma Scarpato inizia nel Nord Italia, da dove partirono i loro nonni. Domenico Padoin ed Eleonora Teresa de Doni, nonni di Quintino, provenivano da Pieve di Soligo, in provincia di Treviso. Luigi Scarpato e Maddalena Seraffin, i nonni di Irma, provenivano da Polcenigo, in provincia di Pordenone.
La nave “Umberto I” partì dal porto di Genova diretta a Rio de Janeiro, in Brasile. Su questa nave c’erano Domenico Padoin, sua moglie Teresa, i figli Pietro, Gregorio e Luigi, e suo fratello Giuseppe.
Da Rio de Janeiro arrivarono a Laguna, nel Sud dello stato di Santa Catarina. Da Laguna, attraverso il fiume Tubarão proseguirono fino alle colonie di Azambuja e Urussanga.
Gli immigrati trevisani occupavano le terre inferiori del fiume Urussanga, dove si trovano le comunità di São Pedro, De Villa, Estação Cocal e Morro da Fumaça. La terra in cui si insediarono si trovava nella comunità di San Pedro, in una fitta foresta; poi con molto lavoro si dedicarono alla coltivazione delle piantagioni, all’allevamento degli animali e alla costruzione di una piccola residenza. Tutto questo nel 1879. Lì nacque Pellegrin Padoin, padre di Quintino.
Pellegrin Padoin nacque il 13 maggio 1884, all’età di venticinque anni sposò Joana Zaccaron con cui ebbe otto figli: Antônio, Ida, Amélio, Quintino, Aurora, Izélia, Zuleima e Agenor. La coppia viveva nella comunità di Linha Pagnan, vicino a Estação Coal. Pellegrin era considerato un bravo lavoratore. Insieme ai figli e alla moglie aveva grandi piantagioni e allevamenti di bestiame.
Quintino crebbe intorno alla comunità di Estação Cocal. Nei primi giorni di scuola, rimase sorpreso dal modo in cui l’insegnante parlava in portoghese. Dopotutto, in quella zona parlavano italiano, o meglio, il dialetto veneto. Il suo divertimento era quello di andare nei boschi con gli amici e a pescare sul bordo del fiume Urussanga. Una volta non riuscì più a pescare – ricorda Quintino – perché l’estrazione del carbone a Urussanga nei primi anni ‘30 inquinò le acque del fiume, facendo sparire ogni tipo di pesce. Lavorava alla fattoria, a volte caricava i vagoni dei treni con sacchi di grano per guadagnare un po’ di più, e produceva anche scope da vendere, fatte con le foglie di alberi di cocco.
La famiglia di Luigi Scarpato si stabilì nel 1885 nel Núcle Accioly de Vasconcelos, attuale località di Linha Espanhola, dove nacque João Scarpato, il padre di Irma.
João Scarpato sposò Joana Brunato, con la quale ebbe tredici figli: Primo, Angelica, Otávio, Zeferino, Domingo, Vitório, Irma, Maria, Quintino, Agenor, Rosalino Amelia e Zuleima. João era un abile costruttore e trascorse molto tempo lontano dalla famiglia, operando in tutta la regione e anche nello stato di Rio Grande do Sul.

Mina Fluorita

Irma Scarpato da piccola lavorava alla fattoria con i suoi fratelli e la madre, viaggiava in carrozza trainata dai buoi, guidata da suo fratello Octavio. Frequentava la scuola al Rio Comprudente e ci andava alle prime ore del mattino, anche durante l’inverno, con i prati coperti di brina. A mezzogiorno tornavano a casa per il pranzo e di solito mangiavano formaggio, polenta, radicchio e salame. Ogni volta si fermavano durante il cammino, guardavano gli alberi pieni di frutti e raccoglievano la araçá, un frutto molto buono.
Irma terminò gli studi al quarto anno elementare perché, com’era comune per le donne dell’epoca, doveva prepararsi per diventare sposa e per prendersi cura di una famiglia generalmente numerosa. Negli anni ‘40, tra i quindici e i sedici anni, iniziò a frequentare le domingueira, ovvero le feste nel pomeriggio domenicale che si svolgevano nel centro comunitario della chiesa. I genitori erano molto severi, lei e le sue amiche dovevano tornare a casa prima che il sole tramontasse, quando il padre non le accompagnava alle feste. Andavano a piedi nudi, tenendo le scarpe in mano fin quando erano vicine al posto della festa, si lavavano i piedi e si mettevano le scarpe pulite.
In una di queste domeniche, nella comunità di São Pedro, Irma incontrò Quintino Padoin, ma lui, che era molto timido, esitò a rivolgerle la parola. Prima parlò con gli amici e solo più tardi con lei. Una volta la accompagnò a casa nel ritorno da una delle feste. Poco tempo dopo chiese di sposarla al padre di lei, e ciò avvenne il 22 giugno 1952.

Irma e Quintino, dopo il matrimonio vissero con i genitori di Quintino nella comunità di Linha Pagnan. Ebbero cinque figli: Ademar, Neiva, Natal, Vanilda e Edson. Dopo la nascita del secondo figlio costruirono una casa nella comunità di Linha Torrens, vicino alle famiglie Casagrande e Sartor. La vita rurale continuò, Quintino in agricoltura e allevamento di maiali, Irma, invece, produceva formaggi per venderli.

La storia di questa tipica famiglia di immigrati italiani cambiò direzione in seguito a un sogno. Uno dei vicini, Venicio Casagrande, sognò che c’era della pietra fluorite in un corso d’acqua nella proprietà di Quintino, vicino a dove si trovavano i maiali. Quintino, che sapeva poco del minerale, disse: «Nella terra dei poveri non c’è nulla, solo serpente, rospo e rana». Il giovane Venicio sognò altre tre volte la stessa cosa e un giorno, mentre lui e suo fratello stavano pescando in quel piccolo fiume, trovarono delle pietre verdi e gialle. Poco tempo dopo tornarono con i picconi per cercare altre di quelle stesse pietre e trovarono pezzi più grandi di quelli che avevano mostrato a Quintino; lui fu entusiasta e da quel momento, nel 1960, iniziarono in modo rudimentale a scavare la pietra fluorite nel posto.
Quintino e i giovani Giacco, Cuba e Venicio Casagrande estraevano mucchi di pietre, ma senza sapere se ci fosse realmente valore commerciale. Nessuno aveva conoscenze tecniche su quel tipo di lavoro, ma iniziarono con quello che avevano: picconi, pale, mazze, sudore e coraggio. Dopo la scoperta del valore commerciale, vennero costruite delle miniere, e intorno ad esse venne fondata una nuova comunità: la comunità Vila Mina Fluorita. La gente iniziò a cercare lavoro e si stabilì in quella zona; altre miniere furono scoperte, come la miniera della famiglia Sartor. Nel 1961 fu fondata la Mineração Santa Catarina.
Anche se l’attività principale della famiglia era quella mineraria, a Quintino e Irma piaceva la semplice vita rurale. Nella loro nuova casa, più lontano dall’area mineraria, crebbero i loro figli, nipoti e pronipoti.
Quintino ha salutato il mondo nel 2006, dopo una domenica in famiglia alla festa di Sant’Antonio.

Fernando Luigi
Padoin Fontanella

Giampiero Selle. Da Tiser di Gosaldo allo stato del New Jersey, Stati Uniti

Giampiero Selle
Giampiero Selle

Giampiero Selle è nato a Tiser di Gosaldo, provincia di Belluno, il 30 aprile del 1932, è deceduto il 16 febbraio 2018 nello stato del New Jersey, Stati Uniti. 
E’ cresciuto a casa con sua madre Bruna, sua nonna Giovanna e la zia Irma, perchè suo padre era emigrato diversi anni prima a New York negli Stati Uniti e abitava nel quartiere chiamato Little Italy. Nel 1949 a soli 17 anni Giampiero a Manhattan ha raggiunto suo padre. Per un po’ di anni ha lavorato in diversi ristoranti della città, diventando un bravo cuoco.
Questo gli è servito qualche anno dopo, quando nel 1952 è stato chiamato a fare il militare per due anni al tempo della guerra in Corea. Nel 1958 è ritornato in Italia e si è fermato per un anno. Ha conosciuto Giuseppina Bedont e si sono sposati in ottobre di quell’anno.
Nel 1959 è andato a vivere nello Stato del New Jersey, ha cambiato lavoro, ha fatto il piastrellista per il resto della sua vita, anche con l’aiuto della moglie. Hanno avuto due figli e una figlia e ora la famiglia si è ingrandita e conta dodici nipoti che gli volevano tanto bene.

Giampiero aveva un fratello che vive a Belluno, sposato con due figlie e due nipoti.

Giampiero ha vissuto una vita molto produttiva, era un artista sul lavoro e un bravissimo cuoco, cucinava spesso per la famiglia, la sua specialità era la torta di formaggio, chiamata cheese cake.

Giuseppina (Josephine) Bedont Selle

C’è bisogno di Storia. Il Centro studi sulle migrazioni “Aletheia” e il ruolo del digitale per la conservazione e la valorizzazione del passato

Lo storico Jacopo De Pasquale

“Ma io aggiungerei che forse bisogna fare più storia che memoria. Oggi il rischio è di concentrarsi sulla memoria, ma poi nessuno sa cos’è successo davvero […]”

Anna Foà

La storia tra scienza e racconto nel XXI secolo. Qualche appunto di viaggio

Non è facile raccontare la storia. Ma soprattutto non è facile renderla fruibile ai non addetti ai lavori. Spesso mi è capitato di riflettere sull’ostracismo che la storia, negli ultimi anni, sta subendo nelle scuole e su come, di contraltare, abbia un sempre maggiore successo mediatico in grandi iniziative come quelle promosse in TV da Piero e Alberto Angela, nelle grandi mostre e nelle aperture straordinarie di palazzi spesso chiusi al pubblico. E’ quasi un paradosso da un lato lo studio della storia sembra non servire più nel bagaglio formativo della nostra nazione, e dall’altro, invece, raccoglie sempre più consensi quando si tratta di raccontare in poco tempo grandi vicende o grandi opere. Il problema è proprio nel verbo che ho utilizzato poc’anzi: raccontare. Alla gente piace sentir raccontare le storie e forse, come ha detto Tyrion Lannister alla fine dell’ultima stagione di Games of Thrones, le storie hanno il potere di vincere anche la spada più affilata. Il problema è che stiamo parlando della Storia con la S maiuscola e non di una storiella qualsiasi. Non è forse svilente rendere il nostro passato una semplice storiella? Il confine è molto labile. Se da un lato è giusto uscire dall’aura di scientificità radical-chic che spesso ammanta gli addetti ai lavori, dall’altro bisogna stare attenti a non confondere la preparazione storica e tecnica di un qualsiasi insegnante o storico con un programma fatto in TV, o una pagina di Wikipedia. Sia ben chiaro, sono il primo ad utilizzare l’enciclopedia libera, ma bisogna stare attenti perché il digitale, nonostante metta a disposizione un quantitativo di informazioni enorme, spesso non è capace di auto regolamentarsi, rendendo facile il rischio di errore, di semplificazione e di partigianeria. Allo stesso tempo però ci sono programmi televisivi, come Passato e Presente condotto su Rai Storia da Paolo Mieli, che rappresentano degli interessanti esperimenti mediatici in cui storia e divulgazione riescono a fondersi in maniera pregevole.
Inoltre, per un qualsiasi storico di professione o no che si cimenti in una qualsivoglia ricerca, rimane fondamentale, oltre che lo studio delle fonti, anche lo studio del supporto sul quale la fonte è stata trasmessa. Parlare in maniera esaustiva di notai medievali, ad esempio, senza aver mai preso in mano una pergamena o un codice manoscritto non è fattivamente possibile. Ma, andando oltre questo dato meramente tecnico, il problema di base è capire in che modo il digitale possa essere per l’uomo di oggi, che si interessa di storia, stimolo e riferimento narrativo nell’acquisizione di nuove nozioni e competenze. Come scrive Anna Foà la conoscenza storica degli italiani è molto bassa e «l’attenzione alla memoria non ha inciso sulla conoscenza» nonostante l’enorme successo di iniziative come quelle descritte all’inizio di questo breve articolo.

La storia digitale, una storia democratica

Sicuramente il mondo digitale crea degli spazi di condivisione più rapidi ed immediati e consente la realizzazione di aree meta-disciplinari prima impensabili che, oltre a rendere la didattica della storia molto più profonda, ricompongono sullo stesso piano temi, argomenti e soprattutto fonti che fino a qualche anno fa sarebbe stato quasi impossibile mettere in comunicazione, se non grazie a qualche fortuito ritrovamento o allo sforzo di un attento ricercatore. Una rete interdisciplinare eccezionale che pone democraticamente allo stesso livello scienze o anche enti spesso trattati in maniera non equanime, sia dal punto di vista della valorizzazione culturale sia da quello delle fonti e delle risorse di loro competenza. La ormai classica espressione “fare rete” permette a realtà piccole e poco conosciute di essere valorizzate nella loro unicità, all’interno di un sistema che avvicina fonti e progetti, alla ricerca di ciò che le accomuna e non di ciò che le divide. Il programma che proprio in questi mesi la fondazione Dolomiti Unesco sta sviluppando, ossia mettere in rete tutti assieme i numerosi musei presenti nelle nostre montagne, rappresenta in maniera lampante questa idea democratica della trasmissione del sapere. (https://www.dolomitiunesco.info/musei-delle-dolomiti-verso-una-nuova-rete/) . E’ anche da segnalare il macroportale voluto dalla Conferenza Episcopale Italiana, (https://beweb.chiesacattolica.it/?l=it_IT) in cui diverse tipologie di fonti, accomunate dall’essere parte del grande mondo dei Beni Culturali di origine ecclesiastica (dalle chiese, ai libri, ai fondi di archivio, fino alle opere d’arte), vengono intersecate attraverso un portale creato con lo scopo di creare delle ricerche orizzontali e tematiche, con alla base il concetto di multidisciplinarietà.
Infine il digitale ha insita, nella sua vastità, una capacità conservativa senza uguali che rende fruibili una serie di fonti archiviate in banche dati multimediali prima accessibili soltanto fisicamente con il rischio di rovinarle o usurarle. Basti pensare all’enorme laboratorio multimediale messo in piedi dalla Biblioteca Apostolica Vaticana per digitalizzare il suo enorme patrimonio manoscritto (www.digitavaticana.org) rendendolo fruibile agli studiosi e non solo.

March Bloch e la storia come scienza del cambiamento

Se torniamo però al nocciolo della questione, e cioè alle motivazioni che possono essere alla base di una qualsiasi ricerca o progetto di divulgazione storica che riesca al tempo stesso ad essere precisa e accessibile non possiamo non citare uno dei più grandi storici del nostro tempo: March Bloch.
Fucilato dalle SS durante la II Guerra Mondiale, ancora oggi rimane un indiscusso punto di riferimento per la profondità della sua riflessione sul ruolo della storia nella storia società. Bloch, consapevole del fatto che siamo tutti attori nella società nella quale ci troviamo a vivere, porta alle estreme conseguenze il ruolo civile della professione di storico, mettendosi in gioco in prima persona nella resistenza francese fino alla morte. In una famosa conferenza tenuta ormai più di 70 anni fa a Parigi, lo storico francese si pose proprio la domanda che ancora oggi qui ci prospettiamo:”Che cosa chiedere alla storia?”. Siamo abituati a cercare nel passato le conferme del nostre presente, utilizzando la storia come semplice voce di conferma per le nostre azioni, ed estremizzando il famoso detto di Cicerone “historia magistra vitae”. E’ vero, la storia insegna e ci permette di non ripetere gli errori del passato ma non in qualità di materia inerte da cui attingere informazioni bensì come scienza del cambiamento, in cui ricercare le cause degli avvenimenti di oggi. Scrive Bloch:« La lezione più importante del passato consiste nel suggerirci un avvenire molto differente dal passato e nel permetterci di intravedere quelle che all’incirca saranno le differenze». Ecco lo spunto iniziale dal quale dovrebbero partire tutte le manifestazioni di valorizzazione del passato, che siano un programma televisivo o un saggio critico. La storia è quindi una valigia degli attrezzi, che ci permette di analizzare il passato in funzione del presente rispondendo alla domanda fondamentale: perché?

La storia come scienza e il ruolo della memoria

Scrive E.W. Carr:«Studiare la storia vuol dire studiarne le cause. […] Il grande storico – o forse dovrei dire genericamente il grande pensatore – è un uomo che risponde alla domanda “Perche?” in connessione a problemi e contesti nuovi». Ecco la discriminante tra una narrazione che si vuole definire con l’appellativo di storica e un semplice memoriale, atto a ricordare in maniera soggettiva alcuni avvenimenti del passato. Spesso le narrazioni televisive o anche digitali non effettuano questo fondamentale passaggio. La memoria di avvenimenti o situazioni passate è importante e rappresenta una fondamentale elemento per la ricostruzione di qualsivoglia evento trascorso, ma non ha le caratteristiche che lo rendano una vera e propria analisi storica. Primo Levi, ad esempio, autore di fondamentali resoconti sulla Shoah come il romanzo autobiografico Se questo è un uomo non si è mai definito storico ma testimone di un fatto: lo sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, che aveva vissuto in prima persona. La memoria è infatti, per quanto si possa essere razionali e smaliziati, soggettiva e soprattutto selettiva e non permette di attuare da sola una analisi precisa ed accurata. Il ruolo dello storico è quello di utilizzare le memorie e le fonti per cercare di ricostruire in maniera quanto più possibile adeguata le cause degli avvenimenti passati. Come ho già scritto in precedenza è utopico pensare di poter ricostruire il passato per quello che è stato. Non eravamo presenti, non abbiamo una macchina del tempo come quella di Ritorno al Futuro, il passato è passato. L’unica ambizione che possiamo avere è quella di comprendere gli avvenimenti trascorsi in vista del futuro che ci attende. Per questo motivo non bisogna circoscrivere la storia alla semplice narrazione, come spesso si fa, sbagliando, negli ultimi anni. Si è passati, come scrive lo storico Giuseppe Sergi, da «una prosa di spiegazione a quella di narrazione allontanando lettori-spettatori-ascoltatori da una quota di ‘presa diretta’ con i risultati della ricerca e rinunciando a combattere gli stereotipi sul passato». Uno dei compiti che quindi possiamo ascrivere alla rivoluzione digitale è proprio quello di utilizzare nuovi approcci, che possano spiegare in maniera distesa e al tempo stesso puntuale il passato, senza scadere in facilonerie che non hanno nulla di scientifico.

Un esempio di archivio digitale condiviso. Il Centro studi sulle migrazioni “Aletheia” dell’Associazione Bellunesi nel Mondo

Da ormai più di un anno l’associazione Bellunesi del Mondo ha deciso di promuovere, tramite i suoi canali, un nuovo ed interessante progetto digitale, che può ben rappresentare una buona pratica di divulgazione storica rivolta agli specialisti ma anche e soprattutto al grande pubblico dei Bellunesi sparsi per il mondo e residenti nel territorio. Rintracciabile all’indirizzo www.centrostudialetheia.it il sito in questione è un enorme archivio digitale sulla migrazione bellunese.
L’intento è chiaro sin dalla homepage nella quale possiamo leggere: «Conservare la memoria della grande epopea migratoria bellunese, trasmetterne la conoscenza e valorizzarne gli aspetti più significativi. […]In altre parole, archiviare, digitalizzare e divulgare: le tre azioni guida che sintetizzano il mondo “Aletheia”, per andare a “svelare” un fenomeno che per più di un secolo ha segnato nel profondo un territorio e i suoi abitanti. Raccogliendo dati, testimonianze, racconti di vita, fotografie, lettere e documenti da diffondere tramite il web, e rendendo accessibile e alla portata di un click il grande patrimonio materiale e immateriale che la storia della nostra emigrazione ha lasciato dietro di sé, sparso in giro per le case e per le famiglie del bellunese».
Archiviare, digitalizzare e divulgare. Queste tre parole ben sintetizzano la portata del progetto che, andando oltre l’idea ormai desueta di archivio thesaurus, cioè archivio di semplice conservazione, decide di rendere fruibile il materiale a sua disposizione tramite un semplice menù filtro, grazie al quale è possibile navigare tra i metadati per cercare la tipologia di fonte di nostro interesse. Infatti una qualsiasi carta, dalla bolla papale medievale fino alla lettera di un immigrato bellunese, se rimane chiusa in un cassetto avrà sicuramente un suo valore monetario in un caso, affettivo nell’altro, ma non ha un valore storico. E’ questa una delle sostanziali differenze alla base dell’utilizzo del digitale negli archivi nel Terzo Millennio. Il patrimonio, per continuare ad avere valore storico ma anche e soprattutto civile, deve essere condiviso e questo il centro studi Aletheia lo fa in maniera egregia, chiedendo ai propri visitatori di collaborare, scovando nelle fonti archiviate sul sito, qualche informazione che il catalogatore non è stato capace di individuare. In questo modo l’archiviazione non rimane un fenomeno chiuso in se stesso, ma diventa un aggancio con la realtà e soprattutto con le comunità, bellunesi in questo caso, presenti in tutto il mondo. Il digitale quindi, oltre a permettere una nuova tipologia di conservazione, fa viaggiare istantaneamente ovunque il materiale caricato sulla piattaforma. La foto di una famiglia bellunese immigrata in Argentina può essere vista contemporaneamente a Belluno come a Buenos Aires, rendendo possibile il confronto ma soprattutto il riconoscimento, se siamo fortunati, dei volti delle persone protagoniste di quella vecchia e logora immagine. In tal modo la storia digitale consente la condivisione di passati altrimenti impossibile da attuare. Inoltre il sito https://www.centrostudialetheia.it/ , oltre ad essere un eccezionale strumento civico di incontro, permette anche agli storici di professione di avere accesso, con con un semplice click, ad una serie di documenti fondamentali per la comprensione della storia dell’immigrazione bellunese. Sono disponibili infatti anche le annate della rivista “Bellunesi nel Mondo” che fermano nei fatti in esse narrati vicende politiche e sociali altrimenti di difficile accesso.

Conclusione: il Centro Studi sulle migrazioni “Aletheia” come ancora nel viaggio dei Bellunesi nella storia

Il nostro territorio, è risaputo, rappresenta un caso eccezionale per la notevole portata del fenomeno migratorio. Ancora oggi il Bellunese è attraversato, per motivi economici e sociali che non sono però al centro di questa disamina, da tale preoccupante situazione. Molti giovani decidono di lasciare le Dolomiti per cercare fortuna lontano dalle loro radici. Il centro Studi Aletheia rappresenta una encomiabile ancora per tutti quelli che, delusi dalla situazione della nostra provincia, abbiano deciso di andarsene. Molti anni fa Dino Buzzati disse che Belluno era il luogo più bello dell’orbe terraqueo. Come mai oggi soffre così tanto, con una popolazione sempre più al lumicino, con paesi montani addirittura senza i servizi essenziali? I Bellunesi non sono consapevoli della loro grandezza? Del loro infaticabile impegno?Della loro storia?
Il Centro Studi Aletheia ci permette, grazie alle nuove tecnologie digitali, di conoscere, apprezzare e divulgare quanto di importante i Bellunesi hanno fatto in patria e all’estero, valorizzando non solo le azioni e i ricordi ma soprattutto le persone del passato e quelle del presente, ricreando virtualmente, e non solo il senso di comunità che stiamo pian piano perdendo. Le statistiche demografiche ci danno nettamente perdenti nonostante l’indubbio impegno di chi resta per mantenere il nostro stupendo e fragile territorio, e la politica non attua scelte volte alla “nostra” specificità montana. Cosa fare allora? Non perdere la speranza. E questo traspare dal sito promosso da Bellunesi nel mondo. La storia come scienza condivisa tramite i nuovi mezzi di comunicazione deve trasmettere la speranza. La speranza di coloro che lasciarono le loro case per andare verso luoghi sconosciuti, la speranza in politiche diverse per un territorio membro dell’Unesco, la speranza in un domani ricco di possibilità per Belluno e per tutti quelli che, con coraggio, decidono di viverci e di tramandarne la storia con lo sguardo al futuro.

Jacopo De Pasquale