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Giovanni Rivis, una vita da emigrante

Giovanni Rivis (a destra) assieme a due colleghi (il primo a sinistra di Taibon, quello al centro un milanese) nel deserto libico, 1962

Sono nato a Voltago Agordino, frazione Digoman, nel 1936. Ho frequentato le scuole elementari a Voltago. Dall’autunno del 1949 fino all’aprile del 1952 ho fatto il “caregheta”, due anni a Busto Arsizio e un anno a Brescia. A Busto Arsizio ho conosciuto – e assistito al suo primo concerto – quello che sarebbe diventato uno dei più grandi violinisti italiani, Uto Ughi: all’epoca aveva otto anni.
Nel giugno 1952, da privatista, ho fatto l’esame di terza avviamento, a settembre ho sostenuto l’esame di riparazione e sono stato promosso. Subito dopo ho sostenuto l’esame integrativo e sono stato ammesso a frequentare la prima classe dell’Istituto Minerario. Il 10 luglio 1957 mi sono diplomato e il 15 dello stesso mese ho incominciato a lavorare come capo fabbrica in una fornace per materiali refrattari a Schio, dove sono rimasto fino alla fine del 1960. In questo periodo ho adempiuto agli obblighi militari: dal marzo 1958 fino ad agosto 1959, nel 7° Alpini. Avendo sempre avuto la passione di conoscere il mondo fuori dall’Italia, ho poi deciso di tentare con l’Agip. Mi sono recato alla sede di San Donato Milanese e presentato all’ufficio personale dicendo che ero stato da loro convocato (non era vero) per un’eventuale assunzione. Ho mostrato copia del diploma e quando il responsabile ha visto che provenivo dall’Istituto “Follador” di Agordo mi ha detto che i periti agordini erano richiesti dall’azienda e per quanto lo riguardava potevo considerarmi assunto. Nel pomeriggio avevo già fatto la visita medica. Il 1° febbraio 1961 ero a Gela, assunto con la qualifica di geologo di cantiere e aggregato ad un impianto di perforazione che operava in provincia di Enna.
Dopo un anno, giugno 1962, sono partito per la Libia, con un contratto biennale: tre mesi di lavoro in deserto e venti giorni di riposo in Italia. Alla conclusione, altro contratto biennale in Nigeria: 10 mesi di lavoro e venti giorni in Italia.

Nel giugno 1965 ho dovuto interrompere il contratto causa malattia: malaria. Dopo pochi mesi passati in Italia, ho fatto ritorno in Libia dove sono rimasto fino al settembre 1971, ricoprendo vari incarichi.

Nel 1969 sono stato trasferito nella sede di Bengasi, inizialmente come geologo e assistente di perforazione, poi come responsabile di perforazione. L’11 settembre 1971 mi è stato comunicato l’ordine di espulsione, decretato nei miei confronti dal governo libico. Mi venivano concesse 48 ore di tempo. Sono ripartito il giorno successivo. Una volta in Italia, sono stato inviato nelle varie piattaforme che operavano nel Mediterraneo. Dopo due anni ho ricominciato a fare la valigia: Indonesia, Congo, Gabon, Ghana, Somalia, Spagna, Costa D’Avorio, sempre come responsabile di perforazione. Mentre ero in Costa d’Avorio, l’Agip mi disse che ero stato richiesto dalla Texaco-Shell per andare a perforare un pozzo al largo dell’isola di Terranova, in 1600 metri di acqua (record mondiale di profondità). All’epoca, 1979, nessuno aveva mai perforato pozzi in simili profondità: ho accettato l’offerta contento che un agordino fosse stato richiesto dagli americani per aiutarli in una cosa nella quale loro avevano sempre ritenuto essere i maestri. Il pozzo iniziò a fine aprile e terminò a fine settembre, alla profondità di 6.010 metri. Gli ultimi 12 anni di permanenza all’Agip, li ho passati ancora in giro per il mondo: Grecia, Yemen, Tanzania, Egitto, Cina, Algeria, Libia, quale responsabile della perforazione sia di terra che di mare. Ritiratomi nel 1994, ho poi continuato come consulente sempre in paesi stranieri sino al 2012.

Zia Rosa

Questo breve racconto triste narra le vicende reali di due donne, zia e nipote, nate e vissute in terra bellunese. Il risvolto interessante della testimonianza si concretizza nella presa di coscienza e nella capacità di reazione delle protagoniste che decidono la propria vita, sovvertendo precetti primitivi e abbozzando così, nel bene e nel male, un nuovo modello di femminilità. Il motore di tale rivoluzione, in questo come in molti altri casi, è stata l’emigrazione.

In queste gelide sere, a filò nella stalla del Conte, noi ragazze abbiamo voce solo per qualche canto e per recitare il rosario. Sono brevi intervalli, per il resto del tempo parlano i padri e le madri, i nonni, gli zii e i fratelli più grandi. A tratti irrompono gli strilli dei bimbi che vengono subito rimproverati dai grandi.
Io taccio. Guardo la condensa di umidi fiati che cola in gocce luccicando lungo la calce dei muri e non riesco ad unirmi al coro di preghiere.
Lo spesso manto candido che in questi giorni ha sommerso ogni cosa impedisce ai giovanotti di farci visita ed è meglio così, perché Angelo non ci sarebbe e non verrà più. L’ultima volta che è stato a filò da noi, acceso in viso per la camminata, gli occhi lucenti ed il sorriso complice, mio padre l’ha chiamato fuori dalla stalla e gli ha detto di non ritornare perché sono già promessa ad un altro e la sua insistenza mi disturba.
Non è vero, Angelo mi piace. Mi piace più della mia stessa vita che senza di lui non ha importanza. Ma il figlio del macellaio ha chiesto la mia mano, me l’ha detto la mamma con un filo di voce, e questo significa pranzo e cena per il mio futuro. Non odio i miei vecchi per questa orribile ingiustizia, hanno undici figli da sfamare e la credenza sempre vuota. Pensano sinceramente di aver fatto la scelta migliore per me. Le mie due sorelle maggiori, compiuti dieci anni, erano già a servizio fora par le spese (nota 1) ed io ho la fortuna di essere abbastanza carina da turbare il sonno al corpulento Osvaldo, che gira per il paese sempre vestito a festa con il panciotto e le scarpe di pelle. In questi giorni però vorrei semplicemente smettere di respirare e penso continuamente alla sorella di mio padre che ha patito la mia stessa umiliazione e che ha avuto la forza di ribellarsi, subendo in seguito la vendetta del destino.
Quanta sofferenza, povera zia, ora la posso comprendere.
La zia Rosa, all’età di sedici anni, era emigrata per guadagnarsi il pane. Erano gli anni 20 del ‘900. Il paese foresto le aveva richiesto ansie e sacrifici ma, allo stesso tempo, le aveva spalancato una finestra sul mondo. Libera dai rigidi vincoli familiari, si era innamorata e promessa ad un bravo giovane del sud Italia, anch’egli esule per lavoro. Non aveva avuto il coraggio di scrivere la notizia ai suoi genitori ma, rientrata in famiglia per un Natale, aveva informato la madre dell’intenzione di sposarsi. Per tutta risposta aveva ricevuto la sfuriata e gli schiaffi del padre che l’aveva ammonita con il vecchio detto: moglie e buoi dei paesi tuoi.
Rosa era ripartita per la Svizzera con la valigia piena di risentimento e la ferma volontà di decidere la sua vita. Qualche tempo dopo aveva ricevuto uno scritto dal suo genitore con il quale le annunciava che, per il suo bene, un possidente vedovo, abitante nel paese di S. Giustina, l’avrebbe condotta a nozze e le avrebbe assicurato una vita da signora, purché rientrasse subito in Patria. A fine lettera le faceva sapere che se non avesse ubbidito, non avrebbe più potuto considerarsi sua figlia.

Rosa non fece ritorno a casa, sposò il suo amato Giuseppe, ebbe sei figli e rientrò in Italia solo quando suo marito si ammalò gravemente e dovette lasciare il duro lavoro di minatore. Non ricucì mai più i rapporti con i suoi familiari, che mantennero fede alla loro condanna e quando lo sposo morì ancora giovane, si ritrovò sola ad allevare la prole con indicibili privazioni.

Mentre penso alla vita della zia alzo gli occhi e, attraverso un velo di ragnatele rischiarato ad intervalli dalla tremula luce di una candela, incrocio lo sguardo benevolo di S. Antonio, inchiodato sopra la porta d’entrata con il compito di proteggere gli animali. Provo a considerare chi potrebbe soccorrermi in questa sventura che non riesco a confidare del tutto nemmeno a me stessa. Le mie sorelle più grandi sono lontane; quando tornano a casa hanno modi sempre più sbrigativi, molte curiosità da sussurrarsi e nessuna voglia di ascoltare i fastidi della vita familiare. I ferri da calza che tengo nelle mani sono immobili. La mamma, seduta accanto a me, continua a rammendare vecchi vestiti sui rattoppi precedenti e ogni tanto rimprovera i miei fratelli più piccoli che si rincorrono sollevando nuvole di polvere. Poi riprende a discorrere sommessamente con le cognate, ognuna china sul proprio lavoro, delle faccende legate alla prossima lissia (nota 2). La nonna, madre di mio padre, mentre fa scorrere il filo di lana attraverso le mani nodose, mi lancia occhiate di biasimo per la mia fiacchezza.
Sento intensa la presenza di queste donne e per la prima volta prendo in considerazione le loro esistenze, cerco di indovinare il percorso delle loro vite di ragazze, di mogli e di madri. Mi rendo conto che le ho sempre avute vicine, ma non le ho mai intimamente conosciute; non ci sono confidenze, rivelazioni, spiragli di interiorità. Dalle donne di casa ricevo piccoli e grandi insegnamenti riguardo il governo del focolare, della stalla e dei figli; dal padre, dagli zii e dal nonno ascolto i principi che regolano i lavori della campagna, ma nulla trapela in merito ai sentimenti. Tra queste genti, pudiche e sobrie, si usa così. Le voci degli uomini che si alternano e a tratti si sovrappongono aumentando d’intensità, sono un unico rumore lontano e fastidioso.
Angelo è un giovanotto vivace ed orgoglioso, avrà pensato che l’ho tradito per un piatto di minestra e non mi cercherà più.
Sono sola. Respiro il morbido, tiepido odore della Bisa, la mite vecchia mucca di casa. Appoggio la fronte alla sua grande mole e sento che si fa più vicina. Improvvisamente, mi vedo vestita con l’abito scuro delle suore e distinguo la mia strada… domani, dopo la messa, parlerò con don Luigi.

Dal diario di Suor Maria Innocente.
Belluno, 27 gennaio 1934

Note:

1 a servizio per vitto e alloggio
2 il bucato

La saga della famiglia Savaris e Bedogni raccontata da Umberto

Matrimonio di Giuditta Savaris e Costante Zandomeneghi

Livio Savaris. Era contadino, con quattro vacche e un maiale. E campicelli, un po’ di qua e di là non lontano dalla Fontanella, sulle rive del torrente Terche. Ha avuto due figli – uno morto in tenera età e l’altro a 33 anni – e tre figlie: Virginia, Giuditta e Cesira. Quest’ultima è tuttora vivente e avrà cent’anni nel 2019. Il nonno dovette espatriare. Lavorò in Germania come scalpellino. Quando rientrava in paese andava spesso nel bosco a far al legna per l’inverno e scaldare l’unica stanza, che faceva da cucina, tinello, stanza da lavoro per le donne. Sapeva pure lavorare il legno. Faceva rastrelli, forche, zoccoli, e tante altre cosette che potevano facilitare la vita del contadino.


Margherita Sbardella-Savaris. Mia nonna era contadina. Le sue vacche, il suo maiale e qualche “pituseta” erano il suo mondo. Ha educato con pazienza e abnegazione i figli. Non ha voluto che Virginia partisse in Svizzera, perché aveva sentito che si poteva contrattare la silicosi nelle filande. Tutte le figlie, però, hanno imparato un mestiere: Virginia, la maglieria, Giuditta e Cesira la sartoria. Alle quattro di mattina era sempre in piedi. Andava a letto a mezzanotte, non prima di aver recitato il Rosario. Donna di poche parole e di una mansuetudine infinita.

Virginia Savaris-Bedogni. Mia mamma faceva la magliaia. Ero “in estasi” quando spingeva di qua e di là l’aggeggio che produceva il secondo “miracolo” della maglia: magliette, sciarpe, berretti, calzini, guanti, ecc. Metteva da parte il “gruzzolo” che mandava regolarmente suo marito dalla Germania. Il suo sogno? Metter su un negozio di scarpe dopo aver comprato una casetta. Mio papà invece la fece venire in Svizzera.

Enrico Bedogni. Originario di Parma incontrò mia madre che era stata assunta da una borghese come balia asciutta. La sposò e venne ad abitare a Villa di Villa. Poco lavoro e pagato male. Fu costretto ad emigrare in Germania. Vita semplice e paga mandata quasi integralmente alla moglie, che la metteva da parte. Una notte, un bombardamento mandò in aria la sua baracca e la fabbrica in cui lavorava. Si trovò in mutande e dovette rientrare in patria. Emigrò dopo breve tempo, come falegname, a Chesières-sur-Ollon. Qualche anno dopo, lo raggiunse la moglie.

Umberto Bedogni. Nato a Zofingen, canton Argovia, da papà Enrico e mamma Virginia, ho vissuto a Safenwil tre anni e mezzo. Poi, fino ai 23 anni, a Villa di Villa, dove ho frequentato la Scuola Elementare. Trascorsi undici anni nel Seminario di Vittorio Veneto, e alla vigilia del suddiaconato, il vescovo Carrara mi ha detto che non poteva ordinarmi prete. Ho raggiunto i miei genitori a Chesières-sur-Ollon, in Svizzera. Ho superato gli esami di maturità à St-Maurice, Canton Vallese, e ottenuto la laurea in Lettere (Latino, Greco, Francese) a Friburgo. Ho insegnato trentacinque anni nel Liceo della città vicina, Porrentruy, nel Canton Giura. E da vent’anni godo di una pensione abbastanza serena.

Bellunesi nel sud del Brasile: la famiglia De Brida da Soffranco

La famiglia De Brida

Partita da Soffranco, in comune di Longarone, la famiglia De Brida fu nel 1878 una delle prime famiglie a stabilirsi ad Urussanga. I capi famiglia erano Domenico, Francesco e Jacintho.
Agli immigrati che arrivavano veniva assegnato un lotto di terra. Poiché i De Brida furono tra i primi, si sistemarono nella zona centrale, all’epoca un territorio vergine, dove nei dintorni non si trovava altro che bosco.
Nel 1879 arrivò a Urussanga una seconda ondata di italiani e, tra questi, la famiglia De Brida era ancora presente. Arrivarono per una nuova vita Giovanni, Gaetano, Giovanna e Francesca.
Sempre presenti nelle azioni di sviluppo del nuovo insediamento, i De Brida si offrirono volontari, insieme ad altre famiglie, per aiutare a costruire la Chiesa Madre “Nossa Senhora da Conceição”, un sogno di tutti.
Oltre a questo, la famiglia occupò una posizione di rilievo nella vitta pubblica locale, principalmente nella sfera politica. Nel 1900 Jacintho De Brida fu nominato primo sovrintendente del Comune di Urussanga. Nel 1970 Lydio De Brida assunse la carica di sindaco e durante il suo mandato, che durò fino al 1973, furono inaugurate diverse opere di grande importanza, come il nuovo palazzo del Municipio, denominato proprio “Palazzo Lydio De Brida”.

Jacintho De Brida

A Lydio, italo-brasiliano, piaceva il calcio. Ebbe una funzione importante nell’“Urussanga Football Club”. Prima come giocatore, poi come allenatore, aiutò la squadra a vincere grandi partite.

Oggi il principale stadio della città è a lui intitolato, si chiama infatti “Estádio Lydio de Brida”. Non erano, però, solo gli uomini della famiglia De Brida ad avere un ruolo nella politica locale. Iris, sposata con Edson De Brida, diventò consigliere del Municipio e poi vice sindaco, con un contributo speciale all’educazione.
Questa è un po’ di storia di alcuni dei protagonisti della famiglia De Brida arrivati nelle terre brasiliane. Come tanti migranti seppero superare le difficoltà e contribuire a costruire un nuovo Paese.

Victor De Brida

Salzen – Urussanga. Storia della famiglia Zanin

Amedeo ed Elisa con i figli

Questo è ciò che conosciamo della storia della famiglia di Avelino Zanin
Francesco e Caterina Zannin, entrambi con lo stesso cognome, vivevano a Salzen, nel comune di Sovramonte.
Vennero in Brasile nel 1881 in cerca di migliori opportunità e nuove prospettive di vita e di lavoro.
Quando arrivarono, non avevano destinazione. Erano in cerca di terra e optarono per la città di Urussanga, nello Stato di Santa Caterina, sud del Brasile. Si stabilirono nel quartiere chiamato “Stazione”, dove era presente la stazione del treno.
Ebbero nove figli: Amadeo, Fortunato, Giovanni, Pietro, Carlotta, Libera, Elisa, Maria e Alessandro.
Dopo la morte di Francesco, Caterina e i bambini si spostarono da un’altra parte. Avevano acquisito nuove terre alla “Colonia Rio Caeté”, sempre ad Urussanga.
Il primo figlio di Francesco e Caterina, Amadeo, si sposò con Elisa Marcon. La coppia ebbe dodici bambini: Francisco, Jose, Luis, Maria, Giovanni, Antonio, Angelo, Avelino, Catherine, Albina, Otavio e Ida.
Amadeo lavorò nel settore delle costruzioni in pietra: costruiva le fondamenta delle case. Inoltre, contribuì all’edificazione della chiesa di Santo Antonio a Rio Caeté e del ponte ferroviario a Laguna, un’importante città portuale a Santa Catarina.

Successivamente si dedicò all’agricoltura e al mulino di famiglia, dove si macinavano grano e mais. Fu Avelino, uno dei figli di Amadeo, ad assumersi la responsabilità di portare avanti la gestione della proprietà del padre.

Si sposò con Maria Tomasi e successivamente lavorò come minatore di carbone presso la “Companhia Carbonífera Urussanga (CCU)”. A quel tempo tanti coloni discendenti degli italiani lavoravano nell’estrazione del carbone, era la principale attività economica di Urussanga e della regione. Anni dopo, Avelino lavorò come falegname nella stessa CCU, fino alla pensione.
Fece anche l’agricoltore nella sua proprietà, come da tradizione dei discendenti degli immigranti nel sud del Brasile.

Luciane Zanin e Luiz José Zanin