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Ricordi di pionieri ad Arborea: «… ma in casa ghemo sempre ciacolà in veneto». Conversazione con Vittoria Peterle

Vittoria Peterle
Foto di Virgilio Alfano

Tempo fa, sfogliando una monumentale opera sulla bonificadi Arborea – già Mussolinia -, mi ero imbattuto in una lettera del 1932 scritta da uno dei protagonisti di quella grandiosa epopea della storia del Novecento sardo. La particolarità non stava tanto nel raccontare ai propri famigliari rimasti nella terra d’origine la vita condotta in Sardegna, quanto nella presenza nel testo della parola “barbagigio”, impiegata per indicare i frutti della pianta d’arachide. Nella piana, salvo il termine italiano, questo legume di origine brasiliana è noto come “bagigio”. Assodato che la maggior parte dei mezzadri arborensi giunseda precise aree del Veneto dove questa parola è utilizzata, la diffusione del vocabolo “barbagigio”, per quanto intuibile nel significato, interessa invece la parte alta della provincia di Treviso e il bellunese, da dove non risultano, se non con qualche eccezione, degli arrivi. Così, alla prima occasione in cui sono potuto entrare in contatto con qualche famigliare, ho cercato di approfondire la questione.
Vittoria Peterle è la figlia di Armelindo, colui che scrisse materialmente la lettera. È nata nel 1933 e oggi vive nell’agro di Arborea, in un podere della strada 22. Ci siamo dati appuntamentoin un pomeriggio d’estate, grazie al nipote Antonio, figlio di un suo fratello, lui stesso desideroso di conoscere parte della propria storia famigliare. I Peterle sono arrivati ad Arborea da Tambre, o meglio da Tambruz, in provincia di Belluno.
È il 14 luglio. Ricorre la presa della Bastiglia, ma alla televisione scorrono le immagini degli ultimi chilometri della tappa del Tour de France, che mostrano per l’occasione il sardo Fabio Aru in maglia gialla. Aspettiamo la conclusione per vedere se il campione di Villacidro potrà continuare a guidare la classifica della Grande Boucle. E così sarà. La televisione può essere spenta, sentenzia Vittoria. Ha molte cose da raccontare e inizia subito con un aneddoto narratole dal padre sul paese d’origine: «Lori i era boscaioi e andavano a taiar la legna. A un certo momento si staccava un, e se portava via il fusile. E come vedeva un cunicio ghe sparava per magnarselo con la polenta. Però quei de Tambre i fa la polenta dura e invece i trevisani (zona d’origine del marito, Ndr) i la fa molla. Cussì lori i la tagliava e i la sentava sora la pianta. Ma la pianta iera taiada in pendenza, e cussì la polenta gà comincià a rodolare, zo da la montagna. E alora un gà comincià a gridare “ciapalaciapalaciapala…” cussì quel col fusile pensava che fossi un cunicio e se gà messo a spararghe! Col fusile no? E invece iera la polenta che rodolava».
Il suo veneto è ancora vivo, forse un po’ italianizzato, ma la cosa straordinaria è che alla sua pronuncia è intercalato un sardissimo “eja” per annuire. Scopro che Armelindo non è mai stato mezzadro della Società Bonifiche Sarde, la S.p.A. che ha realizzato la bonifica della piana di Arborea, e che ha reclutato le famiglie da insediare nei poderi. Egli aveva infatti preso in affitto un appezzamento, vicino a quello che è oggi il campo sportivo, per diventare il primo ortolano del paese, pagando direttamente all’azienda un corrispettivo. Questo motiva l’assenza della famiglia Peterle dal manifesto dei pionieri della “Bonifica Sarda” che la SBS realizzò al tempo e che oggi fa bella mostra in tantissime case dell’agro. Vittoria non ricorda esattamente in che anno il padre sia giunto a Mussolinia, ma è certa che arrivò in Sardegna come carpentiere, insieme ai suoi fratelli Toni e Treo, lavorando per la costruzione del villaggio e in particolar modo del silos.
«Gavevo anca le fotografie con lù davanti, coi ciodi e il martello, ma gò perso tutto. Lori i era gente che andava in giro per il mondo per lavoro. Andavano tanto in Belgio e i l’è andai anca in Sicilia. Mentre i miei zii ze poi ripartii, lù se gà fermà», dice rimarcando la loro abitudine a spostarsi dove il lavoro lo richiedeva. E prosegue: «De là a Tambruz iera tutto un altro ambiente rispetto a qua. Me pupà gà fato de tuto de più. Gaveva anca una trattoria che ancora oggi esiste e se ciama “All’Alba”». Cerca di far mente locale per ricordare i racconti ricevuti, tanto più quelli riguardanti i suoi compaesani, ed è certa che molti di loro facevano cucchiai e mestoli di legno per venderli nella bassa, verso Treviso. «Me disea sempre che lori i era simberli (cimbri, Ndr) e quando che i era arrabià disea delle parole in tedesco. A noantri ghe vegneva da ridere, ma no se podeva se no partiva sciaffe, ma in casa ghemo sempre ciacolà in veneto». Leggenda vuole che le comunità cimbre siano originarie dello Jutland, in Danimarca, e che a seguito della sconfitta subita a Vercelli ad opera dei Romani guidati da Gaio Mario nel 101 a.C. si siano poi rifugiate nelle Prealpi Venete. In realtà, secondo studi più contemporanei, queste popolazioni dalla parlata germanica sono giunte da una zona della Baviera intorno al 1200 d.C.
La comunità dell’Alpago è per giunta di recente costituzione, formatasi da un esodo migratorio da Roana, nell’Altipiano di Asiago (storico insediamento cimbro), incentivato agli inizi dell’800 dall’Arsenale di Venezia, per il recupero del legname nella foresta del Cansiglio, fondamentale per la costruzione degli scafi e degli stessi pali di legno della Laguna. Nella famiglia di Vittoria erano in nove tra fratelli e sorelle. «Alora schei no ghi n’era. I spetava che la gaina fasea “cheocheo” per tirarghe el collo e far el brodo». Vita non facile per quei tempi e il lavoro era sempre in avanzo alla strada 19, tantoche ai Peterle serviva parecchia manodopera: «Allora no iera trattori e se dovea far tuto a man». Prendevano così qualche operaio del posto, ma anche dai paesi limitrofi e per le esigenze straordinarie non si risparmiavano nemmeno i bambini di casa: «Anca noi fioi de nove e diese ani ne tocava lavorare come che tornavimo dalla scuola. Ancora me ricordo quel che se dovea far par la semina». Qualche anno dopo, nello stesso caseggiato colonico arrivò la famiglia Favalessa (da Cessalto), con un figlio di nome Giordano (Cilo), futuro sposo di Vittoria. Più nitidi i ricordi della guerra e dei soldati che bussavano alla porta della loro casa per chiedere da mangiare. «I tedeschi gavea sempre fame, ma quando zè rivai gli americani l’è sta tutta un’altra roba. I vegneva a tor la verdura, però i portava scatolette, formajo e tanto altro». Poi, però, un giorno Armelindo tornò a casa per avvertire tutti che rimanere lì era pericoloso. La possibilità di uno sbarco alleato non era ipotesi remota e il vicino campo sportivo era pieno di militari, bersaglio appetibile per l’aviazione nemica. Si decise quindi il trasferimento nella casa della famiglia della moglie (Cenghialta da Brendola), che all’epoca viveva dove oggi sorge il centro fieristico. Ricevettero due coperte e un paio di sacchi da stendere in terra per poter dormire, con un orecchio sul cuscino e l’altro proteso verso l’esterno, pronto a cogliere qualsiasi vibrazione che poteva annunciare unattacco. Così una notte gli anglo-americani iniziarono a lanciare i bengala per avere più luce e poter eventualmente bombardare, costringendo tutti quanti a cercare rifugio nell’improvvisato riparo antiaereo che si era costruito vicino al canale. I ricordi di Vittoria bambina non si fermano qui e proseguono con il sabato fascista, quando da “piccola italiana” andava a marciare nell’impianto della GIL (Gioventù Italiana del Littorio). Era presente anche alla seconda visita di Benito Mussolini nel 1942. Un’altra volta, invece, pensando di accogliere il duce, la fecero esercitare per giorni e giorni, per un saggio ginnico nel campo di atletica in cui insieme a tante altre compagne avrebbe dovuto formare la scritta “Viva il Duce”. Arrivò invece il triestino Aldo Vidussoni, all’epoca segretario del PNF, che sarebbe tornato alla fine della guerra per trasferirsi con la propria famiglia. Nel 1944, con la caduta del regime anche Mussolinia deve essere defascistizzata. Nasce Arborea, in onore del glorioso giudicato sardo, in linea con quelli che sono i nuovi sentimenti nazionali. L’avvicendamento politico non riguarda soltanto il cambio del nome al centro, ma anche lo smantellamento dei simboli che hanno caratterizzato l’intero territorio italiano per un ventennio. «Allora si aveva la foto del duce nelle case. Quando l’è vignu zo il regime quei de la SBS i la cavaee via. Ricordo anche il busto del duce, quelo de la GIL, che è stato portato via col carrello. La gente i ghe buttava sterco, ghe spudava». Sono così buttati giù a colpi di martello anche i fasci littori dalle case coloniche e dalle stalle, oltre che dagli altri edifici maggiormente rappresentativi della piana, in preda a una furia iconoclasta che non esenta neanche la cittadina che si era fregiata del nome del capo del fascismo. L’Italia repubblicana spazzò via, con molta calma, anche l’entourage della vecchia dirigenza SBS e i terreni poterono così essere finalmente riscattati dai mezzadri che, a partire dal 1955, divenuti assegnatari si associarono in più cooperative. Nel 1967 Vittoria si trasferì nella strada 22, insieme al marito Cilo, quando in seguito all’abbandono delle campagne da parte di moltissime famiglie che ripartirono per le fabbriche del Piemontee della Lombardia, ebbe la possibilità di prendere un podere e mettere su famiglia. Peterle è oggi un nome conosciuto in tutta la Sardegna. La famiglia continua a fare, con fatica e professionalità, ciò che il nonno Armelindo da pioniere dell’orticoltura aveva avviato. Alcuni nipoti negli anni ‘90 hanno perfino aperto un vivaio, oggi leader nell’isola per la produzione di piante e all’avanguardia in Europa per l’utilizzo di tecnologie e sistemi di produzione ,senza aver mai dimenticato da dove tutto ebbe inizio, quando quella polenta cominciò a rotolare nei boschi dell’Alpago… ciapala!Ciapala!

 

di Alberto Medda Costella, da “I ricordi della valigia. Storie di bellunesi nel mondo”; Belluno: Bellunesi nel mondo edizioni, 2017

Storie di minatori

In Belgio ci sono andato per avventura. A quel tempo – era il giugno 1947 e non avevo nemmeno vent’anni – vivevo in città a Belluno e imparavo a fare il calzolaio. Con un amico, guardando sui muri abbiamo visto che avevano affisso dei manifesti in cui chiedevano di andare a lavorare in miniera e promettevano un sacco di cose. Qui c’era miseria e perciò abbiamo deciso di andare. Tanto più che a quel tempo non eravamo nemmeno sicuri che al di là delle nostre montagne ci fosse qualcosa. Ci sembrava un’avventura. Siamo partiti tramite la camera del lavoro di Belluno. Era di domenica, ad accompagnarci c’era un cadorino un po’ più anziano di noi, ma nemmeno lui era troppo esperto. A Padova, aveva guardato gli orari degli arrivi anziché quelli delle partenze e così ci siamo trovati a correre da un binario all’altro. Il treno non aveva carrozze normali, erano carrozze per le merci. Abbiamo viaggiato di notte, con un po’ di paglia per terra. A Milano ci hanno sistemati alla stazione Centrale. Sotto i binari c’erano degli alloggiamenti con letti a castello. Dovevamo aspettare la visita medica. Non sono arrivati subito, siamo rimasti più di una settimana in attesa, con la paura che ci scartassero, invece… i medici ci hanno detto: «Oh, che atleti, e vanno a lavorare in miniera…». Mi hanno perfino chiesto se sapevo correre in bicicletta. Siamo partiti alla sera su un treno. È passata una persona, ci ha guardati e ha detto: «Questi due non li mando a… – non ricordo che nome ha detto –, lì le miniere sono vecchie e pericolose, c’è la polvere e sono malsane. Li mando dove ci sono le miniere moderne» e siamo finiti nel Limburgo, ai confini con l’Olanda, era un bel posto. Abitavamo in una cantina, così la chiamavano. C’erano la mensa, il bar e le casette dove eravamo ospitati. Il primo giorno non avevo nessuna idea di come fosse la miniera. Non se ne parlava nemmeno e nessuno sapeva cosa aspettarsi. Siamo scesi fino a 700 metri dentro a un ascensore grandissimo, nel quale caricavano anche i carrelli, tutti insieme, pigiati. Una volta arrivati, qualcuno ci ha condotti dentro il filone, ci ha messo la pala in mano e un demolitore e così è cominciata. Dentro i cunicoli bisognava strisciare carponi e portarsi appresso il motopicco con un rotolo di gomma per l’aria compressa. Le uniche parole di tedesco che conoscevo erano: “wohin gehst du”, che significa “dove vai”. Ricordo che mentre camminavo nel cunicolo ho sentito chiamare: «Italienisch, wohin gehst du?». Era un tedesco. Lì, infatti, c’erano i prigionieri tedeschi che lavoravano. Si riconoscevano perché la loro lampada aveva un cerchio rosso. Quella dei prigionieri politici, invece, aveva un cerchio blu. Abbiamo cominciato a cavare il carbone con il motopicco e con la pala lo facevamo scivolare nel nastro che lo portava fuori dalla taglia. Vicino a me c’era uno più vecchio, uno che può essere definito un “cattivo maestro”: faceva un buchetto nel carbone, si rannicchiava lì, riparato dall’aria, e diceva: «Basta, basta, che cosa fai? Basta! Abbiamo guadagnato i soldi per noi e anche per il padrone». Poi, però, arrivava il capo arrabbiato, perché nella taglia ognuno aveva un pezzo da finire, segnato col gesso su un sostegno dell’armatura. Quando passava il capo il filone doveva essere vuoto completamente. Si levava il carbone e poi si doveva armare il soffitto, altrimenti crollava. Dopodiché misuravano e ti pagavano in base ai metri cubi di carbone che avevi asportato.Ricordo anche che questo collega più anziano diceva spesso: «L’Italia ci ha venduti per un sacco di carbone», ma io non lo sapevo ancora che c’era stato questo accordo tra il nostro Paese e il Belgio. Non tutti, comunque, ci rimanevano in miniera. C’era chi aveva paura e quelli che non volevano più lavorare li mettevano addirittura in carcere, perché avevano rotto il contratto. Ricordo uno di Nogaré che è stato tre mesi in prigione, ti punivano così. Io, però, a spalare carbone sono rimato poco. Mi hanno spostato nel turno di notte, a disarmare quello che era armato in modo da far spazio alle macchine che venivano posizionate nei punti in cui era stato levato il materiale. Ma di incidenti ce n’erano, altroché. A me non è capitato niente, ma dicevano che ogni tanto qualcuno moriva anche lì, era un mestiere pericoloso. Sono rimasto cinque anni. Poi ho fatto il militare e mi sono trasferito in Inghilterra, a fare un lavoraccio nei laminatoi. Per partire dovevo avere il passaporto e un certificato penale con la dichiarazione del parroco. Era il ’55, ma questi laminatoi erano antichi, di fine ‘800. I rulli per schiacciare il ferro funzionavano ancora con le macchine a vapore. Dopo tre o quattro anni me ne sono andato via, perché quel lavoro era davvero troppo pesante, e mi sono trasferito in Svizzera, a Zugo, a lavorare in una fabbrica di elettrodomestici. Degli anni all’estero ricordo che i rapporti tra noi italiani erano buoni, eravamo tutti amici e ci aiutavamo, ma di fatto eravamo integrati solo tra noi, mentre con la gente del luogo di amicizia ne abbiamo fatta poca.

Antonio Fistarol