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Mattmark, 30 agosto 1965

«Avevo una macchina, un camioncino, e andavo a prendere i pezzi. Stavamo andando nella mensa là vicino, a prenderci una birra. Poi ho detto: “Io resto qui, perché se viene il capo, mi chiama, devo andare”. Infatti è arrivato e mi ha chiamato. Allora ho fatto trecento metri giù e… è venuto giù tutto, e gli altri sono rimasti sotto. Il ghiaccio ha proprio spazzato via tutto, una forza tremenda».
(Giancarlo Maggioni)

«La mia officina è andata sotto a dieci, quindici metri di ghiaccio. Quel giorno dovevo prendere il posto di uno, noi lo chiamavano “bocia”, ma io non l’ho mai visto. Era un ragazzo che doveva andare militare perché aveva diciannove, vent’anni, più giovane di me. Io appena tornato dovevo prendere il suo posto. Fatalità, lui aveva il turno di notte, e era di lunedì. Quel giorno, quando è venuto giù il ghiacciaio, lui aveva il turno di notte e io, naturalmente, prendendo il suo posto, dovevo lavorare di notte. Ero giù in cantina, avevo appena finito di mangiare e dovevo salire. Forse mi salvavo lo stesso, chi lo sa, però la mia officina era sotto dieci metri di ghiaccio. Per fortuna di questo“bocia” sono ancora qua che chiacchiero». 

(Giancarlo Moretti)

«Erano quasi le sei e con l’escavatore mi sono girato, per vedere se arrivavano ancora camion. All’improvviso ho visto questa cosa, ho fatto un salto in avanti e in un attimo… scommetto che quando ho toccato terra era già passato tutto. E con la coda dell’occhio, come ho fatto il salto, ho visto delle baracche sotto, una decina di tavole che sono saltate in aria, e poi tutto coperto. Il ghiaccio si è fermato a dieci metri di distanza dall’escavatore, proprio come un muro. E il giorno dopo volevano che si andasse a lavorare, ma io non sono andato, “basta”, ho detto»
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(Sigfrido Casaril) 

«Il giorno dell’incidente, l’amico Silvano mi consegna un pezzo da portare su. Arrivo su e i miei amici erano là in cantina, andavano a bere la birra. Io ero in officina a chiacchierare con un altro mio amico e in quel mentre arriva Acquis Giancarlo. Mi prende per la tuta e mi dice: “Vieni a bere la birra”, insistendo proprio forte. “No, no” dico, “vado giù perché altrimenti dopo il capo mi può anche sgridare”. In quel tempo che mi sono distaccato da questo Acquis, arriva la corriera, sono salito a bordo, una fortuna, e sono tornato giù. Scendendo non si poteva sapere quello che era successo. Arrivo giù e Silvano mi fa: “Cos’è successo lassù?” “Niente”, dico, “tutto a posto”. Nel mentre, veniamo fuori dall’officina, guardiamo su per la gola, là dove c’era la diga, il cantiere: una montagna di ghiaccio, una montagna. Allora siamo corsi subito su. Se, per caso, la corriera passa via, non ho niente con cui scendere e resto là. E a quest’ora ero già finito». 
(Gino Da Sois)

Destino, fortuna, casualità. Ci sono molti modi per vedere la questione. Fatto sta che quel giorno qualcuno si è salvato, mentre altri sono morti. Quel giorno è il 30 agosto del 1965, un lunedì. Un lunedì come tanti altri a circa 2.200 metri di quota, in una località del Canton Vallese (Svizzera) chiamata Mattmark. Qui, era in costruzione la diga in terra più grande d’Europa.

Il cantiere brulicava di persone provenienti da diversi Paesi, soprattutto italiani. Ogni cosa sembrava procedere come sempre, almeno fino alle 17:15, quando in pochi istanti tutto cambiò. E qui è necessaria una breve premessa: una parte delle officine e degli alloggi dei lavoratori era posizionata sotto la lingua di un immenso ghiacciaio, l’Allalin, che ogni tanto aveva lanciato qualche segnale. Avvertimenti a cui, a quanto pare, non era stato dato peso.

Fino a che, proprio quel 30 agosto, il ghiacciaio si mise in moto: un blocco di circa due milioni di metri cubi di materiale si staccò e cominciò una letale discesa che travolse tutto ciò che incontrò sulla propria strada, persone comprese.

In ottantotto rimasero sepolti sotto un manto bianco e gelido. Erano “gli altri”, quelli per i quali il destino, la fortuna o il caso avevano girato diversamente. Cinquantasei erano emigrati italiani. Diciassette arrivavano dalla provincia di Belluno: Fiorenzo Ciotti, Pietro Lesana e Enzo Tabacchi di Pieve di Cadore; Giovanni Baracco, Leo Coffen, Igino Fedon, Ilio Pinazza e Rubelio Pinazza di Domegge; Arrigo De Michiel di Lorenzago; Silvio Da Rin di Vigo di Cadore; Celestino Da Rech, Giovanni Zasio e Mario Fabbiane di Sedico; Giancarlo Acquis di Belluno; Aldo Casal di Sospirolo; Lino D’Ambros di Seren del Grappa; Virginio Dal Borgo di Pieve d’Alpago.

Un dramma che rimase senza colpevoli. 

(continua)

I tumulti antiitaliani di Aussersihl

Una Little Italy, o forse sarebbe meglio dire una Klein Italien, visto che siamo a Zurigo. Questo era il quartiere di Aussersihl. «Una sorta di baraccopoli di italiani», lo definisce lo storico delle migrazioni Toni Ricciardi nel Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo.

Non solo. Era una «“zona rossa”, vista la massiccia presenza di operai socialisti e anarchici». Furono forse queste caratteristiche a farne il teatro di una delle più gravi violenze xenofobe che la storia zurighese abbia mai conosciuto: i cosiddetti “tumulti antiitaliani”.

Alla fine di luglio del 1896, infatti, ad Aussersihl andò in scena una vera e propria “caccia all’italiano” che costrinse centinaia di famiglie a mettersi in fuga.

Ad accendere gli animi e a innescare l’incendio fu l’accoltellamento di un arrotino alsaziano, morto durante una rissa nella notte tra il 25 e il 26 luglio. Il sospetto ricadde su un muratore italiano. Da qui la rivolta, che finì per investire non solo il presunto assassino, ma un’intera comunità.

Il delitto, in sostanza, fece esplodere la rabbia popolare che covava contro gli immigrati giunti dal Bel Paese, capri espiatori di una guerra tra poveri provocata da datori di lavoro interessati ad abbassare il più possibile i salari approfittando della disponibilità degli italiani a lavorare per paghe che gli svizzeri reputavano troppo basse.

Anche allora, una frase che si è poi ripetuta spesso nella storia e che riecheggia ancora ai giorni nostri iniziò a insinuarsi nei discorsi della gente: gli stranieri “rubano il lavoro” ai locali. 

L’irritazione dettata da insicurezza economica e sociale sfociò così nella violenza fisica.

“Il Corriere della Domenica” dà notizia degli scontri.

«La reazione da parte svizzera – scrive Ricciardi – fu molto dura: tutto ciò che nel quartiere era italiano fu distrutto, tanto che l’esercito dovette intervenire per fermare la rappresaglia e riportare l’ordine». Nel frattempo, però, centinaia di persone erano state costrette a lasciare Zurigo per sottrarsi a quelle ritorsioni.

La giornalista Maria Miladinovic, in un articolo del 2021 pubblicato su tvsvizzera.it, riporta: «Il più importante giornale locale, la Neue Zürcher Zeitung (NZZ), in quel periodo scrisse: “Ad Aussersihl, si è gradualmente sviluppata una profonda amarezza contro i lavoratori italiani immigrati, muratori e lavoratori della terra. La ragione di questa agitazione non ingiustificata sono i numerosi tafferugli notturni in cui i focosi figli del Sud, che sanno come evitare le liti e gli scontri da sobri, fanno uso dei loro coltelli, e in cui sono stati commessi cinque omicidi in poco tempo, sempre per mano di italiani ubriachi”».

Antonia Festini Cappello vedova Trebucchi

Mamma, nonna e bisnonna. Nata a Casamazzagno di Comelico Superiore il 17 gennaio 1929, era la primogenita di otto fratelli in una tipica famiglia di contadini di montagna. Erano tempi duri e già da piccola doveva aiutare nelle faccende domestiche e in stalla. Nel 1939, con l’inizio della Seconda guerra mondiale – Antonia aveva dieci anni – le cose divennero ancora più difficili, e nei sei anni seguenti durissime.

Il padre poteva farsi vedere solo di notte, a volte era in fuga dai partigiani oppure doveva stare nascosto. A metà del 1945, alla fine della guerra, proprio il padre mandò Antonia da una famiglia perché facesse la domestica. Nel 1946 lei ricevette una lettera da parte di uno zio in Svizzera: le comunicava che un imprenditore di Mannersdorf stava cercando una domestica. Antonia si mise subito a disposizione.

Fu così che arrivò a Zurigo con un treno merci. Alla frontiera venne spulciata e lavata a fondo, come di consuetudine in quegli anni quando si entrava in un Paese straniero. Lì venne lo zio a prenderla per accompagnarla dal suo nuovo datore di lavoro, presso il quale rimase per circa un anno. Dopodiché, si trasferì da una famiglia di Bubikon nella cui casa si trovava una drogheria. Antonia lavorava in casa, ma dava anche una mano in drogheria.

Fece amicizia con la figlia di questa famiglia, un’amicizia che durò tutta la vita. Tra il 1948 e il 1949 conobbe Bernardo Trebucchi (anche lui lavorava a Bubikon), che sposò nel 1952. Assieme ebbero tre figli: Gino, Carlo e Daniele. Abitavano in una casa di proprietà della ditta per la quale lavorava Bernardo, a Betzholz Hinwil. Una casa grande, con una cucina grande. E lì Antonia poteva mettere all’opera la sua passione per la cucina. Non sarà stata una cuoca stellata, ma la sua bravura stava nel preparare cibi deliziosi con le poche cose che aveva a disposizione. Ha sempre cucinato per diversi anni anche per i fratelli del marito che abitavano assieme.

Lei ci teneva a vestire bene i figli e siccome per i vestiti ci volevano tanti soldi (che però non c’erano) andava a lavorare di sera in un ristorante per mettere da parte il necessario e comprarsi una macchina da cucire. 

«Quando arriverà la nostra ora, speriamo tu sia qui pronta con il coniglio e la polenta».

Nel 1973 si trasferì con la famiglia a Kempten e nel 1975 a Wetzikon, dove lavorava saltuariamente presso l’IWAZ (qui c’eran anche il marito). Contemporaneamente, lavorava sempre di sera o di notte in albergo e al ristorante. Nel 1985, quando il marito giunse alla pensione, tornarono a vivere in Italia, ma non nelle amate montagne, bensì in una bella casa grande al mare, in Veneto. 

Nel 2001 Bernardo venne a mancare e da quel momento Antonia fece fatica a tenere la casa grande e l’orto da coltivare. Nel 2006, a settantasette anni, colta da nostalgia dei figli e dei nipoti, decise di tornare in Svizzera, a Hinwil, dove ha abitato in un appartamento nel centro del paese. 

A ottantasei anni diventava ogni giorno più faticoso cucinare sempre e quindi preparava il pranzo una volta la settimana.
Nell’ottobre del 2022 le capitò un incidente in casa, mentre cucinava. Un incidente dal quale non si riprese più. Antonia è morta il 2 gennaio di quest’anno, a novantatré anni.

«È incredibile, nostra madre ha tribolato tutta la vita e poi le capita questo proprio mentre cucina!» In quel momento è stato difficile dire qualcosa di confortante, allora le abbiamo detto, scherzando: «Quando arriverà la nostra ora, speriamo tu sia qui pronta con il coniglio e la polenta».

I figli

Una storia di ordinaria xenofobia

di Luisa Carniel

Sono passati cinquantadue anni dalla drammatica scomparsa di Alfredo Zardini, emigrante bellunese vittima dell’intolleranza e della xenofobia svizzera. Zardini, classe 1931, sposato e padre di un bambino di cinque anni, era un falegname originario di Cortina, che lasciò agli inizi degli anni Settanta per cercare fortuna a Zurigo. 

La ricostruzione dei fatti che portarono alla sua morte è questa: da pochi giorni nella città elvetica, la mattina del 20 marzo 1971 Alfredo uscì presto di casa per incontrarsi con il suo futuro datore di lavoro e si fermò per un caffè in uno dei pochi locali aperti a quell’ora, erano infatti solo le cinque. Ebbe la sfortuna di imbattersi in un pregiudicato, sembra già ubriaco, militante della propaganda contro l’accoglienza dei lavoratori stranieri nella Confederazione elvetica. 

Per ragioni mai chiarite, nacque un diverbio tra i due, che presto sfociò in un pestaggio alle spese di Zardini, colpito con calci e pugni da quell’uomo corpulento e poi lasciato agonizzante sul marciapiede, fra l’indifferenza degli avventori del bar prima e dei passanti poi. I soccorsi non furono tempestivi e il cortinese morì durante il trasporto in ospedale, a causa di un’emorragia interna dovuta alle percosse ricevute. 

… non era raro trovare cartelli del tipo “Eintritt für Italiener verboten!” – “Ingresso vietato agli italiani”…

Non fu mai fatta piena luce sui fatti e la stampa svizzera si preoccupò perlopiù di dare la notizia che i suoi connazionali, per protesta, non si erano recati al lavoro il giorno successivo. Il locale venne chiuso per due mesi e poi riaperto; il clima negli ambienti di lavoro divenne pesante, specialmente nei cantieri. Il comune di Zurigo si limitò a pagare le spese di rimpatrio della salma. 

L’agghiacciante episodio suscitò lo sdegno di tutta la comunità bellunese e italiana in generale, anche perché al colpevole fu inflitta una pena di soli diciotto mesi di reclusione, connotando il reato come “eccesso di legittima difesa”. Si cercava in questo modo di sminuire le vicende a chiaro carattere xenofobo, ma il fenomeno era molto presente, sia nei piccoli che nei grandi centri, dove non era raro trovare cartelli del tipo “Eintritt für Italiener verboten!” – “Ingresso vietato agli italiani”, oppure “Kein Entragung Hund und Italiener” – “Vietato ai cani e agli italiani”. 

Erano gli anni del movimento xenofobo riconducibile al politico di estrema destra James Schwarzenbach, determinato a porre un tetto all’immigrazione di lavoratori stranieri in Svizzera e che aveva già portato a un referendum nel 1970. Consultazione che, pur vedendo respinta la proposta di limitazione, aveva ottenuto un consenso pari al 46 per cento dei votanti. 

Il buon risultato incoraggiò i movimenti contro quello che veniva chiamato “inforestierimento” a ritornare subito alla carica con due iniziative analoghe, che raccolsero però minor consenso: 34,2 per cento di voti a favore nel 1974 e 29,5 per cento nel 1977, seguiti da altri referendum, tutti con votazione respinta, nel 1988 e nel 2000. 

Alfredo Zardini viene spesso ricordato come emblema del razzismo contro gli immigrati e a lui il cantante di origini siciliane Franco Trincale dedicò una ballata nel 1979.

Manifesti di propaganda dei referendum indetti per porre un tetto all’immigrazione in Svizzera

Galleria fatale a Robiei

Canton Ticino, 15 febbraio 1966. Lavori in corso nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico tra la valle Bedretto e la val Bavona, la galleria Robiei-Stabiascio-Gries. È notte. Questo lo scenario di una tragedia sul lavoro che colpisce gli emigranti italiani. Una delle innumerevoli e drammatiche vicende che segnano anche il territorio bellunese. 

Uccisi da gas tossici, perdono la vita quindici operai italiani e due pompieri di Locarno.

Dopo tre anni di lavoro senza incidenti che consentono lo scavo di quasi 13 chilometri del tunnel, l’anno prima, a metà 1965, era avvenuta l’apertura del diaframma. Un anno più tardi, quel maledetto 15 febbraio, è prevista l’apertura della saracinesca di scarico che chiude le sezione della galleria a circa tre chilometri dal portale di Robiei. Se ne occupano i pompieri locarnesi e il capo-officina. Tutti e tre muoiono per asfissia. Altri quattordici operai, recatisi sul posto per soccorrere i compagni di lavoro, fanno la stessa fine per la mancanza di ossigeno nel condotto.

È il più grave incidente sul lavoro nella Svizzera italiana. A trovare la morte anche due bellunesi: Angelo Casanova, di Sedico, e Valerio Chenet, di Rocca Pietore.

«Sembra un destino crudele: in ogni disgrazia c’è sempre qualcuno dei nostri», l’amaro commento del nostro mensile Bellunesi nel mondo

«Val Bedretto, Robiei, Stabiascio, altri nomi che escono improvvisamente dall’oscurità e vengono ad aumentare le nostre cognizioni geografiche, accanto a quelli di Mattmark, Sass Fee, Marcinelle, Kariba» riporta la rivista, nel suo primo numero, uscito il 28 febbraio 1966, a pochi mesi dalla nascita dell’allora Associazione Emigranti Bellunesi. 

«Nomi dai più diversi accenti, ma ugualmente carichi di tristezza e destinati a rinnovare un dolore che va facendosi sempre più acuto ed angoscioso. Nomi che ripropongono, nelle sue tragiche dimensioni, il dramma della nostra gente, costretta a cercare, lontano dalla propria terra, il pane per le famiglie, ben sapendo che, assai spesso, la ricerca di una sicurezza economica è un viaggio verso la morte». Così è stato per Casanova e Chenet. 

Per capire chi erano questi due nostri conterranei tragicamente scomparsi, leggiamo ancora da Bellunesi nel mondo del febbraio ’66. 

Il pensiero di loro potrà aiutarci perché la galleria della morte di Robiei non rimanga un freddo e triste ricordo.

«Angelo Casanova aveva quarantaquattro anni. Fu obbligato a trasferirsi a Sedico in seguito alla costruzione del bacino idroelettrico della Valle del Mis, dove abitava con la sua famiglia. “Due volte vittima del progresso – disse di lui il Sindaco di Sedico – una prima volta cacciato di casa, una seconda volta privato della vita”. A Sedico aveva un appezzamento di terra e stava sistemando decorosamente la sua casetta. Aveva ripreso il lavoro in galleria da meno di un mese e con qualche anticipo sul previsto, per guadagnare al più presto quanto gli bastasse ad affrontare i suoi impegni e realizzare il suo sogno. 

Valerio Chenet, il più anziano degli operai italiani: cinquantun anni. Era uomo di grande rettitudine, preciso, competente; un vero esperto del lavoro di galleria, come ci dissero i suoi amici. Da molti anni ormai viveva in Svizzera, a Masciano, nel Ticino. Ma l’aver conservato la cittadinanza italiana indicava in lui il desiderio di ritornare un giorno nel suo bel paese, Rocca Pietore, fra il Civetta e il Marmolada, dove ancora molti lo ricordano. È stato l’ultimo ad essere travato, nella tragica galleria».

«Il pensiero di loro – concludeva l’articolo – potrà aiutarci perché la galleria della morte di Robiei non rimanga un freddo e triste ricordo, ma costituisca un impegno: un impegno di amore e di giustizia: un impegno umano e cristiano: un impegno per tutti».