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I quattro di Zermatt

La storia dell’emigrazione italiana è purtroppo anche storia di tragedie sul lavoro. Famosa quella di Marcinelle, o quella di Mattmark, con quest’ultima che ha coinvolto pesantemente la provincia di Belluno. Anche il nostro territorio, infatti, segnato nei decenni da un massiccio flusso di partenze, ha visto tanti suoi figli perdere la vita all’estero. Un episodio poco noto e quasi dimenticato è quello avvenuto a Zermatt, nel Canton Vallese, il 14 maggio del 1963. Quel giorno, sorpresi dai fumi di monossido di carbonio, persero la vita quattro bellunesi, tutti molto giovani. Il più vecchio, infatti, aveva ventisei anni.

A riportare alla luce quell’indicente sono i fratelli Alberto e Mario Uliana, originari di Visome e anch’essi emigrati in terra elvetica, dove Mario – socio della Famiglia Bellunese di Lugano – ancora risiede. Nel cantiere teatro del sinistro, fino a un mese prima c’era anche lui, appena diciassettenne. Lì Mario e Alberto persero il fratello Alcide, morto da eroe nel tentativo di salvare i suoi compagni di lavoro. Fu proprio Alcide a consigliare a Mario di lasciare quel posto e a trovargliene uno a Zurigo. Alberto, invece, era occupato a St. Moritz, nei Grigioni. Nei Grigioni (a Ilanz) c’era anche il quarto fratello, Gino, mancato a Visome nel 1996.

«Io ero ancora minorenne – testimonia Mario tornando con la mente a quell’epoca – e mio fratello era il mio tutore. Era stato lui a firmare i documenti per farmi entrare in Svizzera e sempre lui mi aveva suggerito di cercare impiego da un’altra parte». 

Alcide Uliana

Non si sa se Alcide avesse intuito i pericoli che un ragazzo poteva correre lavorando in quel posto. Fatto sta che il 14 maggio avvenne la tragedia. È ancora Mario a raccontare: «Stavano costruendo una galleria di rimonta per una condotta che portava l’acqua dalla diga della Grande Dixance alle turbine di una centrale elettrica sotterranea. La squadra di mio fratello, composta da sette persone, faceva il turno di notte». Giunto sul posto, il gruppo si accorse che le cose non andavano come al solito, ma non ci dette particolare peso.

«C’era una colonna che bloccava il materiale delle esplosioni e un sistema di ventilazione che faceva fuoriuscire il fumo – spiegano Alberto e Mario -. Salendo, non videro il fumo, ma pensarono che la sciolta precedente avesse caricato di più e completato la foratura. D’altra parte, mancavano pochi metri, tanto che nella mensa era già pronta la festa per il raggiungimento dell’obiettivo.

Così entrarono e appena i primi varcarono la porticina iniziarono a cadere a terra. Il materiale degli spari aveva bloccato il tubo di areazione e il gas era intrappolato dietro la barriera di protezione». Fu allora che Alcide, rimasto un po’ più indietro, tentò il tutto per tutto per salvare i suoi compagni e amici.

«Riuscì a tirarne fuori tre. Poi cadde anche lui. Quando i superstiti ripresero conoscenza e allertarono i soccorsi era ormai troppo tardi. Alcide lo trovarono metà dentro e metà fuori». Gli altri a perdere la vita furono Sergio Bianchet, Giancarlo Cesa e Luigi Da Rold. I sopravvissuti, grazie ad Alcide, furono Angelo De Pellegrin, Giuseppe Borghetti e Bruno Gherardi, come riportato dai quotidiani svizzeri dell’epoca.

«Non dimenticherò mai il funerale – spiega ancora Mario – era il 18 maggio, il giorno del mio compleanno». Di lì a qualche mese la provincia di Belluno sarebbe stata funestata da un’altra sciagura, quella del Vajont. E poi ancora dal disastro di Mattmark. Ancora vittime. Ancora uomini caduti mentre svolgevano, lontano da casa, il proprio mestiere.

Visome, 18 maggio 1963. Due momenti del funerale di Alcide Uliana.
Immagini gentilmente concesse da Alberto Uliana

Vado via per sette mesi

Mi chiamo Luigi Antole, sono nato il 25 aprile 1925 a Farra d’Alpago. La mia avventura iniziò una sera del lontano 1949, quando arrivò a casa mia una signora da Puos chiedendomi se volessi andare in Svizzera a fare il contadino al posto di suo genero. Dopo averci riflettuto un po’, accettai. I primi di aprile mi arrivò il contratto di lavoro, mia madre mi preparò quel poco da vestire che avevo. Ero d’accordo con i miei genitori di andare via, qui non c’era lavoro.

Il 18 aprile del ’49 mio padre mi accompagnò alla stazione dell’Alpago con la mia valigia di cartone sopra la bicicletta. Giunsi a Venezia, poi a Milano, passai la Svizzera fino ad arrivare a Domodossola. Dopo la visita salii su un treno diretto a Lucerna. Una volta lì presi un altro treno e andai a Rotkreuz per poi salire su un altro treno ancora. Circa a metà strada c’era la piccola stazione di Meierskappel, là scesi, ma era già tarda sera. Dalla stazione arrivai al paese che era quasi buio. Per la strada non passava nessuno, non sapevo cosa fare.

Avevo la pancia vuota, avevo mangiato solo tre panini in due giorni.

Mentre camminavo potevo percepire una musica distante, così decisi di dirigermi verso il luogo da cui proveniva. Giunsi davanti a un ristorante, entrai, c’erano quattro persone che giocavano a carte (lo ricordo bene) e, per mia fortuna, uno di loro parlava italiano. Mi invitarono a sedermi e tirai fuori il mio contratto di lavoro sul quale era riportato il numero di telefono della famiglia di contadini dalla quale sarei dovuto andare a lavorare. Quegli uomini chiamarono il contadino avvisandolo che ero proprio lì in quel ristorante. Mi offrirono anche un bicchiere di birra, avevo la pancia vuota, avevo mangiato solo tre panini in due giorni. Dopo circa tre quarti d’ora arrivò il padrone con una donna, anche lei originaria di Puos. Salutai tutti e andai.

La mattina dopo, finita la colazione, andai nei campi a lavorare. Il mio compito era prolungare dei tubi per concimare il prato. Avevo previsto di rimanere lì per circa sette mesi. Sapevo che la vita da contadino era dura, ma avevo pensato: «Non mi ammazzeranno mica in sette mesi!». Invece continuai a lavorare in quel luogo per cinque anni. Alla fine del 1954, decisi di andare a passare il Natale da mia sorella, che aveva trovato lavoro in una filatura di cotone nel Canton Zurigo, a Wetzikon. Poi tornai in Italia. Nel frattempo, mia sorella aveva chiesto alla sua ditta se potessero essere utili un paio di braccia in più, così il 12 di marzo partii per la filatura.

Il giorno dopo mi presentai al capo e iniziai subito a lavorare. La mia mansione era quella di sfilacciare in una prima fase il cotone nel reparto delle carde. Continuai a lavorare in quella ditta per undici anni. In quel periodo abitavo in una vecchia casa, il mio vicino era un contadino che aveva una grande campagna e vari animali da stalla. Lo vedevo solitamente nel cambio turno, sempre ad arare, smussare, piantare… era solo, ma ben attrezzato. Una sera, tornando a casa, cominciò a piovere a dirotto e suo padre, che era molto anziano, stava cercando invano di coprire con un telo il carro di fieno, così andai ad aiutarlo. La mattina seguente il figlio mi ringraziò per quanto avevo fatto. Iniziammo così a stringere un rapporto sempre più stretto.

Quest’uomo aveva una sorella che lavorava in una tipografia in qualità di segretaria del direttore. In quel periodo stavo cercando un lavoro che mi potesse far guadagnare qualche soldo in più, dato che nel 1964 mia moglie Evelina (ci eravamo sposati nel ’57 e nel ’58 era nato il nostro primo figlio, Claudio) aveva avuto il secondo figlio, Stefano. La ragazza riuscì a farmi avere un incontro con il direttore per vedere se avevo le carte in regola per essere assunto. Alcuni giorni dopo il colloquio, la segretaria si presentò a casa mia per mostrarmi la paga mensile che mi sarebbe stata corrisposta se avessi accettato: la differenza con il lavoro precedente era di novanta franchi al mese, così accettai. Salutai tutti i miei ex-colleghi e, passati tre mesi, iniziai a lavorare alla tipografia, era il 9 agosto del ’65.

Mi mancavano pochi mesi per raggiungere i venticinque anni di lavoro in quella ditta. Una volta arrivato al traguardo, avrei avuto diritto a un ventino d’oro.

Mi diedi sempre da fare, occupandomi un po’ di tutto. I nuovi colleghi mi volevano bene, c’era grande rispetto reciproco. Inizialmente aggiustavo macchinari, poi, man mano, cominciai a imparare le diverse tecniche e guadagnai posizioni fino a ottenere l’incarico di sviluppare dalla pellicola delle fotografie sull’alluminio. Ricordo che il secondo anno sostituii per tre settimane il portinaio, un incarico di grande fiducia nei miei confronti da parte del direttore. Mi svegliavo alle tre del mattino per accendere i macchinari, alle cinque azionavo altri motori, poi distribuivo la posta ai vari uffici, alle sei e trenta andavo a casa a fare colazione e alle sette ero al lavoro per iniziare la mia giornata. Alla sera tornavo per chiudere le porte. Mi mancavano pochi mesi per raggiungere i venticinque anni di lavoro in quella ditta. Una volta arrivato al traguardo, avrei avuto diritto a un ventino d’oro (venti franchi svizzeri d’oro) e a una doppia paga mensile. Ormai, però, io e mia moglie avevamo già deciso di tornare in Italia.

L’ultimo giorno in tipografia, il 30 aprile, salutai calorosamente tutti i colleghi. Avevo portato da mangiare e da bere. Ero un po’ dispiaciuto di abbandonare quel lavoro. Parlai un’ultima volta con il direttore, che mi fece tanti auguri, mi strinse la mano e mi porse una lettera, dicendomi: «Questa mettila in tasca e non farla vedere a nessuno». Una volta arrivato a casa, la aprii e… cosa c’era dentro? Il ventino d’oro e il mensile. Mi erano stati dati per la mia grande generosità in tutti quegli anni. Quando c’era qualcosa da fare, io ero sempre disponibile.

Il 30 aprile feci venire un camion da Vittorio Veneto, caricai tutto il mobilio per portarlo in Italia. Ora sono trent’anni che sono qui, in pensione. Ero partito da ragazzo per fare sette mesi in Svizzera, invece ci sono rimasto quarantun anni. Ah, racconto un’ultima cosa che fa sorridere: quando nel ’90 lasciai la tipografia per venire in Italia, su proposta del direttore mi abbonai a un quotidiano e da trent’anni a questa parte, tutti i giorni, continua ad arrivarmi senza che io debba pagare un solo centesimo!

Si ringraziano Bruno De March e Angelo Caneve per aver raccolto la storia.

Luigi Antole

Sono anch’io un emigrante?

A primavera del 1952, con la fine della quinta classe elementare, si era conclusa quella che amo definire la mia “carriera accademica”. I primi due inverni a seguire, 1952-53 e 1953-54, frequentai un corso teoricopratico per muratori. Solo la parte teorica, tenuta da un geometra nostro paesano. In ogni caso, a dodici anni e mezzo avevo in mano un diploma di muratore.

Proprio nel giorno dell’esame finale incontrai il nostro parroco di allora, don Ernesto Ampezzan, che mi chiese se fossi disposto ad andare a Roma a lavorare nel Seminario Romano Maggiore. Sapevo di cosa si trattava perché alcuni compaesani e amici miei ci erano già stati e mi avevano informato sul tipo di lavoro, nonché sulle condizioni economiche: trecento lire al mese. Così, con la benedizione dei miei, visto che c’era bisogno e sarei stato una bocca in meno da sfamare, feci le valigie per la capitale. Mia madre venne con me fino a Belluno, acquistò il biglietto per il viaggio e aspettammo la partenza. Caso volle che quell’anno il raduno degli Alpini in congedo si tenesse proprio a Roma e così chiedemmo se era possibile viaggiare con la tradotta degli Alpini, il che mi avrebbe evitato di cambiare treno nel bel mezzo della notte. Il permesso mi venne accordato ed ecco che il 18 marzo 1954, alle ore 20:00, ci fu la partenza.

Ebbi anche l’onore di servire il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi Sua Santità Papa Giovanni XXIII.

Arrivammo a Roma dopo circa dodici, tredici ore, allo scalo merci di San Lorenzo perché la Stazione Termini era nuovissima e un treno carico di ex Alpini avrebbe forse creato qualche… difficoltà.
Dopo varie peripezie, con l’aiuto di due dei miei “compagni di viaggio”, arrivai a destinazione e ci rimasi per più di due anni, fino al luglio del 1956. Il mio lavoro consisteva nel fare le pulizie di tutto il seminario. C’erano allora un centinaio di seminaristi, mentre noi eravamo una squadra di ragazzi più o meno della mia età, tutti della provincia di Belluno, in gran parte agordini e zoldani. Un ulteriore nostro ruolo era quello di camerieri. Ai pasti avevamo l’incarico di servire a tavola i seminaristi e i superiori. Non di rado capitavano ospiti di riguardo, come vescovi o cardinali ex alunni del seminario. Tra questi ebbi anche l’onore di servire il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi Sua Santità Papa Giovanni XXIII.

Roma, 1955. Isidoro in divisa da cameriere.

Nella primavera del 1957 mi capitò l’occasione di trasferirmi a Bolzano, dove uno zio aveva una piccola impresa di pittura. Iniziai allora da apprendista la mia vera carriera. Rimasi a Bolzano per i tre anni dell’apprendistato e per un quarto da operaio, mentre nell’inverno del 1960-61 un mio paesano che da anni lavorava in Svizzera mi chiese se non avessi interesse a espatriare. Era pittore anche lui e visto che stava per cambiare ditta, dal suo vecchio capo si sarebbe liberato un posto. Fu così che a marzo del 1961 arrivai per la prima volta a Herisau, nel Canton Appenzell, dove mi trattenni per otto stagioni, fino al 1968.

Appenzell, 1967. Isidoro (sulla vespa) con il fratello Claudio (in basso a sinistra)
e due colleghi di lavoro.

A metà degli anni Sessanta a Herisau venne fondata una delle prime Famiglie Bellunesi, grazie al signor Giacomo Ponte di Lamon e ad altri collaboratori. Anch’io fui tra i soci della prima ora ed ebbi in consegna il gagliardetto della Famiglia, che portai in corteo ai raduni in varie località della Svizzera, tra San Gallo, Sciaffusa, Lugano e così via. Nel 1968 la mia famiglia al completo si trasferì a Bolzano, dove già lavoravano mio padre e due sorelle, e così decisi anch’io di rientrare dopo quasi sedici anni.

Nell’anno scolastico 1969-70 frequentai a Bolzano le scuole medie serali. Grazie al diploma di licenza media – e a una discreta conoscenza della lingua tedesca acquisita negli anni in Svizzera – qualche tempo dopo ebbi la possibilità di entrare alle dipendenze dell’amministrazione provinciale di Bolzano in qualità di assistente ai servizi agrari. Vi rimasi per quasi vent’anni, fino al pensionamento. Nel frattempo mi sposai (nel 1974), ebbi due figlie e ora ho anche due nipoti. Fino al suo scioglimento, fui socio della Famiglia Bellunese dell’Alto Adige.

Anche se non ho visto né l’Australia né le Americhe, sessantasette anni li ho passati fuori dalla provincia di Belluno

Dopo il pensionamento, per un po’ ripresi la vecchia carriera dell’imbianchino, ma da un paio d’anni mi dedico solo alla famiglia: moglie, figlie e nipotini. Un po’ mi vergogno ad autodefinirmi emigrante. Ma in fondo, anche se non ho visto né l’Australia né le Americhe, sessantasette anni li ho passati fuori dalla provincia di Belluno, e continuo a farlo. Con ciò penso di potermi dire “migrante” anch’io.

Isidoro Nardi

Celestino e Adelaide Tissi

ofiti della famiglia di Celestino e Adelaide Tissi
Foto della famiglia di Celestino e Adelaide Tissi

Celestino Tissi nacque a Vallada nel 1873. A vent’anni emigrò in Svizzera, percorrendo a piedi i 550 km che, in una settimana, gli servivano per raggiungere il suo posto di lavoro: con un carretto sul quale aveva sistemato i suoi attrezzi da muratore attraversò i quattro passi del S. Pellegrino, del Costalunga, del Resia e dell’Arlberg. Si insediò a Schiaffusa, dove lo raggiunse la moglie Adelaide e dove formò la sua famiglia, che nel 1986 contava già 47 discendenti.

Fonte: BNM n. 2/1986

Vittorio Gasperini

Vittorio Gasperini nacque a Mellame di Arsiè il 10 agosto 1899. In quegli anni, per gli abitanti di quei piccoli paesi montani l’emigrazione era una necessità. E anche lui fu costretto, ancora bambino, a seguire le orme dei suoi predecessori. Così nell’anno 1910, appena undicenne, lasciò sua madre e la sua patria per raggiungere in Svizzera suo padre Angelo e per guadagnarsi al suo fianco il pane quotidiano. E poiché veniva da una famiglia povera conobbe la fame e le sue conseguenze. Ma a quel tempo anche in Svizzera c’era scarsità di lavoro e questo voleva dire per il giovanissimo Vittorio fare tutto ciò che gli veniva offerto. Il suo talento e la sua operosità vennero subito molto apprezzati dai suoi datori di lavoro. Molto presto ebbe la possibilità di lavorare come aiuto fabbro. All’inizio riscaldava il ferro nella fucina ma ben presto divenne lui stesso un esperto fabbro molto ricercato in tutto il Cantone. E fu anche un cuoco provetto che preparava sul fuoco della forgia il mangiare per i suoi compagni di lavoro. Fu poi assunto nel «gruppo di regia» del Cantone e questo segnò l’inizio di un fortunato avvenire e lo spirito del pioniere che lo accompagnò per tutta la vita ebbe allora via libera. La sua iniziativa e il suo talento lo portarono molto presto ad intraprendere un lavoro autonomo. Già nel 1923 durante gli anni della crisi economica, quando la lotta per la concorrenza era molto tesa, gli riuscì di iniziare ad Ejelen, Attinghausen, l’attività di una cava per l’estrazione e la lavorazione del sasso. Inizialmente tutta la produzione veniva fatta a mano da esperti tagliatori. Dal materiale prelevato dalla roccia si tagliavano dei sassi da muratura e dei cubetti da selciato coi quali sono state pavimentate diverse piazze e strade di tutta la Svizzera, che sono ancora oggi un segno della sua capacità imprenditoriale. Sotto la sua guida esperta l’impresa fiorì in breve tempo. Vi trovarono lavoro 65 uomini, per la maggior parte suoi compaesani, con i quali condivise gioie e dolori, come ai tempi dei cercatori d’oro. Per loro non fu un padrone ma un amico e fra le mura del suo semplice ufficio, fu anche il loro scrivano sempre pronto ad ascoltarli, a consigliarli e ad aiutarli nei loro bisogni. Già alla fine degli anni trenta, per aggiornarsi al fabbisogno della richiesta del mercato, allargò la sua industria attrezzandola per la fabbricazione di materiale macinato che servirà per il fondo delle ferrovie e per la costruzione e la manutenzione di ogni tipo di strada. Ancora oggi la cava da lui fondata è in piena attività. Suo figlio, ing. Vittorio Luigi, la gestisce contemporaneamente ad una importante Impresa di Costruzioni. Nel 1935 fece domanda per l’ottenimento della cittadinanza svizzera per lui e per la sua famiglia. E quale soldato svizzero fu nominato sergente durante la seconda guerra mondiale ed anche in quell’occasione seppe rispondere con entusiasmo e con prontezza al richiamo della sua nuova patria. A 62 anni si è ritirato dal lavoro e ha potuto godere ancora molti anni in buona salute in compagnia della moglie, attorniato dai figli, nipoti e pronipoti. E anche negli ultimi giorni della sua vita ha saputo ringraziare con un sorriso tutti coloro che lo hanno aiutato a superare il periodo triste e difficile della sua malattia. È stato uno dei tanti «Bellunesi nel mondo» sempre fiero di esserlo. 

Fonte: BNM n. 12/1986