Giulio Maresio: un frate vittima dell’Inquisizione
di Antonio Zampiero
La storia di Giulio Maresio, frate francescano bellunese del XVI secolo, è poco conosciuta, persino nella sua terra natale. Eppure, la sua vicenda si inserisce in uno dei periodi più turbolenti della storia europea: l’epoca della Riforma Protestante.
La frattura causata dal movimento riformatore spezzò l’unità religiosa dell’Europa, dividendo il gregge sotto l’autorità del Papa.
In questo contesto drammatico, Maresio divenne il protagonista di uno dei processi inquisitoriali più significativi riguardanti un bellunese, giudicato e condannato dalla Congregazione del Sant’Ufficio, che vigilava attentamente su ogni forma di eresia.
Maresio, deciso ad abbracciare idee diverse dal cattolicesimo, pagò il prezzo più alto per le sue convinzioni, finendo bruciato sul rogo nel 1567.
La sua vicenda, fatta di abiure, ripensamenti, condanne e reintegrazioni, riflette le tensioni politico-religiose di quel tempo.
La Controriforma, con il suo rigido controllo sulla vita spirituale e civile, utilizzò strumenti brutali come il tribunale dell’Inquisizione per soffocare ogni deviazione dall’ortodossia cattolica.
Fu proprio la coscienza di Maresio a essere messa alla prova in questo conflitto interiore. Proveniente da una famiglia benestante, il giovane Giulio fu inviato a Bologna per proseguire gli studi, dove entrò in contatto con il docente Domenico Fortunato.
Giulio Maresio fu un libero pensatore, un uomo tormentato dai dubbi, che scelse la coerenza con le sue convinzioni piuttosto che una vita tranquilla ma ipocrita.
Questi lo introdusse agli scritti di Lutero e Melantone, che segnarono il suo avvicinamento a posizioni eretiche. Nonostante il legame iniziale tra i due, sarà proprio Fortunato a denunciare Maresio anni dopo, diventando il suo principale accusatore.
Il primo processo per eresia di Maresio si celebrò a Venezia, dove venne condannato e costretto all’esilio nel convento di San Pietro a Cracovia.
Tuttavia, la sua anima inquieta ricadde nel dubbio, spingendolo nuovamente verso il calvinismo, grazie anche all’incontro con Francesco Lismarini, un calvinista che lo aiutò a rifugiarsi in Svizzera, allora un crocevia di intellettuali ed esuli italiani.
Il ritorno a Belluno nel 1566, per assistere il padre malato, segnò la sua definitiva caduta. Processato nuovamente, stavolta dal cugino Bonaventura Maresio, fu trasferito a Roma, dove venne condannato a morte insieme al protonotario apostolico Pietro Carnesecchi.
Le accuse contro di lui erano gravi: negazione del libero arbitrio, del primato papale, del purgatorio e dell’efficacia delle opere. In sintesi, era un cristiano protestante.
Ma, ancor prima di essere etichettato come eretico, Giulio Maresio fu un libero pensatore, un uomo tormentato dai dubbi, che scelse la coerenza con le sue convinzioni piuttosto che una vita tranquilla ma ipocrita.
Una massima di un importante filosofo, Cesare Cremonini, nato pochi anni dopo Maresio, recita: “Intus ut libet, foris ut moris est“, “All’interno siamo liberi, fuori come richiedono i costumi”. Sembra che Maresio abbia imboccato un’altra strada.