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Un patriota tra Italia e America

Che cosa unisce il Piave, “fiume sacro alla Patria”, e il Little Bighorn, fiume americano nel Montana? Un Conte nato a Belluno il 26 agosto 1832, Carlo Camillo di Rudio, un uomo la cui biografia sembrerebbe il soggetto ideale per un romanzo o, ancor meglio, per un film hollywoodiano sul vecchio West. Un uomo d’azione che si nutriva di avventura e che con le sue gesta scrisse pagine epiche capaci di risuonare tra i continenti. 

Patriota mazziniano dalle mille peripezie, protagonista dei principali eventi della Storia del suo tempo, di Rudio impresse il proprio nome sulle due sponde dell’Atlantico, partecipando prima alle battaglie per il processo di unificazione nazionale italiano, poi alla guerra di secessione americana e infine alle guerre indiane.

Scampato alla ghigliottina, fu condannato a scontare l’ergastolo in una colonia penale della terribile Isola del Diavolo, nella Guyana francese

Ultimo esponente di rilievo dell’antico casato bellunese dei Nossadani, da convinto sostenitore della causa per l’unità d’Italia lasciò il suo segno nel Risorgimento, tra i Cacciatori delle Alpi di Pier Fortunato Calvi e al seguito di Giuseppe Garibaldi. Fu in questo contesto che il 14 gennaio del 1858, a Parigi, prese parte, assieme a Felice Orsini e ad altri congiurati, al fallito attentato all’imperatore Napoleone III. Scampato alla ghigliottina, fu condannato a scontare l’ergastolo in una colonia penale della terribile Isola del Diavolo, nella Guyana francese, dalla quale riuscì nell’impresa di evadere suscitando grande clamore e sorpresa.

Fuggito in Inghilterra, grazie all’aiuto di Mazzini emigrò in America, dove si arruolò e fece strada nell’esercito. Combatté tra le fila dell’Unione nella guerra civile con i Confederati e nei conflitti di conquista a stelle e strisce ai danni dei nativi americani. Fu ufficiale nel 7º Cavalleria del generale Custer, quello della sonora e leggendaria sconfitta nella battaglia del Little Bighorn del 25 giugno 1876, scontro nel quale persero la vita 268 soldati – e lo stesso Custer – ma non di Rudio, uno dei pochi superstiti, per questo finito sulle prime pagine di tutti i giornali statunitensi.

Congedato nel 1896 dopo una brillante carriera, nel 1904 gli fu riconosciuto il grado di maggiore. Morì a Pasadena, in California, il 1º novembre del 1910. Le sue ceneri riposano in un cimitero militare di San Francisco.

Il Conte Carlo Camillo di Rudio

Uomini nell’ombra

«Venite a costruire i vostri sogni con la famiglia». L’accattivante invito era stampato su un manifesto di fine Ottocento che pubblicizzava le partenze dal porto di Genova verso il Brasile. La descrizione della meta era ancora più seducente: «Un paese di opportunità. Clima tropicale, vitto in abbondanza. Ricchezze minerali. In Brasile potete avere il vostro castello. Il governo dà terre ed utensili a tutti». Il titolo, in grande, garantiva: «Terre in Brasile per gli italiani».

Il fine era ovviamente quello di incoraggiare l’emigrazione. Perché? Volendo pensar male, per riempirsi le tasche con le speranze dei disperati. L’emigrazione, infatti, era un affare redditizio e i piccoli paesini di tutta Italia, da Nord a Sud, cominciavano in quell’epoca a brulicare di nuovi personaggi un po’ loschi e pronti a tutto: gli Agenti di Emigrazione. Una rete di soggetti che, fiutate le opportunità di guadagno, formavano un vero e proprio apparato economico non ufficiale fatto di agenzie e subagenzie. Un mondo parallelo che agiva nell’ombra, in contatto con gruppi affaristici legati alle compagnie di navigazione italiane e straniere. L’obiettivo era riempire i bastimenti e moltiplicare i profitti. I piroscafi solcavano l’oceano carichi di migranti, mentre i potenti proprietari delle società facevano il carico di bigliettoni e navigavano in un mare d’oro.

Agli occhi degli emigranti erano un punto di riferimento perché offrivano assistenza nelle complicate procedure burocratiche da sbrigare per la partenza e facevano da mediatori con il luogo di destinazione.

Un settore talmente fiorente che i dati di fine Ottocento stimavano in 20.000 il numero di intermediari attivi in tutta Italia. In questa intricata macchina da soldi, gli agenti rappresentavano l’elemento di aggancio con il territorio, i procacciatori del business. Conoscevano alla perfezione le zone in cui operavano, avevano contatti e capacità di persuasione, erano costantemente aggiornati sul mercato del lavoro europeo e americano e riuscivano a raggiungere le aree più remote della Penisola. Agli occhi degli emigranti erano un punto di riferimento perché offrivano assistenza nelle complicate procedure burocratiche da sbrigare per la partenza e facevano da mediatori con il luogo di destinazione. Spesso, però, il loro unico scopo era lucrare sulla gente che fingevano di aiutare.

«Ogni genere di truffe fu commesso in spregio della legge, si facevano pagare i noli a coloro che avevano diritto al passaggio gratuito pel Brasile; si speculava sui treni speciali, sulle spese impreviste, sull’albergo, con relativo fattorino, facchino, liquorista a Genova».

Si aggiravano tra mercati, piazze, strade e sagrati delle chiese raccontando di ricchezze straordinarie per coloro che si fossero diretti in America. Senza alcuno scrupolo, promettevano meraviglie e incanti, convincendo interi nuclei famigliari a imbarcarsi verso luoghi in cui ad attenderli c’era invece un destino completamente diverso da quello prospettato. Il 9 settembre del 1898 Luigi Einaudi (futuro Presidente della Repubblica) scriveva sul quotidiano “La Stampa”:

«La legge vigente sull’emigrazione del 1888 riconosce e quasi favorisce legalmente la classe degli agenti e subagenti di emigrazione con cauzione fruttifera ma senza alcuna reale responsabilità. L’effetto della nuova legge fu immediato. Spostati, analfabeti, truffatori di ogni fatta, riusciti a strappare dalle prefetture 20.000 patenti di agente e subagente, si sbandarono per le campagne italiane a fare propaganda presso gli ignoranti contadini, allettandoli con fallaci promesse verso le plaghe più inospiti del Brasile, i cui governanti ad alta voce chiedevano braccia umane a surrogare gli schiavi redenti, fuggiti nei boschi o nelle città!
Ogni genere di truffe fu commesso in spregio della legge, si facevano pagare i noli a coloro che avevano diritto al passaggio gratuito pel Brasile; si speculava sui treni speciali, sulle spese impreviste, sull’albergo, con relativo fattorino, facchino, liquorista a Genova. Sistematicamente gli agenti, per spolpare con più agio gli emigranti, li spedivano a Genova una settimana prima dell’imbarco e li indirizzavano a quei tavernieri che loro promettevano una più larga percentuale sugli utili. Da vent’anni a Genova durava lo spettacolo delle pubbliche strade e delle chiese piene di gruppi di disgraziati emigranti affamati, seminudi o tremanti di freddo in balia di una banda avida di danari. Negli alberghi centinaia di famiglie si vedevano sdraiate promiscuamente sull’umido pavimento o sui sacchi o sulle panche, in lunghi stanzoni, in sotterranei o soffitte miserabili, senz’aria o senza luce, non solo di notte ma anche di giorno. Le derrate, vendute a prezzi favolosi, non sfamavano mai gli infelici. I cambiavalute davano monete false od esigevano grosse usure. L’agente, il subagente, il fattorino, il facchino, il liquorista, il cambiavalute, il taverniere esigevano fino al sangue e l’onore delle loro vittime, perché avevano da pagare e da contentare alla loro volta un’altra turba di vampiri e sottovampiri grossi e piccoli che procuravano i clienti; sicché, a tutti i costi, dalle vene isterilite di quegli infelici doveva uscire sangue e poi sangue per tutti».

Nel 1901 si cercò di porre un freno all’azione degli speculatori con l’adozione della Legge generale sull’emigrazione, che diede vita a un ente di controllo diretto dal Ministero degli Affari Esteri e incaricato di tutelare i diritti di quanti lasciavano l’Italia: il Commissariato Generale dell’Emigrazione (CGE). Per la prima volta una normativa si proponeva di proteggere gli emigranti. Il Commissariato rimase attivo fino al 1927, quando fu trasformato in Direzione Generale degli Italiani all’Estero (DGIE).

Una famiglia di Cencenighe

Prima parte

Sebbene io ami Bologna, città dove sono nata e in cui ho trascorso più di sessant’anni, c’è un piccolo paese delle Dolomiti al quale mi sento legata in modo del tutto speciale: si tratta di Cencenighe Agordino, “Cence”, come lo chiamava affettuosamente Lieta, mia madre, fiera di esserne originaria. Benché fosse stata costretta ad abbandonarlo quando era ancor giovane per lavorare, le era rimasto nel cuore: lì aveva lasciato i suoi adorati genitori, Serafino e Vittoria Soppelsa, alcuni dei suoi fratelli e i cari amici con i quali aveva condiviso l’infanzia e l’adolescenza.

Di quel periodo amava narrare, a me e a mia sorella Maria Vittoria, curiosi aneddoti, e anche raccontarci, non senza una vena di nostalgia, tradizioni e abitudini che le erano care, così come le piaceva utilizzare il suo dialetto non appena se ne presentava l’opportunità. C’è un episodio che meglio di ogni altro dimostra quanto tenesse a Cencenighe: quando, nel novembre del 1966, esso fu vittima di una terribile inondazione, incurante del pericolo, convinse mio padre a raggiungere il paese su una piccola automobile carica di provviste.

La distruzione e le scene macabre che si offrirono ai suoi occhi – l’acqua aveva spazzato via il cimitero – le procurarono un’angoscia dalla quale si liberò a fatica. Raccontò che durante quel tragico evento la nonna aveva generosamente dato asilo a molti compaesani che si erano rifugiati nella sua modesta abitazione ai Coi, dato che si trovava in una posizione elevata rispetto alla piazza invasa dall’acqua e dai detriti.

Sin da quando ero piccola, la famiglia formata dai miei nonni (entrambi del 1872) mi è parsa, a suo modo, speciale. Sebbene come tanti loro compaesani abbiano dedicato tutta la vita al lavoro e alla famiglia, la loro storia, per alcuni aspetti, è alquanto singolare. Serafino e Vittoria si sposarono contro il volere del mio bisnonno materno, il cavalier Giovanni De Biasio, segretario comunale a Cencenighe e uomo di un certo prestigio, come attesta il suo elegante necrologio pubblicato nel 1919. Una foto che conservo gelosamente, nella quale appare con la prima moglie, Giuseppina Riva, ne dimostra il carattere orgoglioso e deciso: elegante e sicuro di sé, ostenta, non senza fierezza, un bel paio di baffi a manubrio, di moda all’epoca.

Perché mai, se non per un sentimento autentico e profondo, una ragazza con le sue qualità avrebbe scelto di unirsi a un giovane di condizione sociale modesta rispetto alla propria, mettendo al mondo con lui, nell’arco di ventisette anni, ben diciassette figli, tanto da divenire una delle donne più prolifiche dell’Agordino?

Il cavaliere non vedeva di buon occhio il fatto che sua figlia si unisse in matrimonio a un semplice scalpellino, mentre si racconta che mia nonna non avesse gradito le sue seconde nozze, ma non voglio credere che si sia sposata per una ripicca, anzi, sono fortemente convinta che quello tra Vittoria e Serafino sia stato un grande amore. La nonna, quando io venni al mondo, era ormai anziana, sfiancata dal lavoro e dalle ravvicinate gravidanze. Nulla era rimasto della sua giovanile bellezza che mostra in una foto in cui appare elegante e acconciata con cura. Perché mai, se non per un sentimento autentico e profondo, una ragazza con le sue qualità, e di ottima famiglia, avrebbe scelto di unirsi a un giovane di condizione sociale modesta rispetto alla propria, mettendo al mondo con lui, nell’arco di ventisette anni, ben diciassette figli, tanto da divenire una delle donne più prolifiche dell’Agordino?

Grazie a questo soggiorno, imparò la lingua tedesca, la cui conoscenza mise più volte a disposizione degli uffici comunali di Cencenighe, dando prova della sua intelligenza pur non avendo potuto studiare

Dal padre, la nonna aveva certamente ereditato il carattere forte, forse temprato dai lutti che si susseguirono nella sua vita, durante la quale – fatto non trascurabile – dovette affrontare anche due conflitti bellici: dapprima la morte della madre, poi quella di numerosi figli in tenera età. Della sua tenacia e del suo coraggio, testimonia il trasferimento che effettuò, assieme ai figli, in Svizzera, ove visse per molti anni, seguendo Serafino a Rorschacherberg, città in cui lui si era recato per lavoro. Grazie a questo soggiorno, imparò la lingua tedesca, la cui conoscenza mise più volte a disposizione degli uffici comunali di Cencenighe, dando prova della sua intelligenza pur non avendo potuto studiare come invece avevano fatto i suoi fratelli, in particolare Silvio, per anni maestro elementare a Falcade-Caviola e autore di interessanti saggi sul territorio, tra i quali La valle del Biois (1928), La valle del Cordevole (1929), La valle fiorentina (1939), oggi reperibili presso la Biblioteca civica di Belluno. Detto per inciso, fu proprio grazie a lui che, assieme a mio marito, ebbi l’onore di stringere amicizia con il grande scultore falcadino Augusto Murer, che gli era stato particolarmente legato.

Vittoria De Biasio Soppelsa

Tornando alla nonna, ella non era avvezza a smancerie e fronzoli, bensì schietta ed essenziale. In tutte le foto che la ritraggono quando non era più giovane indossa lo stesso abbigliamento severo, consistente in un vestito lungo con sopra una traversa, e copre il capo con un fazzoletto annodato dietro alla nuca, che le cinge la fronte fino alle sopracciglia. Non amava manifestare le sue emozioni, tanto da sembrare rigida a chi non la conosceva bene, preferendo esprimersi con i gesti piuttosto che con le parole.

A questo proposito, ricordo un fatto che mi lasciò molto commossa: mentre la mamma, mia sorella e io eravamo in partenza per Bologna, Vittoria mi prese da parte, mi mise tra le mani un pacchettino, dicendomi che era “par el viazz”. Salita in auto scoprii di cosa si trattava…
(continua…)

Patrizia Garelli Rossi

La famiglia Soppelsa durante il soggiorno in Svizzera

Magari col mus de trumboviza*, ma… in America voio andar!

«Carissima Madre Vi vengo a fare sapere che io stago molto bene così spero simile di voi… Cara Mamma io mi spero che me sposerò presto ma non credo di vignir a casa perchè io stago molto bene qui in America… Se per caso mi vengo a casa me tocaria lavorar come un cavallo (presumo intendesse trasmettere una traduzione più raffinata di mus, Ndr) e credo che si sta assai malamente da quelle parti…».

Così inizia una lettera, datata 5 settembre 1923, indirizzata a mia nonna Meniga dal figlio Antonio Solis. Antonio che, dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale per conto del governo asburgico, al suo ritorno a Cherso si ritrovò ad affrontare una vita molto dura e senza alcuna prospettiva futura. 

Sua madre era rimasta vedova in giovane età, con due figlie ancora piccole e un maschio più grandicello: lui, Antonio, che praticamente avrebbe dovuto reggere le sorti di tutta la famiglia in un contesto di miseria e di superinflazione economica. Molti giovani chersini erano nelle sue stesse condizioni e solo il lavoro della campagna e della pesca aiutavano a soddisfare i principali bisogni della loro grama esistenza.

L’attrazione dell’America era molto forte, anche perché altri chersini, già emigrati prima della guerra, mandavano dollari e manifestavano benessere, libertà e lavoro assicurato grazie all’enorme progresso industriale di quel Paese.

La chimera a stelle e strisce rappresentava una forte calamita già verso la fine del IX secolo, ulteriormente ingigantita all’inizio del XX, quando le notizie da oltre oceano riferivano di una spasmodica richiesta di manodopera che procurava facili guadagni, una vita estremamente agiata, con sprechi inimmaginabili e possibilità di ingrumar dolari a palade (raccogliere dollari con la pala).

Così lo zio, poco più che ventenne, grazie all’aiuto del risparmio della madre e al lavoro delle ancor giovani sorelle, racimolò le famose cento lire che in America voio andar e con altri giovani chersini, con il coraggio della disperazione, mista a tanta speranza, salutò la madre, il molo, le Purpurele, la lanterna, S. Salvador e s’imbarcò, con “la valigia di cartone”, per quella che, nel suo pensiero, sarebbe stata la soluzione di tutti i suoi sogni di giovane ambizioso.

Affrontò un viaggio disagiato con altri ragazzi, ma anche assieme a donne e bambini. Tutti stipati nella terza classe di un piroscafo che in due settimane e più di navigazione oceanica, spesso burrascosa, li condusse, esausti e affamati, a “Nova York”.

Non conoscevano l’inglese e alcuni erano semi – o completamente – analfabeti, terrorizzati dall’eventualità di non venir accettati e di essere rimandati al paese di provenienza.

Dormivano su cuccette di ferro, sottocoperta, come topi in una trappola. Mangiavano minestre con contorno di gallette e acqua, rare volte spaghetti. Stringevano amicizie che sarebbero tornate utili all’arrivo per sostenersi e aiutarsi nelle difficoltà del primo periodo e, per far passare prima il tempo, giocavano alla ”mora”, alle carte, a “chi ti ha dato il botto sul palmo della mano girata dietro la schiena”, ma pure si azzuffavano per un nonnulla, avvolti da un tanfo pesante di sudore misto a zaffate di odori sgradevoli.  Era una festa quando potevano recarsi sul ponte esterno!
Non conoscevano l’inglese e alcuni erano semi – o completamente – analfabeti, terrorizzati dall’eventualità di non venir accettati e di essere rimandati al paese di provenienza.

Sbarcarono disorientati con i loro fagotti, in mezzo ai bauli e agli eleganti bagagli dei passeggeri di prima classe, guardati sdegnosamente e scansati come appestati.
Dopo un primo controllo, soprattutto per assicurarsi che i denti e la vista fossero sani, che i documenti fossero corretti e che non appartenessero a partiti politici indesiderati negli USA, vennero trasferiti nella sala di registrazione di Ellis Island, “l’Isola delle lacrime”, quella che veniva considerata la prima importante tappa verso la nuova vita.

Alcuni dei respinti, pur di non ritornare al loro paese, scappavano o cercavano di attraversare a nuoto le acque gelide della baia, trovandovi talvolta persino la morte.

Li attendevano visite accurate, ispezioni attente e precise. Coloro che non le superavano in quanto affetti da malattie curabili venivano segnati sulla schiena con una croce di gesso bianco e avviati all’ospedale. In casi più gravi di malattie ”ripugnanti, contagiose o mentali”, scattava invece il temutissimo rimpatrio.
Alcuni dei respinti, pur di non ritornare al loro paese, scappavano o cercavano di attraversare a nuoto le acque gelide della baia, trovandovi talvolta persino la morte.

Non la conosco esattamente, ma posso immaginare la risposta della madre che, pur nel dolore della lontananza, sarà stata un po’ rassicurata nel sapere il figlio sano e contento, e forse anche disposto a farle avere qualche dollaro o qualche sacco di farina, come annunciavano soddisfatte altre madri di figli o di mariti emigrati chersini.

Prima della lettera era pervenuta pure una foto post card, di quelle classiche da studio fotografico, con il vestito della festa, la penna stilografica che sbucava dal taschino, il cappello di feltro, le scarpe stivaletto e tutti gli accessori che facevano ritenere un raggiunto benessere. Sul retro, ancora rassicurazioni:

«Cara Madre
ti vengo a fare sapere che son san e che non mi manca gniente. In un anno vegnierò. Adio il tuo figlio Antonio Solis».

C’era quindi la speranza di un ritorno!

Dalla speranza alla disperazione
Ma non fu così, e il seguito degli scritti portò tante preoccupazioni e affanni:

Io stago ben, però non lavoro… per un anno e mezzo iero amalato, dunque non sta mi domandar soldi perché non ghe n ò, dunque pensa di non disturbarmi… Io vivo così così perché mia morosa mi dà da mangiar. Io non lavoro e non ti posso mandar niente affatto, nemmeno un soldo».

Da quel momento nella famiglia cominciò l’angoscia e, naturalmente, l’invito pressante a ritornare a Cherso, dove c’erano comunque una casa e delle campagne.

«A mè non importa per la terra e nemeno per la casa, io la mia parte ghe la dò a Concetta (mia madre, la più piccola, Ndr).
Cara mamma fammi a sapere come si trovano le mie sorelle io non so gniente afatto di esse e credo che son sposate (ai nostri opure ai taliani?… dunque fammi assaper… Io volario sapere come si trovano i miei cugini e la cugina, pure zia Mare e il mio zio Francesco o pure i miei amici, dunque non fare a meno di scrivermi».

Le sorelle erano già sposate. Mia madre nel 1921, a 19 anni, aveva sposato mio padre il quale, dopo aver assolto il servizio militare in marina, aveva ottenuto a Trieste la matricola per potersi imbarcare sulle navi della Compagnia di Navigazione Generale Italiana.

Conosceva poco il cognato, ma subiva con dispiacere la tristezza della moglie e della suocera, sempre in grande apprensione per l’incerta sorte del fratello e figlio.

Il destino volle che dopo alcuni anni, con il piroscafo Conte di Biancamano sul quale era imbarcato, proprio mio padre giungesse a New York e, senza riflettere molto, con l’impulso e l’incoscienza dei giovani, abbandonasse la nave per cercare il cognato, ma anche con la speranza di far fortuna.

L’indirizzo in tasca e un po’ di denaro accantonato grazie al lavoro, si avventurò – da irregolare – in quella terra anche per lui sconosciuta, con la speranza di ritrovare Antonio, ma anche Prospero Duda, il marito di sua sorella, emigrato da poco e residente nel New Jersey, dove venivano inviati molti di coloro che non avevano una sistemazione o dei parenti presso i quali alloggiare. 

Non lo trovò all’indirizzo indicato, però venne a contatto con altri chersini che gli diedero ospitalità e lo aiutarono a trovare un’occupazione per un primo periodo di permanenza in America. 

Il lavoro era molto duro, spesso a cottimo, ma mio padre, forte e instancabile lavoratore, pur di guadagnare accettò più occupazioni, anche da sfruttatori, e in poco tempo potè mandare del denaro a mia madre, che da giovane sposa senza figli continuava a vivere a casa della madre. 

Erano rimaste solo in due, dato che la sorella più grande, Anna, si era trasferita con il marito a Fiume e, avendo quattro figli, poteva raramente spostarsi a Cherso.
Mio padre, intanto, appena possibile, continuava la ricerca del cognato, finché riuscì a trovarlo a Newark, dove faceva saltuariamente il pittore. 

diceva di non aver alcuna intenzione di ritornare nella sua isola, pur facendo trapelare un’acuta e quasi patologica nostalgia. 

Non gli sembrò che se la passasse molto bene. Viveva modestamente in casa della fidanzata americana, diceva di non aver alcuna intenzione di ritornare nella sua isola, pur facendo trapelare un’acuta e quasi patologica nostalgia.  Chiese notizie di tutti e si lasciarono con profonda tristezza.
Anche mio padre inviò a mia madre la classica foto con vestito elegante, orologio d’oro con catena al taschino, cappello a larga tesa, scarpe bicolori, sinonimo del conquistato, ambito benessere. Assieme alla foto, l’invito a partire e a raggiungerlo, con la promessa di una vita agiata e comoda. Ma mia madre rispondeva sempre più tentennante. Preferiva rimanere a Cherso, anche per non abbandonare sua madre.

Intanto gli anni passavano e le opportunità di lavoro cominciavano a scarseggiare anche nell’opulenta America. Perlomeno si intuivano dei profondi cambiamenti in una società talvolta cinica e spietata, dove i valori morali e sociali erano in forte declino e dove, a causa di corrotti speculatori, molte imprese senza crediti e liquidità cominciarono a fallire, provocando il suicidio di parecchi imprenditori e la conseguente disoccupazione, con effetti devastanti sull’economia. 

La crisi del 1929
Alcuni risparmiatori, presi dal panico, ritennero opportuno ritirare il loro gruzzolo dalle banche e alcuni emigranti, intuendo il pericolo della disoccupazione, pensarono di abbandonare l’America!

Mio padre lo fece quando la grande depressione del 1929 aveva già prodotto profondi cambiamenti, ma prima di subirne personalmente dei danni irreparabili. 
Arrivò a Cherso con tanti dollari, anche di seta, la valigetta del grammofono e molti dischi 78 giri che, con testi di canzoni amorose e sentimentali, allietarono le feste e fecero cantare mia madre, finalmente contenta di avere il marito con sé. Dopo 11 anni di matrimonio, nacque la prima figlia: Concettina.

Molte banche chiusero i battenti, trascinando con sé altri istituti e l’economia di tutto il mondo

Negli USA erano iniziati i biblici 7 anni di vacche magre. Molte banche chiusero i battenti, trascinando con sé altri istituti e l’economia di tutto il mondo, proprio come avviene oggi in un succedersi di corsi e ricorsi storici. Non solo, l’Europa fu quell’anno duramente colpita dal gelo che imperversò nei mesi di gennaio e febbraio anche a Cherso, quando l’11 di febbraio l’acqua ghiacciò nei bicchieri posti sul comodino delle stanze da letto e fuori si scatenò una tormenta di neve gelida con raffiche fortissime di bora che resero polare il molo e le Purpurele.

Mio zio non fece mai più ritorno e l’ultima sua lettera scritta da New Bedford, nel Massachusset, gelò il sangue nelle vene di tutti i familiari:

«Cara Madre io son molto disperato che non vi posso veder, dunque pazienza, qualche giorno si vedremo e quel che io credo sempre. Non piangere per me io sono vivo per adesso non mi disturbar per i soldi si no non scriverò più. Well… Salutami a tutti addio arrivederci Mamma tanti baci dal tuo filio Antonio Solis xxxxxxxxxxx
Adio Concetta e Anna. baci da me xxxxxxxxx».

Le croci, forse, simboleggiavano i tanti baci. In ogni caso, non si ebbero più sue notizie, nonostante le insistenti ricerche dei miei genitori presso il Consolato americano e presso alcuni chersini diventati nel frattempo cittadini americani.

Il suo sogno americano, illusione dei poveri, speranza e miraggio dei diseredati, si era infranto in chissà quale tragico e crudele destino.

Annamaria Zennaro Marsi

* Era l’asino che trainava il carro delle salme dei Chersini verso il cimitero

Guerra, amore ed emigrazione

Giovanni e i suoi fratelli, Antonio e Giuseppe, emigrarono nel 1904-1905 arrivando, come tanti altri del nostro paese – Arsiè – a Spring Valley, nell’Illinois, per lavorare come minatori. Dopo alcuni anni le loro mogli li raggiunsero.

La vita era dura nei campi di mina di Marquette, le casette misere, nel fango quando pioveva, fra la polvere quando non pioveva. Il sabato sera i minatori scapoli andavano a Spring Valley nelle osterie, tornando a tarda sera, facendo baccano, usando un linguaggio duro. Giovanni e sua moglie Maria, diventati nel 1910 genitori di una bambina di nome Constantina, decisero che quello non era un posto dove allevare una famiglia e nel 1912 tornarono in Italia.

Col passare del tempo nacquero altri due figli, Gaetano e Gino. Poi, ecco che di lì a qualche anno scoppiò la guerra, e il padre fu chiamato militare e assegnato con gli Alpini del Battaglione Feltre. Dopo la disfatta di Caporetto, Arsiè rimase sotto l’occupazione tedesca e fu solo a ostilità concluse che Giovanni venne a sapere di essere diventato padre di un altro figlio, al quale Maria aveva dato il suo stesso nome, Giovanni, appunto.

La guerra era finita, ma le cose in Italia non andavano bene. Giovanni decise di tentare di nuovo la via dell’America: aveva ancora i documenti di cittadino americano, e nessun problema per rientrare. Così nel 1923 lasciò la moglie e cinque figli, la più piccola, Lina, di tre anni. Quando arrivò, trovò lavoro a far pavimenti di terrazzo e non appena i figli compivano i sedici, diciassette anni di eta, faceva in modo che lo raggiungessero in America. Il più giovane, Giovanni (John), giunse nel 1937.

Dato che Lina si sposava e andava in Australia nel settembre di quell’anno, il padre tornò in Italia, con la speranza dì rientrare poi in America. Ma un anno dopo Maria si ammalò e più tardi scoppiò la seconda guerra mondiale. Giovanni non tornò più in America. Conoscendo la gravità del male della madre, anche il figlio suo omonimo voleva tornare per vederla almeno un’ultima volta. Fu tuttavia convinto a non farlo, malgrado il dolore. Già i carabinieri erano stati due volte in casa, visto che non si era presentato quando era stato chiamato al servizio militare.

Nel dopoguerra John venne a trovare suo padre, e trovò pure me. Ci siamo sposati il 13 marzo 1947, dopo un mese di fidanzamento! John è morto nel settembre 2014, dopo sessantasette anni di matrimonio.

Anna Venzon
(Peoria, USA)

Illinois Miners 1903
(fonte: Wikimedia Commons)