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Due fradei

L’éra un giorno belissìmo del mese de maio, quando nel orlo del porto de Genova, ntea distante Italia, due fradei de sangue veneto nele vene, i ga visto par la prima volta la grandessa del mar. Umberto e Amedeo Lisot zera el so nome, due bei tosati, co òcii de color blu, cavei negri e anima pura.

Nte che l’giorno, la belessa del mar ghe tirea adosso na mucia de amirassion, anca insieme sufiea n’arieta fresca co la densità che acaressa so pel, accompagnata del mormòlio sonolento dele onde. L’éera un momento magico, co’ l sol a tramonto nel orisonte e drio portar nel cuor la sensassion che l’mondo zera anza gradevol e belo.

i fratelli Umberto e Amedeo Lisot, figli di Giosuè

Trascorea el remoto ano de 1882 e una stimana avanti i gaveva partiso insieme dei genitori de so paeselo de nassità, ai piè dele “Dolomite” ntea montagneria dei Alpi, provìinsia de Belluno, nel paese Veneto, andove ga i fiori più bei del mondo. Dopo de na stimana nel porto, el signore Giosué, so pupà, ga dito: «Ndemo tossi, l’é ora d’imbarcar nel bastimento, par andare via a lontan a cercare un altro mondo».

infrontando el grando oceano par rivar a so destin, un stragrando paese, che i Signori d’Italia disea che gaveva de tuto par tuti

Alora nel momento dela partensa, co destin a la Mèrica, nel s-ciantin che i fassoleti bianchi sgorleva al vent nte un saludo de Adio definitivo, i ga sentisto che i ghe cavea de rento del cuor la Patria Italia. Viniti sinque giorni de viaio, vinti sinque note de paura, infrontando el grando oceano par rivar a so destin, un stragrando paese, che i Signori d’Italia disea che gaveva de tuto par tuti: dolci ornati co l’sùchero briliante, late e gasose par i bambini, vin bonìssimo, pan e salame par i più vècii, la cucagna par tutiquanti.

… i genitori i ga visto che i se gaveva assà imbroiar par la ilusion de brute busie

Quando i ga riva ntel novo paese, località de “Capão dos Bugres”, che adesso ze la cità de Cassias del Sud, nela Provìnsia de San Piero, i genitori i ga visto che i se gaveva assà imbroiar par la ilusion de brute busie, parvia che no i gi mea trova dolci ornati col sùchero briliante, late e gasose par i bambini, e gnanca vin bonìssimo, pa e salame, i ga trovà solamente la natura e le bèstie de ferossità, alora ntei primi tempi i gaveva el sentimento de ritornar casa al paese veneto, però questo zra impossìbile.

Cossì ga transcoresto la infasnsia e gioventù dei due fradeleti, infrontando la inclemensa dela natura e le bèstie de ferossità, tutavia sempre laorando del s-ciarir al s-curir del dì, co l’pensiero che l’sentido dela so vita zera la fameia, el laoro e la credensa in Dio, inesieme de un sentimento de rispeto al paese che gaveva acoiesto so gente rento del cuor, cossì in pochi ani i gaveva de tuto.

Ademar Lizot
(storia giunta all’Abm grazie a Umberto Lisot e Ester Casagrande)

La targa ricordo

Mi chiamo Francisc Boyer Sumavila, sono venezuelano. Come si può immediatamente comprendere, però, i miei cognomi sono europei. Il mio bisnonno arrivò da Belluno sulle coste venezuelane il 17 febbraio 1877, a bordo della nave “La Veloce”, e si stabilì in un piccolo villaggio che oggi si chiama Araira, nello stato di Miranda. In quella città arrivarono in cerca di un futuro migliore sessantaquattro famiglie italiane e tre francesi.

Il governo venezuelano offrì loro rifugio e terra da coltivare, ma molti degli italiani dovettero modificare nome e cognome, visto che in Venezuela nessuno parlava italiano e risultava difficile per gli abitanti pronunciare i nomi europei. Anche per il mio bisnonno fu così. Si chiamava Antonio Sommavila e alla fine diventò Sumavila o talvolta Sumabila. La bisnonna era Maria Dalmagre e loro figlio – mio nonno – Aristide Antonio Sumavila Dalmagre.

Ad Araira, dove vivevano, le piogge erano forti e in diverse occasioni provocarono delle inondazioni, per questo i registri ufficiali andarono persi e con essi le tracce degli uomini, donne e bambini coraggiosi che attraversarono l’Atlantico e osarono ricominciare da capo una nuova esistenza in terra straniera, sperando in una vita più dignitosa.

Le origini dei primi arrivati furono cancellate dai disastri naturali e oggi rimangono solo i discendenti a mantenere viva la storia italiana.

Nel luogo di arrivo c’è una targa commemorativa a ricordo di tutte le famiglie italiane che ci diedero la vita. In esse risiedono le nostre radici. Nessuno dei discendenti, tuttavia, ha la doppia cittadinanza, che sarebbe importante per poterci trasferire in Europa.

Dopo oltre un secolo, infatti, proprio come i nostri antenati, noi venezuelani siamo costretti a fuggire dalla crisi che attualmente travolge il nostro Paese.

Francisc Boyer Sumavila

La lettera di un altro

Gian Stefano Guerriero nacque a Pedavena il 26 giugno 1932. Cominciò a lavorare all’età di dodici anni, aiutando la nonna nel mulino di famiglia, dove in seguito iniziò a svolgere l’attività di carrettiere, andando a raccogliere grano e a consegnare la farina ai clienti. 

Successivamente divenne meccanico di biciclette, frequentando contemporaneamente l’Istituto Tecnico serale a Feltre. L’ultima stagione invernale in Italia la trascorse lavorando in una segheria. Trovandosi poi senza lavoro, fu il primo della sua numerosa famiglia a emigrare verso la Svizzera. La storia della partenza è legata a una casualità: il signor Guerriero, infatti, partì grazie a una lettera di assunzione. E fin qui nulla di strano. Solo che la lettera era indirizzata a un’altra persona.

Il compaesano Antonio Rech, il vero destinatario, era da qualche tempo emigrato in Australia, cosicché la madre di quest’ultimo, sapendo che Gian Stefano era disoccupato, gli indicò la possibilità di andare a lavorare per l’azienda che richiamava il figlio, precedentemente emigrato in Svizzera nel periodo tra le due guerre. Ebbe così inizio, il 10 luglio del 1951, la storia di emigrazione del signor Guerriero. 

Negli anni seguenti lo raggiunsero, per un’intera vita lavorativa in terra elvetica, i fratelli Maurizio, Pier Giorgio e Quinto, così come i genitori e gli altri fratelli che rimasero però solo per brevi periodi, svolgendo lavori stagionali. 

Arrivato in Svizzera, nella pensione in cui alloggiava, Gian Stefano trovò un amico di famiglia partito un paio di anni prima da Mugnai. Questo amico gli diede una mano ad ambientarsi e a superare le difficoltà iniziali. Per i primi cinque anni il signor Guerriero lavorò con contratti stagionali, riuscendo poi a ottenere un visto annuale. La fortuna che gli permise di partire lo seguì anche all’estero. I proprietari della casa in cui alloggiava – un italiano della Val Camonica e la moglie svizzera, del Canton Nidwalden – col tempo divennero i suoi suoceri.

Negli ultimi diciotto anni lavorò come elettricista presso la Pilatus, una fabbrica di aerei di Stans, nel Canton Nidwalden. Andò in pensione nel 1997, dopo quarantadue anni di lavoro, rimanendo a vivere in Svizzera dove le tre figlie hanno messo su famiglia regalandogli cinque nipoti.

Una partenza in treno.

Come si impara ad apprezzare le cose

Sono di Tambre, ma nata a Rho di Milano nel 1940, perché i miei genitori erano anch’essi emigranti. Poi tornarono in Alpago e nel 1953 costruirono casa. Così si trovarono pieni di debiti e io a quindici anni dovetti andare a servizio per aiutare un po’ i miei, che si sacrificarono tanto. Mio padre faceva il cardatore di lana. Mia mamma era anch’essa a servizio a Milano. Io trovai un posto a Padova.

Ricordo la mattina in cui partii, alle undici, per arrivare a Padova alle sei di sera con la nebbia e un buio profondo. Era il mese di novembre. Non sapevo come trovare il posto a cui ero destinata. A forza di chiedere, giunsi in via S. Pietro 44 e poi su all’ottavo piano di un palazzo. Fui ricevuta senza tanta accoglienza. C’erano una vecchia zitella, due professori e due bambini.

Dovevo prendere due secchi di carbone per tre volte al giorno, facendo le scale perché non c’era l’ascensore. Quando arrivavo in cima ero stanca morta, non ne potevo più. Per giunta non mi davano da mangiare abbastanza, così scrissi ai miei e mia mamma venne a prendermi. Lì quindi ci rimasi solo un mese.

… la mia camera da letto era giù nella cantina, vicino alla caldaia. Una stanzetta di due metri per tre con una piccola finestra che sembrava una grata, più o meno una piccola prigione

Poi trovai un posto a Belluno. Ero contenta, essendo più vicina a casa. Purtroppo mi ero illusa! I padroni erano soltanto due anziani con dodici stanze da pulire di fino, perché la padrona controllava se facevo bene. Però la mia camera da letto era giù nella cantina, vicino alla caldaia. Una stanzetta di due metri per tre con una piccola finestra che sembrava una grata, più o meno una piccola prigione, con un rumore assordante per tutta la notte. Dopo due mesi lì mi abituai un po’.

Un giorno, mentre la signora era fuori, mi misi a cantare. Non mi ero accorta che nel frattempo lei era rientrata… Alla fine, mi diede una lavata di capo, dicendomi che in casa d’altri non si canta. Scoppiai a piangere. Un giorno venne a trovarmi mio padre. La padrona era fuori. Gli dissi: «Papà, vieni a vedere dove dormo!». Quando vide la stanza si mise a piangere e mi disse: «Dalle gli otto giorni e vieni a casa!» e così feci.

Praticamente divenni la pecora nera. Mi dicevano parolacce a non finire, non ne potevo più

Poi trovai un posto in Svizzera, in filanda. Stavo in convitto dalle suore. Là mi trovavo bene, sia dal punto di vista del lavoro che dell’alloggio. Ero contenta. Eravamo tante ragazze, tutte venete e tutte minorenni. Vista la giovane età, le suore non ci consentivano di uscire la sera. Le altre erano arrabbiate per questo motivo e così decisero di andare dal capo della fabbrica a reclamare. Chiesero anche a me di protestare, ma io mi rifiutai: per me andava tutto bene, non sentivo nessuna esigenza di uscire la sera.

Non l’avessi mai fatto! Praticamente divenni la pecora nera. Mi dicevano parolacce a non finire, non ne potevo più, finché decisi di andare via e per fortuna trovai un altro posto dove finalmente fui proprio felice, tanto è vero che ci rimasi un anno e mezzo, fino a quando tornai a casa per sposarmi.

Questa fu la mia emigrazione. Però tutto mi servì per essere contenta di ogni cosa e per imparare ad apprezzare ciò che ho, poco o tanto.

Anno 1956. Dipendenti di una filanda di Siebnen nel convitto delle suore in cui vivevano.

L’angelo degli emigranti

Correva da poco il primo ventennio del Novecento quando una coppia di bellunesi, da poco emigrati in Canada e residenti a Glace Bay, nell’isola di Cape Breton in Nuova Scozia, decise di mettere su famiglia. Erano entrambi di Fonzaso e portavano un cognome italianissimo: Bianchi, Antonio lui e Rina lei. Fu così che nel 1923 nacque la loro primogenita, Mary, la prima di altri cinque figli, un maschio e ben quattro femmine.

Nel 1936 tutta la famiglia rientrò in Italia, a Fonzaso, e pochi anni dopo visse il tragico evento della Seconda guerra mondiale. Mary era un’adolescente con una marcia in più, anche per il fatto di essere in possesso di un invidiabile bilinguismo, a quegli anni davvero insolito e raro. E fu proprio grazie alla lingua inglese, oltre che al suo fascino, che conobbe Albert “Lofty” Shipp, un soldato inglese di stanza in Italia durante il conflitto. Fu il classico colpo di fulmine. Si innamorarono e alla fine della guerra si sposarono e andarono ad abitare in Inghilterra.

Al momento dell’ingresso nel Regno Unito, Mary rischiò di essere scambiata per la Mata Hari del dopoguerra. Era in possesso di ben tre passaporti: canadese, italiano e inglese, che innocentemente esibì alla dogana. Si susseguirono telefonate alle varie ambasciate finché tutto venne a fatica chiarito e da quel momento Mary optò per l’uso esclusivo del passaporto canadese, così da evitare guai peggiori.

Mary Bianchi Shipp divenne a Niagara un punto di riferimento per tutti gli italiani

Nel 1954, Mary e suo marito decisero che il Canada, che lei conosceva benissimo, era un grande Paese, sicuramente il posto giusto anche per loro. Scelsero l’est, dove Mary aveva altri parenti. Si stabilirono a Niagara Falls, uno dei luoghi più suggestivi al mondo, da dove non si mossero più per il resto della loro vita. Mary Bianchi Shipp divenne a Niagara un punto di riferimento per tutti gli italiani che nel dopoguerra emigrarono in quella zona. La sua competenza a proposito di iter burocratici, fiscali e contabili la portò a occupare impieghi di prestigio, senza mai trascurare di impiegare parte del suo tempo alle problematiche relative all’immigrazione.

Fu sempre attenta e disponibile a trarre d’impaccio chi ne aveva bisogno, tanto da essere la storica fondatrice della Famiglia Bellunese di Niagara Falls. Ospitò regolarmente nella sua casa parenti lontani e amici pressoché sconosciuti, trattando tutti con garbo, gentilezza e disponibilità fuori dal comune.

Ancora a novantadue anni suonati amava sedersi di fronte al computer, navigare in internet, spedire email ad amici e parenti

L’improvvisa scomparsa di Lofty la mise a dura prova, ma anche in quell’occasione seppe reagire facendo appello alla sua grande forza. Ancora a novantadue anni suonati amava sedersi di fronte al computer, navigare in internet, spedire email ad amici e parenti, collegarsi con loro e soprattutto dialogare in dialetto bellunese o in italiano, sempre con una proprietà di linguaggio perfetta.

Quando si spense, l’8 ottobre 2015, le campane di Fonzaso suonarono per lei, rendendo doveroso omaggio a una figlia lontana che tenne alto il senso di appartenenza alle radici bellunesi. Nell’alto del cielo, lanciando lo sguardo oltre il campanile, verso il monte Avena, durante i rintocchi qualcuno giura di aver visto un sorriso tra le nuvole: di certo Mary era lì e ascoltava felice.

Mara Slongo

Mary Bianchi Shipp