di Flora Costa
Racconto tratto dal libro: Vivo due amori… le Dolomiti e la Lorena, di Flora Costa; Bellunesi nel mondo edizioni, 2018
Autunno 1945, Brunico. Della guerra rimaneva soltanto un orrendo ricordo. I liberatori erano arrivati, tutto stava trasformandosi. Il sorriso sul viso della gente, il cielo sembrava più azzurro, il sole riscaldava di nuovo l’anima e il cuore di tutti coloro che vivevano ancora. I soldati americani erano postati ad Alleghe, facevano bollire una grande quantità di caffè il cui aroma si diffondeva nell’aria, sopra il magnifico lago.
Ne distribuivano a tutti, e tutti arrivavano da ogni villaggio per prendere una pentola di questa bevanda. Nei lunghi anni di guerra ne avevamo dimenticato il sapore.
La guerra mondiale ebbe fine, lasciando desolazione e disoccupazione. Non c’erano più mezzi di trasporto, i negozi erano vuoti e chiusi. Si poteva sopravvivere soltanto con ciò che si produceva, ma avevamo resistito al caos di quei lunghi anni.
Un bel mattino la postina, che si chiamava Bortola “Postina”, portò una lettera a mio padre. Proveniva da Falcade, Valle del Biois. Una persona che veniva dalla Svizzera tedesca, Cantone di Glarona, invitava mio padre a passare a casa sua. Mio zio Vittorino, fratello del papà, aveva pregato questo signore di Glarona di portarci la lettera, chiedendo che ci incontrassimo affinché potesse darci sue notizie. Anche mio zio, infatti, abitava a Glarona con la famiglia di cinque figlie. Purtroppo, però, durante il lungo tempo della guerra non era stato più possibile comunicare. Questa comunicazione fu per noi una grande sorpresa. Era bello, dopo così tanto tempo, avere loro notizie e saperli sani e salvi.
Accompagnai mio padre, prendendo la strada della forcella, che permetteva di raggiungere il comune di Vallada molto più presto che non con la statale. Arrivando a Falcade con un indirizzo in mano trovammo la casa dell’emigrante in Svizzera che aveva per noi notizie dello zio. Dopo aver bussato alla porta una signora aprì e ci chiese che cosa volessimo. Dopo aver visto l’indirizzo ci fece entrare dicendo: «Mio fratello deve parlare con voi, entrate». Un signore ci salutò con tanta gentilezza, apparentemente stava bene. Era vestito bene, elegante, e subito capimmo che in Svizzera non avevano conosciuto le privazioni e la paura, mentre noi eravamo in cattive condizioni e privi di tutto.
Il brav’uomo, salutandoci, diede a mio padre una busta con una lettera e una bella somma di franchi svizzeri. Vidi mio padre commuoversi fino alle lacrime, i suoi occhi erano ingrossati dallo stupore. Queste brave persone insistettero perché pranzassimo con loro.
Alla fine, salutandoli chiedemmo se volevano portare a mio zio un pacchettino e una lettera quando sarebbero ripartiti. Ricordo bene ancora oggi, che sono molto anziana, la grande emozione provata alla vista di quei soldi. Da tanto tempo ne avevamo dimenticato il colore. I miei genitori poterono pagare i mesi di ritardo presso la cooperativa di consumo. Certe opere buone, come questa, rimarranno scolpite per sempre nella mente di coloro che le hanno ricevute.
Le privazioni di quegli anni difficili avrebbero trasformato lo spirito dell’essere umano rendendolo più saggio e umile per il resto della sua esistenza. Gli anziani dicevano che uno sbaglio è un insegnamento che servirà a percorrere le vie del mondo con più sicurezza e serenità.
Lo zio emigrante faceva di mestiere il “maler” (pittore), ma era nato con la camicia. Lo diceva la nonna Maria, sua madre, intendendo dire che era nato sotto una buona stella.
Nella Svizzera, dopo la guerra, aveva cominciato a fare il muratore assieme a un amico italiano. Prestarono il loro saper fare fabbricando dei lotti di case operaie, doppie, con due entrate, oppure singole. Case composte da quattro o sei appartamenti. Era nato fortunato, ha vissuto felice e contento, dotato di una fede profonda, sostenendo materialmente la restaurazione o la costruzione di monumenti sacri, chiese e capitelli al suo paese natale.
Dopo la fine della guerra ho avuto modo di stare tanto tempo accanto a lui. Morì all’età di novantaquattro anni, sepolto nella bella Glarona, dove ogni anno, finora, ho potuto raccogliermi in visita alla sua ultima dimora.
Subito dopo la guerra, dopo aver letto la lettera di mio padre e il mio timido scritto, appena poté ottenere il lasciapassare un bel giorno comparì davanti alla nostra casa. La gioia di tutti fu grande, ci fu festa in casa con polenta e coniglio e salsiccia fresca. Il festino batteva il pieno, ma lo zio dimostrò con le lacrime agli occhi tanta tristezza. I suoi genitori erano scomparsi durante i tristi anni della guerra.
Lui era generoso, mi regalò una collana di perle nere color ametista. Avevo compiuto diciannove anni e mi disse: «Hai il fidanzato? Vuoi sposarti presto?».
Io risposi: «Non è possibile, zio, non possiedo niente, non ho niente per poter creare una famiglia. Ci vuole un po’ di biancheria, un po’ di soldi. C’è il moroso, ma è tutto».
Zio Vittorino mi guardò e disse: «Vuoi venire in Svizzera? Ti faccio assumere in una fabbrica di filatura e tessile che si trova proprio nella nostra piccola città. Starai in casa con noi e con le tue cugine. Iolanda, la tua cugina più grande, sarà contenta. Che ne dici?».
Senza esitare un solo istante buttai le braccia attorno al collo dello zio, così generoso, disponibile. La sua proposta era molto sensata e promettente. Risposi: «Oh, sì, caro zio! Voglio andare in Svizzera a lavorare in fabbrica, guadagnare soldi per poter comperare la stoffa e cucire un corredo degno di una sposa».
Appena rientrato a Glarona, lo zio mi inviò una lunga lettera che diceva: «Sono andato dal direttore Fenny e gli ho spiegato di avere una nipote in Italia desiderosa di lavorare nella sua fabbrica. Il direttore, molto compiaciuto, mi ha risposto che poteva assumere non solo mia nipote, ma anche un gruppo, se fosse stato possibile, perché ha bisogno di manodopera. Allora, cara nipote, spedisco una richiesta rilasciata dal direttore e per mezzo di questa puoi richiedere i documenti necessari al Comune e un passaporto al Consolato svizzero a Venezia».
Contenta come una Pasqua, presentai la domanda in municipio e cercai sei ragazze del nostro paese, tutte orfane di padre, provenienti dalle famiglie più bisognose. Dopo aver preparato una lista del gruppo, consegnai la cartella in Comune e un mese dopo gli incartamenti furono pronti per presentarli all’ufficio del Consolato svizzero.
Nel frattempo ero stata impiegata all’Albergo “Alle Alpi” ad Alleghe, come cameriera da tavola. Era l’estate del 1946. Le Dolomiti cominciavano ad essere visitate da una grande moltitudine di turisti, soprattutto provenienti dalle città del Nord Italia.
La sala da pranzo di questo magnifico albergo era sempre piena, segnava “completo” ogni domenica. Avevamo come pensionanti tantissimi veneziani. Il padrone dell’albergo era nato a Venezia e per questo molti clienti venivano dalla bella laguna.
Fra i pensionanti che conoscevo già, una coppia mi fece la gentile proposta di darmi un passaggio fino a Venezia e di dormire una notte a casa loro, così potevo portare i documenti al Consolato. Per il ritorno mi sarei affidata alla grazia di Dio.
Arrivò la domenica della partenza, verso sera. Il calore di agosto era un po’ meno soffocante. Fui accolta in un appartamento in pieno centro di quella bella città. Non mancava niente, cibo, bevande, un letto confortevole, una camera molto carina. Purtroppo, però, non riuscii a dormire. L’aria mancava, si soffocava a Venezia in quella bella notte di agosto. Dalla finestra potevo contemplare la luccicante laguna sotto il chiaro della luna piena.
Il lunedì, di buon mattino, mi inoltrai in centro città, camminando incerta di seguire la via giusta per raggiungere il Consolato svizzero. Di tanto in tanto, con timidezza, chiedevo la direzione. Era un po’ complicato, ma senza scoraggiarmi, chiedevo e chiedevo di nuovo, e mi arrabbiavo con me stessa, dicendomi che ero una ignorante, nata nelle alte montagna e fatta per restarci. Che cosa venivo a fare in quella grande città, con acqua dappertutto?
Con gentilezza, la gente mi diceva: «Dopo cinque vie deve girare a destra, e dopo altre quattro a sinistra». In quelle strette stradine pedonali mi sembrava di perdere la bussola, era pazzesco. Ogni tanto, passando davanti a una porta, sentivo l’odore di cucina: pesce fritto e polenta, mi faceva venire l’acquolina in bocca! Decisi di fermarmi, entrando in una bettola, un ristornate piccolo, ma molto accogliente. «C’è un menù unico», mi dissero. Polenta e pesciolini fritti, con un bicchiere d’acqua, poiché avrei dovuto essere sobria per scoprire dove si trovava il Consolato svizzero.
Avevo saziato il mio stomaco vuoto, mi sentivo più fiduciosa, più sicura di me. Infatti, dopo alcune vie… destra… sinistra… apparve il palazzo tanto cercato. Ebbi la fortuna di non dover fare una lunga attesa, consegnai le cartelle del gruppo e mi informarono che le pratiche avrebbero avuto bisogno di qualche mese. I passaporti sarebbero stati spediti al nostro Comune.
Facendo nuovamente tutte quelle stradelle per il ritorno, cercai di trovare piazzale Roma. Forse, con un po’ di fortuna, avrei trovato un passaggio via Belluno-Agordo. Le corriere erano tante, ma nemmeno una con direzione Belluno. Miracolo, oppure provvidenza, vidi un’auto con la targa di Feltre. Come fare? L’auto era parcheggiata, bisognava avere pazienza. Senza perderla di vista e girando attorno alla piazza, pensavo a come trovare una via di scampo.
Mentre mi rompevo la testa, cercando di capire come fare, incontrai una coppia con un bambino che portava un cappellino in testa, una piccola gondola in mano e trascinava i piedi, evidentemente era stanco. Seguii la coppia con lo sguardo e notai che si avvicinavano all’auto di Feltre. In fretta mi avvicinai e chiesi un passaggio. Con grande cortesia mi risposero che con piacere mi avrebbero portata fino a Feltre.
Durante il percorso fra la laguna e Feltre, più di una volta mi addormentai, ma subito il bimbo mi toccava il braccio. Si era compiaciuto delle storielle che gli avevo raccontato per divertirlo e chiedeva un bis. Era carino, intelligente, curioso di sapere le cose che si possono dire soltanto a un bambino.
Pensai che anche io avrei avuto dei bambini, un giorno non tanto lontano, ma prima avrei dovuto partire e andare, purtroppo, all’estero e lasciare il mio paese natio. Chissà come sarebbe apparso il mio destino. Questa idea di una prossima partenza verso un orizzonte sconosciuto e lontano mi rattristò l’anima. Che dire? Che fare? I disegni erano già tracciati, non si poteva più cambiare il corso delle vita.
A Quero Vas salii sul treno fino a Belluno e qui, all’ultimo momento, riuscii a salire sulla corriera Buzatti con fermata ad Agordo. Ad Agordo bisognava trovare una camera per passare la notte. Salendo sulla corriera, salutai una giovane signora che stava già seduta. Le dissi che dovevo andare a Caprile. «Ma questa si ferma ad Agordo – mi rispose –. Io abito in centro ad Agordo e posso ospitarla per una notte a casa mia». «Grazie mille» dissi, molto commossa. Quando c’è bisogno, si presenta sempre una soluzione, pensai. Questo fatto si chiama “provvidenza”.
Ci vuole sempre la speranza e la riconoscenza, poi un giorno segue l’altro. Il tempo scappa via e la terra gira attorno al sole, vicina o lontana secondo le relative stagioni, senza mai gettare l’ancora un solo giorno… un solo istante. Così fuggono gli anni, come le pagine di un libro, e gli avvenimenti in ogni pagina che, girandosi, trascina lontano. Soltanto il ricordo rimane nelle menti di coloro che inesorabilmente diventeranno diversi, anziani, dicendosi ogni giorno: «Non sarò mai più giovane come lo sono adesso».
Continua…