Un tragico ricordo

Riportiamo la testimonianza di una donna che nel 1965 lavorava a Mattmark, nel Canton Vallese, in Svizzera, teatro di un disastro costato la vita a ottantotto persone, di cui cinquantasei italiane e diciassette bellunesi.
Il 30 agosto, attorno alle 17:15, una parte del ghiacciaio Allalin, sotto il quale erano posizionati officine e alloggi dei lavoratori, si staccò iniziando una letale discesa che travolse tutto ciò che incontrò sulla propria strada. I bellunesi che trovarono la morte furono: Fiorenzo Ciotti, Pietro Lesana e Enzo Tabacchi di Pieve di Cadore; Giovanni Baracco, Leo Coffen, Igino Fedon, Ilio Pinazza e Rubelio Pinazza di Domegge di Cadore; Arrigo De Michiel di Lorenzago di Cadore; Silvio Da Rin di Vigo di Cadore; Celestino Da Rech, Giovanni Zasio e Mario Fabbiane di Sedico; Giancarlo Acquis di Belluno; Aldo Casal di Sospirolo; Lino D’Ambros di Seren del Grappa; Virginio Dal Borgo di Pieve d’Alpago.

***

Arrivai a Mattmark, con mio marito, nel 1962. Ogni giorno seguiva la stessa routine. Noi donne, cariche di cibo caldo, ci radunavamo di buon mattino nella cucina del cantiere, pronte a distribuire i pasti agli operai che lavoravano ai piedi del ghiacciaio. 

Salivamo con la corriera, sfidando il freddo e la fatica, per servire colazioni, pranzi e cene nella “cantina”, proprio sotto la montagna di ghiaccio che incombeva su di noi. 

Eravamo un gruppo affiatato, circa una quindicina di donne, tutte impegnate a rendere meno pesante la giornata di quegli uomini che, con le mani screpolate e i volti segnati, si battevano contro la natura per costruire la diga.

Lavoravamo anche di notte, partendo verso mezzanotte per portare il cibo fino alla diga. Iniziavamo alle undici e mezza, tornando stanche ma soddisfatte di aver fatto il nostro dovere. 

Quel giorno, come tanti altri, svolgemmo il nostro lavoro. Arrivammo al cantiere di buon’ora, portammo il cibo e rimanemmo lì fino a quando l’ultimo piatto fu lavato. Poi, verso le due del pomeriggio, tornammo alle nostre baracche, pronte per riposare qualche ora prima di riprendere il lavoro serale. Ma quella sera, il destino aveva deciso diversamente.

Il cantiere era tutto un susseguirsi di sirene, un continuo viavai. Soprattuto, era un luogo di dolore...

Erano circa le cinque quando un pezzo del ghiacciaio, che avevamo imparato a conoscere e temere, si staccò dalla montagna con un fragore che riecheggiò per tutta la valle. La frana travolse tutto ciò che incontrava sul suo cammino, cancellando in pochi istanti vite e sogni. 

Per fortuna, noi donne eravamo al sicuro, lontane da quel disastro, ma il terrore ci attanagliava il cuore. Ricordo ancora la sensazione di impotenza, il freddo che penetrava non solo nel corpo, ma anche nell’anima.

Nei giorni successivi, il cantiere era tutto un susseguirsi di sirene, un continuo viavai. Soprattuto, era un luogo di dolore. Gli operai scampati alla tragedia portarono giù i corpi dei loro compagni, e io non potevo fare altro che osservare, paralizzata dallo shock. Quel che più mi colpì fu la piccola chiesetta vicino al cantiere, dove furono portati i corpi, un’immagine che ancora oggi mi tormenta.

Dopo quel giorno, il lavoro divenne insostenibile per me. Non riuscivo più a rimanere lì, a convivere con il ricordo di ciò che era accaduto. Il terrore era troppo grande, così, alla fine, presi la decisione di andarmene. 

La paura era diventata troppo grande, e sapevo che non avrei mai più potuto lavorare in quel luogo senza che il ricordo di quel disastro mi tormentasse. Lasciai il cantiere con il cuore pesante, sapendo che non sarei mai più tornata.

Il ricordo più forte che mi rimase fu il terrore di quella frana e il dolore di chi aveva perso tutto. Un ricordo che, ancora oggi, mi accompagna e mi fa rivivere quei momenti di angoscia e disperazione.

Rita Dal Pan

Rita, in ombra, nel refettorio del cantiere, sotto il ghiacciaio. La baracca è stata spazzata via il giorno della tragedia

La valanga di ghiaccio che ha travolto il cantiere

Tra Belgio e California

di Giuseppe Carrera

La storia siamo noi, l’incipit di una famosa canzone ci offre lo spunto per una riflessione: la Storia del nostro passato è il risultato delle tante piccole storie minori di persone comuni che, con le loro esperienze di vita, i sacrifici, la resilienza, le delusioni, i successi, i sogni, compongono il disegno finale di un paesaggio complesso e articolato.
Una di queste ci porta a Gosaldo, il 4 giugno del 1931.

È la data di nascita di Delfino Alberto Bressan che, come tanti bambini della sua età, trascorse un’esistenza semplice, segnata dalla dura realtà della vita rurale e montana, con il lavoro fisico unico mezzo per sostenere la famiglia. Crescendo, Delfino imparò presto quei valori di fatica e determinazione che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita.

Visse gli anni della fanciullezza e della gioventù in un periodo storico difficile e controverso, caratterizzato dal ventennio fascista e dalla Seconda guerra mondiale. Nel suo percorso incrociò situazioni particolari e drammatiche e divenne testimone, diretto e indiretto, di diverse tragedie che caratterizzarono gli anni Cinquanta e Sessanta.

All’età di 26 anni, nel 1957, era già un uomo maturo e, viste le scarse opportunità di lavoro, come tanti agordini e bellunesi fu costretto a lasciare la propria terra e i propri affetti per cercare un futuro migliore all’estero, più precisamente in Belgio, nella Vallonia nota per le miniere di carbone, attratto – come tanti altri italiani – dalle promesse del famigerato “manifesto rosa”. Partì nonostante l’anno prima, l’8 agosto del 1956, duecentosessantadue minatori avessero perso la vita nel drammatico incidente al Bois du Cazier di Marcinelle.

Malgrado la consapevolezza del pericolo, la decisione era presa e per circa due anni, dal 1957 al 1959, lavorò in una miniera vicino a Liegi. Di quel periodo rimangono alcune fotografie che lo ritraggono in vari momenti di lavoro, da solo o con i colleghi. In alcune immagini lo si vede a fine turno con il viso e la tuta completamente neri per il carbone. Con un buon bagno tornava pulito, ma i suoi polmoni ogni giorno respiravano quella maledetta e insidiosa polvere che nel tempo sarebbe stata letale.

Ans, provincia di Liegi, 28 gennaio 1957. Delfino è l’ultimo a destra

Prima di iniziare il turno di lavoro
A fine turno

Intanto, nel suo paese natio, più precisamente a Vallalta, nella località denominata California, si stavano creando nuove situazioni che avrebbero cambiato il suo futuro.

Nel 1957 la Società Mineraria Vallalta, del gruppo Montedison, elaborò un progetto per la rinascita del sito minerario di Vallalta: da indagini e studi sul territorio emersero importanti potenzialità del giacimento. Vennero quindi messe in campo diverse attività preliminari per iniziare le attività di ricerca e coltivazione dei giacimenti. La vecchia mulattiera venne resa transitabile, si portò la linea elettrica a 380 V, vennero ripristinate vecchie gallerie, la O’Connor e Todros, e scavati nuovi pozzi fino alla profondità di centosessanta metri.

Delfino, probabilmente informato da parenti e paesani, ne venne a conoscenza e si candidò come minatore alla Società Vallalta, che accettò la sua richiesta. Delfino fu entusiasta di poter abbandonare le miniere di carbone in un Paese senza luce e di poter tornare al suo paese di origine, nella sua verde e soleggiata vallata, vicino ai propri cari.

Nelle miniere di Vallalta prestò servizio per alcuni anni tra il 1960 e il 1962. Si recava al lavoro a piedi, scendendo da casa sua giù per la valle fino alla California dove, insieme ai suoi compagni di turno, raggiungeva la miniera. Lavorava otto ore al giorno per sei giorni la settimana, forando la roccia, caricando l’esplosivo e facendolo brillare. Il mercurio si presentava allo stato liquido e in grande quantità.

Dopo la fase di ricerca e individuazione del minerale, si procedeva su altri settori, con altri scavi. Questa attività di ricerca avrebbe poi portato, nella seconda fase, alla produzione e coltivazione vera e propria.

Si creò un buon rapporto tra dirigenti e maestranze, senza scioperi e proteste e con una bassa incidenza di infortuni, nonostante il contesto lavorativo di particolare pericolosità. Nel gennaio del 1962, però, ecco i primi segnali di ciò che avrebbe posto fine ai sogni e alle aspettative: infiltrazioni d’acqua nelle gallerie che sembravano inizialmente di poco conto si rivelarono in poco tempo fatali.

Per l’intera comunità questa terribile sciagura rimase per molto tempo una ferita aperta.

Delfino raccontò che il pomeriggio del 19 gennaio, verso le 19:00, mentre stava per ultimare una fase del suo lavoro di perforazione, lui e il suo compagno di turno improvvisamente vennero investiti da un forte getto d’acqua che allagò velocemente la galleria.

A stento riuscirono a uscire e a dare l’allarme, ma nel frattempo tre colleghi erano scesi nel pozzo per il loro consueto turno di notte. La mattina seguente, alle 7:10, l’arganista Angelo Pollazzon, dopo aver sentito il segnale di salita, mise in azione l’argano che subito si bloccò.

Si sporse alla bocca del pozzo per capire la causa e rimase sconvolto da quanto vide: dal condotto, impetuosa, risaliva una colonna d’acqua. Rimase colpito e interdetto e, compresa la gravità della situazione, lanciò l’allarme. Nelle gallerie scavate in precedenza e non segnalate nelle mappe erano entrate copiose quantità d’acqua che avevano saturato gli spazi vuoti.

Con l’alta pressione creatasi, arrivò la rottura del sottile diaframma tra le vecchie coltivazioni e i nuovi avanzamenti e il conseguente allagamento dell’intera struttura. Per le maestranze in superficie furono momenti drammatici al pensiero dei tre sfortunati colleghi scesi la sera prima nel pozzo.

Il giovane perito minerario Vito De Cassan, di La Valle, e i minatori Bruno Bedont, di Tiser, e Antonio Carrera, di Carrera, si trovavano lungo il pozzo a centotrenta metri di profondità, senza alcuna via di fuga. Il loro destino era segnato.

Vani i tentativi di vigili del fuoco, militari, carabinieri e maestranze per portare loro soccorso. Solo dopo dieci giorni le salme vennero recuperate con grande difficoltà, dato il continuo innalzamento del livello dell’acqua.

Il 30 gennaio 1962, nella chiesetta di California, il vescovo Gioacchino Muccin celebrò il funerale e una folla immensa si strinse intorno a parenti e amici delle tre vittime. Per l’intera comunità questa terribile sciagura rimase per molto tempo una ferita aperta.

Inevitabilmente, il tragico evento rappresentò una battuta d’arresto per la società Vallalta, costretta ad abbandonare il progetto e a trovare nuovi siti minerari. Oltre al lutto, ci fu un impatto negativo per l’economia locale e per l’occupazione. Delfino e i suoi colleghi furono costretti a cercare un altro posto di lavoro nella vallata, oppure a emigrare.

Gli anni successivi furono caratterizzati da eventi naturali drammatici che sconvolsero e misero in ginocchio la provincia di Belluno e la vallata agordina. Nell’ottobre del 1963, l’immane tragedia del Vajont. Nel 1966, l’alluvione che interessò gran parte dell’Italia. Il 4 novembre del 1966, il colpo di grazia per la comunità di Gosaldo: la California fu spazzata via dalle acque impetuose dei due torrenti alla cui confluenza si trovava il paese.

La California e le miniere di Vallalta vennero negli anni dimenticate e del vecchio insediamento rimasero solo alcuni ruderi, via via fagocitati dalla vegetazione. La comunità seppe comunque reagire e trovare nuove idee ed energie per riprogrammare il futuro.

Ciò che rimane oggi del vecchio sito minerario di Vallalta

Delfino non abbandonò mai il suo paese e la sua casa natale e, per il forte attaccamento alle proprie radici, non emigrò più, trovando impiego nella Forestale. Gli anni passati in miniera insidiarono però il suo fisico. Si ammalò di silicosi, e fu costretto per anni a respirare a fatica e con l’ausilio dell’ossigeno.

Dopo tanta sofferenza, con il conforto della moglie e dei suoi cari, Delfino, detto Giando, esalò il suo ultimo respiro l’11 febbraio del 1993, all’età di 62 anni.

Le informazioni contenute in questa storia ci sono state gentilmente fornite da Barbara Bressan, figlia di Delfino.

Il Centro Studi sulle Migrazioni “Aletheia” cerca foto, lettere e documenti dell’emigrazione bellunese

Nella foto Giuseppe Carrera durante la digitalizzazione di alcune lettere scritte da emigranti bellunesi

L’Associazione Bellunesi nel Mondo (Abm) continua a preservare e promuovere la memoria storica dell’emigrazione bellunese grazie al suo Centro Studi sulle Migrazioni “Aletheia”. Questo centro, nato con l’obiettivo di custodire e rendere accessibili online le testimonianze di una delle pagine più significative della storia di Belluno, rappresenta oggi uno strumento indispensabile per chiunque voglia conoscere e comprendere le vicende di migliaia di famiglie bellunesi che, spinte dalla necessità, lasciarono la loro terra in cerca di un futuro migliore.

Uno dei progetti più recenti e significativi del Centro è la digitalizzazione di lettere di emigranti bellunesi scritte tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento. Questo lavoro prezioso, attualmente in corso sotto la guida di Giuseppe Carrera, consigliere dell’Aabm, sta portando alla luce documenti di straordinario valore storico e culturale e rappresentano un tesoro di informazioni sulle condizioni di vita, i sentimenti e le difficoltà affrontate dai nostri emigranti in terra straniera.

Una volta completata la digitalizzazione, tutto il materiale sarà reso disponibile sul sito del Centro Studi, www.centrostudialetheia.it, offrendo così a studiosi, discendenti di emigranti e a tutti gli interessati, la possibilità di accedere a queste testimonianze dirette comodamente da casa. Questo archivio digitale non sarà solo una risorsa per la ricerca storica, ma anche un ponte tra le generazioni, capace di mantenere vivo il ricordo di chi, con sacrificio e coraggio, contribuì alla crescita economica e culturale di Belluno, pur vivendo lontano dalla propria terra d’origine.

L’iniziativa non si ferma qui. L’Associazione Bellunesi nel Mondo invita calorosamente tutte le persone in possesso di lettere, fotografie o documenti legati all’emigrazione della propria famiglia a condividere questo patrimonio con il Centro Studi. Il materiale sarà attentamente digitalizzato e restituito ai proprietari, arricchendo ulteriormente il già vasto archivio del Centro e contribuendo a costruire una memoria collettiva sempre più completa e accessibile.

In un mondo in cui le radici e l’identità rischiano di perdersi nella frenesia della modernità, il lavoro del Centro Studi sulle Migrazioni “Aletheia” assume un valore inestimabile. Grazie a questa iniziativa, la storia dell’emigrazione bellunese continuerà a vivere, non solo nei libri di storia, ma anche nei cuori e nelle menti delle future generazioni.

Per maggiori informazioni e per contribuire a questa nobile causa, è possibile contattare l’Associazione Bellunesi nel Mondo al numero 0437 941160 o tramite email all’indirizzo aletheia@bellunesinelmondo.it.

Storia di un sognatore – seconda parte

La prima parte è disponibile QUI.

Non ci sono giornali, non ci sono stamperie, però le pasquinate scritte a mano si affiggono sulle pareti di questa o quell’osteria con il beneplacito del padrone. Capraro non si scompone; non reagisce come Marforio. Usa mezzi più drastici: compera l’osteria e assiste, con un sorriso sardonico, allo sfratto. Certo, non sono operazioni gentili, però non c’è tempo per incertezze o tentennamenti.

Si arriva così al tempo della Prima guerra mondiale. Capraro, da buon patriota, convince e recluta vari volontari che partono per l’Italia e per i fronti. La festa di addio si svolge con vari canti e auguri. Qualcuno, purtroppo, non ritornerà. I nemici di Capraro approfittano anche di questi fatti per criticarlo e calunniarlo. «Manda gli altri!», dicono, «però lui non ci va!».

Capraro stavolta non ci bada. Non ne vale la pena…e poi lui ha passato già i quarant’anni.
Con frequenza deve viaggiare nella capitale, Buenos Aires, e allora visita ministri, segretari e ministeri, con progetti e sogni per ingrandire Bariloche, per convogliare alla zona dei laghi turisti e amanti della montagna.
I progetti vanno a terminare nei cassetti, con vaghe promesse. Poi cambia il governo (cosa frequente in Argentina) e bisogna ricominciare da capo la via crucis da un ministero all’altro. Capraro non si scoraggia. Altre volte arrivano personaggi illustri, come Teodoro Roosevelt, il principe di Galles e il duca di Kent.

Verranno pure scrittori e giornalisti, come Ada Elflein e Ernesto Morales. Allora il giornale “La Nación” si abbellirà con fotografie e scritti descrivendo la zona dei laghi, ma sarà solo uno sprazzo di luce perché poi tutto si ferma: Bariloche è troppo lontano.

Capraro inventa altre cose. Un bel giorno si diffonde una notizia strabiliante. Vicino a Bariloche, nella laguna Epuyen, è stato visto un plesiosauro. Immediatamente si forma una spedizione capitanata da Clemente Onelli, romano, direttore del giardino zoologico di Buenos Aires.

Con lui viaggiano giornalisti, fotografi, scienziati, ecc. ecc. La comitiva visita il lago, lo scruta, lo scandaglia… niente da fare. Il plesiosauro è sparito. Visitano allora (e descrivono) la zona e continuano a cercare. Poi la spedizione, sconfitta, ritorna a Buenos Aires. Nessuno, però, avverte come Capraro se la rida sotto i baffi, con sbirciatine d’intesa con Clemente Onelli. Saranno stati d’accordo? Sarà stata tutta una farsa? Non si saprà mai. Quello che a Capraro interessava era che i giornali parlassero della zona e raggiunge il suo scopo: i giornali parlarono.

A quell’epoca Bariloche era cosmopolita. C’erano italiani, tedeschi, austriaci, svizzeri, francesi, danesi, inglesi, nordamericani, spagnoli, cileni, argentini (pochi)… e Capraro molte, moltissime volte, è padrino di nozze o di battesimo. Le feste, per tali eventi, sono veramente feste: piene di allegria, di buon umore, di canti. Voleranno anche degli scappellotti, ci scapperà qualche coltellata (è di moda) ma poi tutti si rappacificheranno senza rancori.

Il caso è differente quando ci sono battesimi. Siamo in guerra e se il neonato è figlio di tedeschi il nome da imporre sarà Guglielmo o Francesco Giuseppe. Oppure, se è figlio di italiani, sarà Vittorio, Giorgio, Alberto, o con nomi più simpatici come Trento.

È il 4 ottobre. D’un tratto si sente un colpo e un tonfo. Nel mezzo della stanza sta Primo: è caduto


La difficoltà della scelta sorge quando il bambino è figlio di padre svizzero-francese e di madre svizzero-tedesca. La Svizzera è neutrale da secoli e non ha nulla a che vedere con la guerra. Come si chiamerà il bambino? Capraro salva capra e cavoli: lo chiama Neutral! E il nome rimane.

È finita la guerra. Arrivano nuovi emigranti e Bariloche si rinforza con altri nomi italiani, bellunesi e castionesi: De Barba, De Col, Candeago, Dal Farra, Della Gasperina, De Pellegrin, Fant e tanti, tanti altri.
Bariloche continua a crescere e le forze avversarie pure. Capraro sente già il peso degli anni e delle responsabilità e comincia a notare degli sgretolamenti.

Capraro è contrattista delle ferrovie dello stato. Già ha costruito il ponte sul Rio Negro, tra Patagones e Viedma. Il treno si avvicina, giorno per giorno, a Bariloche. Il treno! È sempre stato il sogno di Capraro portare il treno a Bariloche, e ora sta per vederlo realizzato.

Ha preso l’incarico di costruire la scarpata da Comallo al Nahuel Huapi. Gli impegni sono ogni giorno più rischiosi. Deve moltiplicarsi per realizzare ciò che si è proposto, senza tener conto che il giorno ha solamente ventiquattro ore e che il calendario non si può stirare. Ogni sforzo ha il suo limite e ogni illusione pure. Passare oltre è un delirio. Non si può stare nello stesso tempo a Pilcaniyeu sorvegliando i lavori, al municipio di Bariloche per attendere ai doveri della carica, al Correntoso per affari personali e a Buenos Aires per reclamare paghe arretrate, paghe che lui ha già abbonato agli operai di sua tasca.

L’anno 1930 è un anno disastroso per le finanze di tutto il mondo e gli effetti si sentono pure a Bariloche. Le paghe tardano e gli operai protestano. Capraro, ancora una volta, le affronta a sue spese, e a sue spese affronta, per accelerare il tempo, la scarpata dal ponte sul torrente Nirihuau a Bariloche. È la fine, però lui non si arrende. Farlo sarebbe dimostrare debolezza e questo può permetterselo chiunque, però non lui. E continua a lottare. Gli ostacoli si moltiplicano. Quello che ieri sembrava un nonnulla oggi si converte in una montagna di difficoltà.

La scarpata arriva fino a Bariloche; anche le rotaie ci sono. Manca solo il treno, testimonianza irrefutabile del suo spirito di impresario, commerciante, industriale, agricoltore, politico, edile e lavoratore. Sembra ormai che abbia vinto, sembra ormai che il suo sogno si converta in realtà.

Arriva così il mese di ottobre del 1932. Capraro sente che c’è qualcosa che non va, qualcosa che non cammina, che lo ha tradito e si ritira al Correntoso, nella sua casa in mezzo ai boschi e in riva al lago, solo.
È il 4 ottobre. D’un tratto si sente un colpo e un tonfo. Nel mezzo della stanza sta Primo: è caduto, caduto per sempre. Tra le mani ha una rivoltella che ha reso possibile il suo passaggio all’eternità. È sua? È stato lui a spararsi? È stato un altro? Non si saprà mai.

Noi pensiamo: come è possibile che lui, l’indomito, l’invincibile, si sia lasciato vincere, abbia ceduto alla debolezza?
Capraro è sparito ma il suo spirito rimane! Rimane, squilla perenne della sua figura, del suo amore per il lavoro, per la Patria Italia e per la Patria Argentina, ma soprattutto per San Carlos de Bariloche, meta dei suoi sogni, vero paradiso terrestre in Argentina, scoperto e fatto conoscere al mondo da lui, Primo Capraro.

Bariloche lo ricorda ogni anno. Una strada, la diagonal Capraro, una scuola, quella dell’Associazione culturale Germano-Argentina, e un monumento, dichiarato monumento nazionale. Da quest’ultimo Capraro guarda, giorno e notte, il lago Nahuel Huapi, il suo lago, e sorride quando vede le acque azzurre riempirsi di vele e di imbarcazioni e migliaia e migliaia di turisti che, passandogli davanti, rispettosamente lo salutano.

Storia di un sognatore – prima parte

12 marzo 1873. Siamo a Castion, frazione di Belluno. Nella casa dei Capraro un vispo bimbetto apre gli occhietti alla vita. È il primogenito e, filosoficamente, il padre lo chiamerà Primo. Quando gli nascerà un altro figlio, sarà chiamato, logicamente, Secondo.

La fanciullezza di Primo trascorre uguale a quella di tutti gli altri bambini: scuole elementari, bisticci con i compagni con qualche pugno, ecc.
Poi frequenta la scuola industriale di Belluno, dove si iscrive a un corso di costruzioni, dato che ha il bernoccolo della matematica. È già un bel giovinotto quando la Patria lo chiama al servizio militare e compie il suo dovere nel Genio. Tre anni dopo, quando ritorna, è già uomo fatto.
Siamo nel 1897 e Primo è disposto a lanciarsi per il mondo, sicuro delle proprie forze.

Ha sentito parlare dell’America e anche lui pensa a quelle terre lontane, ma, prudentemente, pensa che è meglio incominciare da poco. Rotti gli ormeggi incomincia il viaggio. Punto di partenza: Castion; punto di arrivo: be’ quello lo dirà il destino. Prima di lanciarsi all’America, e come misurando le proprie forze, visita paesi vicini all’Italia. Teme che la nostalgia gli giochi qualche brutto scherzo. Conosce così l’Austria, la Svizzera e la Germania. E proprio in Germania, sulle rive del Reno, conosce a una ragazza. Vorrebbe farla subito sua sposa, però comprende che per formare una famiglia è necessaria anche una certa posizione economica e lui ha solo due braccia, forti e robuste, una volontà di ferro e un cuore che trabocca di amore.

Non è sufficiente, così almeno pensa, e aspetta. Intanto lavora e risparmia. Sogna l’America e là non bisogna andare a casaccio e studia il posto. Arriva a Londra. C’è una compagnia che cerca gente e lavoratori per mandarli nelle miniere di Pachuca (Messico). Primo si presenta e in pochi minuti ha un contratto in mano. Ci sono anche dei compagni e anche loro sono contrattati. Primo, quasi automaticamente diventato capo e direttore della squadretta, aveva assicurato loro un avvenire prospero in una miniera d’oro e li aveva convinti a seguirlo. Partono così per il Messico. Incominciava il secolo ventesimo. Il viaggio si svolge senza inconvenienti.

Arrivati in Messico si presenta, contratto alla mano, all’amministrazione della miniera e qui succede il finimondo. Il gerente della compagnia non riconosce né il contratto e neppure i padroni della miniera, dato che il governo messicano ha concesso a lui tutti i diritti immaginabili e possibili. Primo ascolta e non si raccapezza. Poi, filosoficamente, alza le spalle e se ne va. «L’America è grande!» dice.

E i compagni che aveva entusiasmato? Primo non perde coraggio e ancora una volta li convince a seguirlo. Passa così al Perù, però anche qui non c’è niente da fare. Passa al Cile e arriva a Santiago con nessuna speranza di lavoro. Il gruppo si sgretola e anche Primo deve confessare, a malincuore, che è stato sconfitto. «Bisogna ritornare in Italia – dice – e per farlo ci sono due strade. O attraverso l’Argentina oppure aggirando lo stretto di Magellano».

Il gruppo sceglie il primo itinerario e, poco dopo, si sfascia. Primo aspetta a partire perché gli è venuta un’idea. Si ricorda che, stando a Londra, ha ascoltato una conferenza di Francesco Pascasio Moreno che diceva mari e monti di una zona della Patagonia e decide di andare a vedere.

Arriva alla zona dei laghi cileni e già sente qualche cosa nell’aria: paesaggi meravigliosi, degni delle zone più belle del mondo. Continua il viaggio e, superato il passo Perez Rosales, rimane con gli occhi spalancati. Capraro ammutolisce. Capraro è montanaro, credeva di aver superato la stregoneria e l’incanto delle montagne e qui, invece, l’innato amore alla montagna risorge, forte, prepotente. Ecco, là in fondo, il Tronador, il Lanin; e, più vicino a lui, il Lopez dalle pareti imponenti, e il Catedral, tutto una guglia; e poi altri e altri ancora, monti che si specchiano nei laghi limpidi e azzurri, e le isole, e i ruscelli saltellanti tra pietre e tronchi.

Capraro è sbalordito e lì, su due piedi, decide. Si sente come un nuovo Cristoforo Colombo. Se il genovese ha scoperto l’America, egli scoprirà la regione più bella dell’America!

Uomo pratico, cerca subito dove alloggiare e sceglie il Correntoso. È un torrente impetuoso che esce dal lago dello stesso nome e sfocia nel lago Nahuel Huapi. Correntoso! Il nome stesso significa quello che è, e Capraro lo comprova subito, perché vuole guadarlo.

Sono i primi anni, anni febbrili e pieni di intenso lavoro. Capraro è il capo. Corre da una parte all’altra dando ordini, istruzioni, consigli. A volte alza la voce, grida, sbraita. Vuole imporsi e nello stesso tempo vuole che ogni cosa si faccia bene.

Sulla riva opposta ci sono tende indie e quando Antriauc, caciche della zona, lo vede spogliarsi per gettarsi in acqua, gli grida: «Attento! Acqua forte! Non passare!» Capraro non ci bada e si tuffa. Nuota un po’ ma la corrente è troppo forte. Allora si immerge e quando riappare è a pochi passi dalla riva. Allunga le braccia in cerca di appiglio. I rami dei cespugli non resistono e cade in acqua due, tre volte. La situazione si fa pericolosa e si salva afferrandosi a una fune che gli tira il caciche.

Asciugate le vesti, Capraro continua il viaggio. Ha sentito che nella provincia del Chubut (distante circa quattrocento chilometri!), in una fattoria, c’è bisogno di manodopera. Il viaggio procede bene e conosce paesetti, meglio dire gruppi di case, e regioni. Esplora pure le sorgenti del Chubut, il fiume più grande della zona, e impara come si va a cavallo. Laggiù la gente si diverte nel vedere come il cavallo fa ruzzolare il cavaliere. Capraro, per amor proprio, si attacca fortemente all’animale e resiste.

Neppure a Leleque Primo ha fortuna. Non c’è posto per quello che vuole e sa fare e non ci sono quattrini. Capraro pensa che è il destino che vuole così perché vuole che si dedichi a far conoscere al mondo questa zona privilegiata.
Durante il viaggio di ritorno pensa e ripensa. Sente una voce interna che gli dice: «Ti ho aspettato tanto tempo e ora che sei arrivato non ti lascerò scappare. Pensaci e deciditi. Tu sei capace di questo e di altro ancora!»

E Capraro si decide e vede – come in una visione – come si converte in realtà un sogno accarezzato da tanti predecessori: Bariloche, città incantata! Già di ritorno, entusiasmato dal suo sogno, ospite in casa di amici a Bariloche espone loro il suo progetto e la decisione di attuarlo subito. Lo ascoltano e vedendolo così euforico, non lo interrompono. Ma quando si ritira, uno dice: «Quell’italiano è un pazzo!» «No – lo corregge un altro – è un sognatore e i sogni difficilmente si avverano!»

Capraro non si preoccupa per questa indifferenza. Si preoccupa invece di ottenere manodopera. Ci sono strade da fare, e ferrovie, e ponti e case e alberghi, moli, imbarcazioni ecc. ecc. e piantare industrie, officine, falegnamerie, centrali elettriche e mille cose ancora e allora incomincia una fitta corrispondenza con i suoi paesani di Castion e di Belluno e qualche lettera va anche in Germania dove, sulle rive del Reno, una ragazza aspetta e spera. Convince tanto gli uni che l’altra e nel 1903 parte per Buenos Aires.

Arriva la sposa e arrivano anche i primi emigranti, attratti dal fascino che ha ispirato loro Capraro. Sul molo è un vociare e un gridare in dialetto, italiano, tedesco. Amici che rivede, amici ai quali parla con entusiasmo della zona che popoleranno.

Finite le pratiche doganali, la carovana si mette in marcia. Ci saranno vari giorni di viaggio, però non importa. Arrivano a San Carlos de Bariloche dopo 1.800 chilometri di marcia, disposti a occupare terre, a costruire case e strade, a fondare un paese, una città. Capraro li guida dando ordini, istruzioni e consigli. In poco tempo sono sistemati e lavorano. Le industrie principali sono presto pronte: centrale elettrica, falegnameria, fucine meccaniche… Il paese progredisce sotto lo stimolo di Capraro.

Sono i primi anni, anni febbrili e pieni di intenso lavoro. Capraro è il capo. Corre da una parte all’altra dando ordini, istruzioni, consigli. A volte alza la voce, grida, sbraita. Vuole imporsi e nello stesso tempo vuole che ogni cosa si faccia bene. Pensa al futuro: pensa alle centinaia di migliaia di turisti che visiteranno Bariloche. Si dedica anche ad altre attività: commerciali, politiche, diplomatiche e giornalistiche.

Ed è così che, nelle lettere che scrive, si può leggere, tra le altre cose, una intestazione che dice: “Commercio in generale, frutta, importazione ed esportazione, falegnameria, carpenteria, centrale elettrica, agente Ford, cantiere navale, corrispondente del Banco d’Italia”. E avrebbe potuto aggiungere: agente consolare d’Italia, corrispondente dei giornali “La Nación” e “La Patria degli Italiani”, sindaco e agricoltore.

Il paese è ancora piccolo ed è logico che si avveri ciò che dice un proverbio: “Paese piccolo, inferno grande!” Sorgono gli oppositori e il paese si divide in Capraristi e Anticapraristi.

Continua…