«Tante belle cose per le feste Natalizie e Capo d’anno»

Lettera alla madre scritta da Ferdinando e Apollonio Da Ronco, emigrati da Vigo di Cadore negli Stati Uniti.
Per gentile concessione della famiglia Nicolai.

Carissima Madre!
1909.
Hurley 29 Novembre
Noi stiamo bene e così speriamo sarà di voi e intera famiglia.

Si credeva di ricevere almeno un vostro rigo di questi giorni, ma giacché l’ora incalza e Natale s’avvicina, senza veder niente, abbiam voluto noi scuotere l’apatia e la pigrizia e rendervi partecipe di nostre nuove, ed anche di qualche sollievo pecuniario onde passare, come tutto fa sperare, le feste che s’avvicinano in armonia e pace, come di consueto, in tali occasioni. Qui tutto va meglio, cara madre; la prosperità, l’industria, ed il commercio aumentano sempre più, e l’occhio indagatore del finanziere prevede nel 1910 un grande impiego di mando d’opera con un adeguato compenso. Così le speranze deluse di tanti emigranti, potranno finalmente realizzarsi, che crediamo sarebbe quasi ora, dopo due anni di lungaggini e d’aspettative. Il tempo poi è pessimo da circa una settimana c’era un freddo e neve da gelare; ora fa quasi caldo, poiché la corrente d’aria viene dal Sud, e la neve s’è tutta sciolta.

«Così le speranze deluse di tanti emigranti, potranno finalmente realizzarsi, che crediamo sarebbe quasi ora, dopo due anni di lungaggini e d’aspettative».

Però cose passeggere, poiché il tempo qui è freddo ed originale, come gl’Inglesi, che ne abitano la terra in un’ora è capace condurvi dall’atmosfera quasi più calda, a quella più fredda. E giacché ci rammentiamo, il fotografo aveva ancora lastre fotografiche, per ritrarre la vostra fisonomia e quella della famiglia? Certo sì, ed io credo, che non farete a meno d’appagare nostre brame. Capite…. !

Novità qui niente; e là via?
È stato il terremoto in Cadore non è vero? Accluso qui troverete 3 vaglia postali; due da 100 dollari ed uno da 5 dollari. 
Con i 5 dollari, e con l’aggio degli altri 200 ne risultano lire 55.75 centesimi, delle quali potrete fare acquisto anche d’un po’ di vino, onde tenervi allegri.
Lasciando poi la preferenza ed il giudizio a voi che già lo sappiamo farete per bene.

Auguriamo tante belle cose per le feste Natalizie e Capo d’anno. Saluti a chi domanda di noi.
Appena ricevuto i denari scrivete.
Cordiali saluti a tutti di famiglia ed a voi un bacio di cuore dai vostri aff.mi figli Polonio e Nando.

Una piccola Belluno in Croazia

Sono nata a Pakrac, il comune di cui fa parte l’insediamento di Plostine, dove ho vissuto la mia infanzia e la mia giovinezza fino a quando mi sono sposata. A Plostine ho frequentato per quattro anni le scuole elementari (non c’era l’asilo), poi ho fatto i quattro anni delle medie a Pakrac. A scuola si parlava in croato. 

Mia mamma è croata, mio papà bellunese, per cui sapevo entrambe le lingue, ma ricordo che a Plostine c’erano dei miei compagni di classe che non conoscevano il croato, ma soltanto il dialetto bellunese. I primi emigranti avevano portato con sé solo il dialetto e perciò la lingua che si era tramandata alle generazioni successive era quella. Inoltre, tutti in paese, tra di loro, parlavano in dialetto ed è per questo che si è mantenuto nel corso del tempo. 

A scuola non eravamo in molti, c’erano circa dieci bambini per classe. C’erano anche bambini che venivano da Campo del Capitano, ma pochi perché lì c’era solo qualche casa. La gente a Plostine lavorava i campi, perché la terra è molto ricca, oppure andava a lavorare a Pakrac. 

La prima domenica di maggio, ogni anno si svolgeva la processione in paese, lungo la via. Era una tradizione portata avanti da molto tempo…

Mio papà, Ernesto Pierobon, aveva un bar, che si chiamava bar “Belluno”. Lo aveva aperto quando aveva circa venticinque anni, alla metà degli anni Sessanta, e vi ha lavorato fino alla pensione. All’inizio il bar si trovava dove aveva la casa, poi è stato spostato nella sede della Storica Famiglia Bellunese di Plostine. 
La prima domenica di maggio, ogni anno si svolgeva la processione in paese, lungo la via. Era una tradizione portata avanti da molto tempo. Con l’avvento del comunismo, però, era stata vietata la processione in strada e fino al ’93 la si faceva solo attorno alla chiesa. Dal ’93 si è ripreso a farla come una volta e c’è stata una grande festa per il ritorno di questa bella tradizione. 

Un’altra tradizione era la festa di Sant’Antonio, a giugno. Era la festa del paese. C’erano le bancarelle lungo la via, e ci si ritrovava in casa con tutti i parenti, che a volte arrivavano anche da Belluno. 

Il bar “Belluno” a Plostine

Da bambini, divertimenti non ce n’erano molti, si giocava in strada – macchine ne passavano poche e la strada è stata asfaltata quando io ero già grande – e con i giochi che ci costruivamo da soli. C’era molta collaborazione tra la gente, grande aggregazione e senso di comunità e il paese viveva in modo sereno. Alle feste si riunivano tutti e si cantava, c’erano addirittura due complessi musicali. La mattina di Capodanno, i musicisti, anziché andare a dormire, passavano di casa in casa per fare gli auguri e suonare qualche canzone, un tradizione che nel tempo si è persa. 

Quando c’era una festa, ad esempio un matrimonio, partecipava il paese intero e ci si ritrovava anche in quattrocento. Conservo un bellissimo ricordo del periodo della mia vita trascorso a Plostine.

Liliana Da Cas

Matrimonio a Plostine
Una processione religiosa dei bellunesi di Plostine, nel 1925 (immagine tratta da: Giuseppe De Vecchi, PLOSTINA – Un isola di Bellunesi in Slavonia – Storie di emigranti, 1987 – Cassa di Risparmio di Verona Vicenza e Belluno)

Santa Barbara in Nuova Zelanda

Andai in Nuova Zelanda nel 1971, a lavorare per la Codelfa Cogefar al Tongariro Project. Lavoravo nelle gallerie. Avevo appena compiuto ventun anni, era la mia prima esperienza di emigrazione. Salire sull’aereo e fare quel lungo viaggio non fu facile, ma fu un’esperienza importante. Il tragitto fu lunghissimo: Roma, Bombay, Singapore, Sydney, Auckland. Viaggiai col DC-8.

Nei primi mesi fu un po’ dura con la lingua, era difficile comunicare, ma poi mi ambientai. Gli altri italiani che erano lì da prima di me mi aiutarono sempre. Eravamo soliti festeggiare, a dicembre di ogni anno, Santa Barbara. La tradizione iniziò nel 1967. Ricordo che un anno partecipò anche il Presidente della Nuova Zelanda alla cerimonia.

In quel cantiere lavoravano moltissimi bellunesi, da tutta la provincia, e a Santa Barbara era sempre grande festa, sia per noi che per i locali e per i lavoratori di altri Paesi. Veniva celebrata la Messa sul portale della galleria e poi, dato che lì in quel periodo è estate, si facevano delle grigliate con cibo italiano e vino Valpolicella.

Rimasi fino al dicembre del 1981, dieci anni e otto mesi. In tutto questo periodo tornai a casa solo due volte. Il viaggio era molto costoso, e poi lì stavo bene. Non avevo comunque nostalgia, non c’era tempo per averla.

Lavoravamo tra le undici e le dodici ore al giorno. Per comunicare con la famiglia spedivo delle lettere e telefonavo una volta all’anno. La prima chiamata a casa l’avrò fatta nel ‘78 o nel ‘79. Anche mio fratello lavorava lì, faceva il cuoco.

Dopo l’esperienza in Nuova Zelanda andai in Nigeria, dal 1982 al 1990. Poi rientrai in Italia fino alla pensione. Sono tornato in Nuova Zelanda nel 2013, ma non era più la stessa di quando ero lì a lavorare.

Ruggero Bortoluzzi

Minatori festanti in Nuova Zelanda

Mamma d’Italia 1970. Fornace ricorda la bellunese Anna Reolon

Una mamma speciale. Anche se un po’ riduttivo (come si vedrà), potremmo definire così Anna Reolon, bellunese di Visome emigrata in giovanissima età (a nove anni) nel Trentino. I genitori la affidarono a una nobile famiglia di Mattarello (Trento), presso la quale Anna – in cambio di lavori domestici – ottenne vitto e alloggio.

Nel 1906 si spostò a Fornace, accolta da una famiglia di contadini. Qui conobbe Domenico Lorenzi, figlio del suo datore di lavoro. I due si sposarono nella chiesa parrocchiale. Era l’ottobre del 1907, Anna aveva sedici anni. Fino a qui, niente di particolare. Poi la storia si fa eccezionale.

Perché Domenico e Anna ebbero ben diciotto figli: Ciro, Davide, Giuseppe, Matteo, Fortunato, Cesare, Cesarina, Romano, Costanzo, un altro Davide, Gildo, Giordano, fra Ilario, Enue, Luigia, Mario, Giovanna e Benito. I primi due, purtroppo, morirono in tenera età. Gli ultimi due – Giovanna e Benito – sono ancora in vita.

Anna, nata l’11 agosto 1891, affrontò un’esistenza di sacrifici e lavoro che nel 1970, su indicazione del Comitato Nazionale Femminile della Croce Rossa Italiana, le valsero il titolo di “Mamma d’Italia”. Ecco cosa riportava Bellunesi nel mondo del maggio di quell’anno:

«La festa della mamma di quest’anno resterà un ricordo indimenticabile per Anna Reolon in Lorenzi, la quale, domenica 10 maggio è partita per Roma per ricevere l’ambito riconoscimento di “Mamma dell’anno 1970”, alla presenza del Papa». E ancora: «Anna Reolon a settantanove anni, dopo una vita così intensa è una donna che ha saputo, per un giorno, ricordare agli italiani la fierezza e la forza delle donne e delle mamme bellunesi: un esempio che non può non aver commosso e riempito d’orgoglio noi bellunesi in patria e all’estero, perché Anna Reolon ha saputo percorrere una strada che è passata attraverso più di sessanta anni di emigrazione».

ll titolo dell’articolo pubblicato a maggio 1970 su Bellunesi nel mondo.

La “super mamma” morì il 14 febbraio 1984, a novantadue anni. Ma ancora oggi la sua storia è fonte di ispirazione e testimonianza di valori da preservare. Tanto che il 29 novembre scorso il Comune di Fornace ha voluto ricordare la propria concittadina intitolandole una sala pubblica.

Così ci ha scritto il sindaco, Mauro Stenico, nel darci notizia dell’evento: «Verso la fine del 2021 il signor Arrigo Postinghel, esperto conoscitore della storia e di molti aneddoti del nostro paese, mi consegnò una ricca documentazione giornalistica d’epoca relativa alla “Mamma d’Italia 1970”: la signora Anna Reolon, di Fornace. Il signor Postinghel, che era peraltro stato tempo addietro in visita presso il Municipio assieme al signor Benito Lorenzi, uno dei figli di Anna, mi chiese in quell’occasione di conservare il fascicolo di documenti presso gli archivi comunali, in modo da lasciarlo a disposizione di future generazioni eventualmente interessate a consultare testimonianze e atti relativi alla storia della nostra comunità. “Ottima idea!”, dissi e pensai immediatamente. Tuttavia, presto cominciai a riflettere se non si potesse fare qualcosa di più significativo per conservare la memoria di questa straordinaria donna. L’idea che sorse in me fu allora di intitolare una sala pubblica alla signora Reolon, a perpetuo ricordo. Ne parlai immediatamente con la Giunta, che valutò la proposta come un’iniziativa assai positiva. Tutti assieme, dopo aver vagliato diverse ipotesi, individuammo la sala pubblica della Scuola Primaria “Amabile Girardi” come spazio ideale per l’intitolazione. La struttura scolastica del paese avrebbe così conservato la memoria non soltanto della signora Amabile Girardi, ma anche, ex novo, di Anna Reolon».

Il Sindaco Stenico con i parenti presenti alla seduta consiliare di intitolazione

Oltre alla cura dei figli, ha raccontato il primo cittadino ripercorrendo la biografia della celebrata nel discorso tenuto all’evento di intitolazione, Anna si dedicò all’assistenza del suocero infermo. Nel secondo dopoguerra (al conflitto presero parte sette dei suoi figli – tre dei quali fatti prigionieri – oltre al marito Domenico, già tornato senza un occhio dalle battaglie del ’15-’18), fu obbligata dalle ristrettezze economiche e dall’assenza di lavoro a darsi al contrabbando. «Una volta a settimana si recava a piedi da Fornace a Taio (circa cinquanta chilometri), dove si incontrava con alcuni contrabbandieri svizzeri che recavano sigarette».

Le proprie cure la signora Reolon le offrì anche alla vedova e ai bambini di uno dei suoi stessi figli morto in giovane età, così come ai nipoti regalatile da un altro dei suoi figli rimasto vedovo.

Anna in una fotografia degli anni Settanta

«Nel corso degli anni Settanta – spiega ancora il sindaco – per la sua straordinaria devozione cristiana alla famiglia e al prossimo, nonché per le eroiche virtù di umiltà, bontà, fede e spirito di sacrificio, ella divenne un vero e proprio riferimento a Fornace (e non solo). La signora Reolon soffrì vari lutti per la morte di figli e familiari, ma ebbe numerose gioie per la nascita di molti nipoti e pronipoti». Ecco perché, «in ragione dei meriti, dei sacrifici compiuti, dell’eroismo e delle virtù dimostrate, il Consiglio Comunale di Fornace ha approvato all’unanimità la proposta di intitolazione della sala pubblica della Scuola Primaria “Amabile Girardi” ad “Anna Reolon (1891-1984), Mamma d’Italia”».

Le immagini ci sono state gentilmente concesse dal Sindaco di Fornace Mauro Stenico.

La memoria di Marcinelle

di Walter Basso

Si dice che la storia sia maestra di vita, ma molte volte, purtroppo, la storia ha la memoria corta. O meglio, gli uomini che la fanno, hanno la memoria corta. Nel corso degli anni, dei secoli, sono state innumerevoli le stragi che hanno colpito l’umanità: a volte sono state provocate dalle guerre, altre volte da calamità naturali o dall’incuria dell’uomo. Nella maggior parte dei casi questi eventi si ricordano negli anniversari, con interventi politici che talvolta sono semplicemente appuntamenti di routine in un mondo dominato dalla velocità e dall’interesse.

Si tiene un breve discorso davanti ai monumenti che riportano sfilze di nomi e di date, si appoggia una corona di fiori e poi via al prossimo impegno. Ma chi non dimentica sono i familiari delle infinite vittime, per i quali il tempo si è congelato nel dolore per la perdita di un figlio, di un padre, un marito, un fratello. E poi ci sono coloro che quella particolare strage l’hanno vissuta, o perché hanno avuto la fortuna di essere stati graziati, oppure per aver partecipato ai soccorsi, al recupero di chi è rimasto ferito o peggio ha perso la vita.

Questa mia riflessione è nata quando gli Amici della Sezione Alpini di Vigonza Padova mi hanno invitato a partecipare al compleanno di un ex minatore che già conoscevo, ma solo telefonicamente, perché mi aveva dato una mano per raccogliere i dati per il mio libro Carne da miniera dedicato ai minatori morti in incidenti nelle miniere belghe.

La persona straordinaria alla quale voglio dedicare quest’articolo si chiama Lino Rota. Abita a Nembro con la moglie Mariuccia, una donna dolcissima, il suo braccio destro di tutta la vita. Ma perché voglio parlarvi di lui e cos’ha di straordinario Lino? Beh, per me tutta la sua vita è straordinaria, ma l’apice lo ha raggiunto quando nel 1956, esattamente l’8 agosto, è stato chiamato come soccorritore alla miniera Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio, nel tragico teatro della terza più grande strage che ha coinvolto i nostri avi, dove hanno trovato la morte ben 262 uomini, dei quali 136 italiani.

Lino oggi ha occhi saggi e sereni, ma questi suoi occhi hanno visto l’orrore puro, la disperazione di tante, troppe donne, ha visto piangere troppi orfani, ha respirato l’odore della morte, ha rischiato la vita per cercare qualcuno vivo nell’inferno.

Tutti noi abbiamo sentito parlare, letto o visto film di questa immane tragedia che ha reso martiri tutti questi uomini (il più giovane aveva quattordici anni) condannati a una morte orrenda tra fiamme e fumo da un patto scellerato tra i due Stati, Italia e Belgio. Ma una cosa è sentirne parlare o leggerne, un’altra è viverla. Lino, il minatore italiano entrato nel ’48 nel bacino carbonifero di Charleroi, il soccorritore, il porion poi, dal sorriso limpido, oggi ha occhi saggi e sereni, ma questi suoi occhi hanno visto l’orrore puro, la disperazione di tante, troppe donne, ha visto piangere troppi orfani, ha respirato l’odore della morte, ha rischiato la vita per cercare qualcuno vivo nell’inferno.

Lino da giovane nel bacino di Charleroi

Lino è stato davanti a me, a raccontarmi il buio dei pozzi, mentre i tanti che hanno vissuto quegli infiniti giorni di fuoco e fumo come sconosciuti eroi non ci sono più. È uno degli ultimi preziosi testimoni e merita di essere ringraziato ancor oggi, oltre che essere ascoltato, soprattutto dalle nuove generazioni. Inoltre, dovrebbe essere onorato come si onorano gli eroi veri: perché lui, dopo aver visto l’inimmaginabile a Marcinelle, non ha mollato tutto, ma ha continuato a lavorare in miniera, non un mese o un anno, ma fino al ’74, quando è tornato in Italia.

Ma dal suo cuore i ricordi del carbone, delle gallerie, dei vagoncini, delle lampade, non mai è riuscito a cacciarli e così, pezzo su pezzo, con il supporto della sua Mariuccia, a Nembro ha costruito il “suo” museo, riassunto completo di una vita sì di sacrificio dentro e sopra una miniera, ma soprattutto di coraggio, di dignità, di amore. Il museo, allestito in una cavità della roccia e denominato dal Comune di Nembro “Piazzetta dell’Emigrante”, è stato ricostruito come l’entrata di una miniera di fronte alla quale poteva trovarsi un emigrato italiano.

Questi sono i veri eroi: Lino, mio padre, mio zio e tutte le migliaia di minatori di tutto il mondo.

Nel corso di tutti questi anni è stato fortemente arricchito di testimonianze preziose e dal grande valore storico (attrezzi, materiali, documenti e foto), grazie all’impegno della famiglia Rota nel recuperare oggetti direttamente in Belgio. Tutti gli elementi che compongono il museo sono stati catalogati come “Collezione Lino Rota”. Un riassunto visivo, che merita di essere visitato con lo stesso spirito con il quale si visita una chiesa: rispetto e riflessione.

Lino davanti al museo creato da lui e Mariuccia

Io quel 3 aprile, al pranzo, ho visto un momento Lino commuoversi e vedendo quelle lacrime solcare il suo viso, per un attimo ho rivisto mio padre, anche lui minatore, e così impulsivamente l’ho stretto a me immaginando di stringere lui. Per immaginare di ringraziarlo dopo tanti anni che è lontano da me. Ecco, questi sono i veri eroi: Lino, mio padre, mio zio e tutte le migliaia di minatori di tutto il mondo. E anche se le istituzioni non sempre se ne ricordano, siamo noi figli di questi uomini, spesso abbandonati dalle loro patrie, che ci hanno lasciato morendo sotto terra comi i topi, o soffocati negli ospedali, nell’indifferenza dei grandi politici, che li ammiriamo e li ringraziamo.

Per questo io dico: grazie Lino per quello che sei stato e per quello che sei, grazie Mariuccia per il tuo amore e l’aiuto che gli dai, e grazie a voi amici Alpini di Vigonza per avermi voluto insieme a condividere il compleanno di un Uomo Vero che non dimenticherò.

Mariuccia e Lino