Per i minatori – seconda parte

Racconto tratto dal libro Quadrilogia, di Don Evaristo Viel; Torino: STIG, 1974

La prima parte della storia è disponibile QUI.

L’ing. Raffaele aveva preso frettolosamente un “notes” e stava scrivendo, quando Barbanera si pentì della proposta. Strappò di sottomano al suo principale il foglio. «No, non è giusto neanche questo – disse -. Lei non mi può licenziare su due piedi. I tre giorni regolamentari me li deve dare; poi farà quello che vuole. Intanto lei rimane sotto la mia tutela. Chi mi libererebbe dal rimorso di averla lasciata libera di andare ad ammazzarsi? Che ne direbbero i suoi famigliari? In qualsiasi caso il responsabile rimarrei io. Dunque abbia pazienza».

L’ing. Raffaele capì che non c’era nulla da fare, si spogliò del suo equipaggiamento da alta montagna, si mise a letto e cercò di dormire. Quella giornata e quella seguente passarono senza una parola e senza che i due si guardassero in viso. Il sereno era però incominciato. Qua e là qualche macchia di sole illuminava la valle. Durante la notte una serenata intensa preannunciò una giornata splendida di sole. «Domattina, all’alba, sveglia! – disse Barbanera all’ingegnere – e prepararsi per la discesa in cordata».

All’alba l’ingegnere e il segretario, Barbanera e Carlo (uno dei suoi uomini più robusti), si misero in cammino legati l’un l’altro a una lunga corda di nylon. Capo cordata Barbanera, in mezzo l’ingegnere e il suo aiuto, ultimo Carlo. «State tutti ai miei ordini e non un passo di più senza il mio permesso» gridò Barbanera. Ecco la discesa, più faticosa in principio, dura verso la fine di quello che avrebbe dovuto essere il sentiero, pericolosa a immettersi nella mulattiera.

«Lasciatemi morire – gridava – io avanti non vengo più».

A un certo punto l’ingegnere, stremato di forze, si lasciò andare come un corpo morto andando a sbattere contro uno spigolo di roccia e rompendosi una spalla. «Lasciatemi morire – gridava – io avanti non vengo più». Barbanera se lo caricò sulle spalle, se lo fece legare saldamente dall’amico Carlo e continuò imperterrito, anche se con ogni cautela, la sua strada. Ogni tanto si fermava e appoggiava il suo carico a un costone perché le forze gli venivano meno.

Dopo dodici ore erano infine a valle. Era notte. Si organizzò in fretta il trasporto dell’ammalato al più vicino ospedale. Si assunse l’incarico di accompagnarlo il segretario. Barbanera e Carlo preferirono liberarsi dei vestiti, mangiare un boccone e andare a dormire. Il mattino seguente, verso le 11:00, Barbanera si recò all’ospedale a prendere congedo dal suo padrone. «Il mio compito ora è finito – disse – e me ne torno a casa mia». «Ma perché?» chiese l’ingegnere. «Non vi ricordate che mi avete licenziato?» «Ma lassù ve l’ho detto in un momento d’ira. Ora riconosco che avevate ragione voi e perciò vi chiedo di tornare». «No! La parola è parola e io sono abituato a mantenerla. Lassù al mio posto potrete mandare Carlo: è un brav’uomo e se lo merita. Non mancherete, però, di dargli una licenza e un premio di riconoscimento». «Ma perché non volete più restare con me?» «Ve l’ho detto, ingegnere. D’altra parte, che direbbero gli uomini rimasti lassù e che mi hanno visto trattarvi così duramente? Sarebbero inclini a pensare che io mi imponga al padrone, la cui autorità verrebbe meno. Per di più, voi stesso non avreste il coraggio di correggermi qualora io sbagliassi o facessi qualcosa di anormale; e sarebbe un male per me e per voi. Meglio così, dunque. Non stenterò a trovarmi un altro lavoro».

Barbanera stese la mano per stringere quella dell’ingegnere. Una lacrima sincera di commozione spuntò sul ciglio dell’uno e dell’altro. «Vi farò avere un premio» disse l’ ingegnere. «No, no! – rispose Barbanera. – Il dovere non si paga e io non ho fatto che il mio dovere. Mi mandi a casa quanto mi spetta per contratto e nulla di più. Auguri, ingegnere! Che episodi simili a quello che abbiamo vissuto non le capitino più».

Barbanera prese il suo cappello e se ne andò, mentre l’ing. Raffaele rimase profondamente impressionato per la grandezza di cuore che si nascondeva sotto una scorza così dura e violenta. «Finché il mondo del lavoro può contare su simili uomini l’avvenire sarà assicurato», pensò. E non aveva torto.

Per i minatori

Racconto tratto dal libro Quadrilogia, di Don Evaristo Viel; Torino: STIG, 1974

Il mese di settembre non era il più adatto per dare inizio a un impianto di cantiere a quota 2500, ma il lavoro urgeva e l’ing. Raffaele, titolare dell’impresa appaltatrice, aveva dato ordine di cominciare subito. Mancavano la luce, il telefono, tutto. Il villaggio più vicino al costruendo cantiere distava nove ore di cammino lungo una mulattiera appena transitabile da un mulo e, nell’ultimo tratto, neppure da quello.

La squadra di operai ingaggiata per l’opera (una quarantina circa) con a capo Barbanera, si mise al lavoro di gran lena e in meno di due mesi la luce, il telefono, la teleferica, i baraccamenti saldamente ancorati alla roccia erano pronti. Ora si trattava di attaccare la roccia e, attraverso la montagna, scavare un tratto di galleria lungo tre chilometri per congiungersi con un’altra squadra che, dalla parte opposta, faceva il medesimo lavoro. L’ing. Raffaele non era stato avaro di elogi per Barbanera e la sua squadra quando si accorse che tutto era pronto per l’attacco. Poteva finalmente dormire i suoi sonni tranquilli, perché da ora in poi il lavoro sarebbe andato avanti quasi automaticamente.

Raccomandò che ci fossero abbondanza di materiali e di viveri, distribuì un premio a tutti e si congedò orgoglioso di quanto era stato fatto. Per un mese ancora ricevette regolari telefonate, che lo informavano sull’andamento del lavoro e sui bisogni più urgenti: ma molti operai erano passati in ufficio per essere liquidati, giacché lassù la vita era troppo dura, e il capo era diventato con loro troppo aggressivo. L’ing. Raffaele volle rendersene conto di persona e, accompagnato dal suo fido segretario, si spinse fino a fondo valle con la macchina, poi prese la mulattiera e cominciò a salire. Man mano però che andava avanti la neve si faceva sempre più alta e il pericolo di cadere a strapiombo e finire a sfracellarsi tra le rocce diventava più grande.

Quando ai due furono spalancate le porte della baracca, a stento vi si trascinarono all’interno e caddero come corpi morti.

Con la caparbietà di un montanaro resistette, finché dopo quattordici ore di cammino sempre più pericoloso, arrivò al cantiere. Era buio ormai. Dentro, nessuno si sarebbe aspettato la visita. Quando ai due furono spalancate le porte della baracca, a stento vi si trascinarono all’interno e caddero come corpi morti. Messi alla bell’e meglio su due brande e pian piano rifocillati, ripresero forze: indi si addormentarono e dormirono come ghiri fino alle 12:00 del giorno seguente. Dove erano andate a finire tutte le ansiose domande che l’ing. Raffaele si era proposto di fare al suo capo? A mezzogiorno il pranzo frugale, anche se abbondante, di tutti i minatori.

Nessuna eccezione per l’ing. Raffaele e il suo segretario, al di fuori di un bicchierino di grappa, offerto soltanto agli ospiti d’onore. «Quassù – aveva detto Barbanera agli operai – dovete mangiare, mangiare molto, non bere». E la regola valeva per tutti. Dopo la siesta, l’ing. Raffaele volle visitare il cantiere. C’era poco da vedere. L’avanzamento era arrivato a poco più di cento metri, anche perché il piano inclinato della “scarica” era esposto a raffiche di vento terribili e non sempre gli operai addetti potevano uscire per sbrigare il loro lavoro.

L’ing. Raffaele non rimproverò il suo capo. La planimetria e i profili erano in perfetto ordine. Mugugnò un pochino vedendo degli operai riscaldarsi al fuoco durante le ore di lavoro, ma lasciò correre… non erano delle bestie. Di ritorno prese in disparte Barbanera e gli disse molto serio: troppi operai sono venuti in ufficio a lamentarsi che li tratti molto male!

«Lo presupponevo – rispose Barbanera -. Quelli che sono partiti da qui son tutte mezze cartucce cui piacerebbe guadagnar molto e lavorar poco. Il guadagno, poi, se lo spenderebbero volentieri a ubriacarsi e a far qualcosa di peggio!» «Ma – soggiunse l’ing. Raffaele – non possiamo rimpiazzare all’infinito gli uomini. Il lavoro bisogna sia consegnato entro il_______ e bisogna andare avanti il più celermente possibile». «Appunto per questo – disse Barbanera – non ci vogliono mezze cartucce. Il cantiere è un posto di suore: ci resta soltanto colui che ha la volontà ferma di guadagnare e di sistemare la sua famiglia. Comunque ora siamo pochi, qui. Quanti altri verrebbero quassù in questa stagione? Cercheremo di arrangiarci. Però il premio a primavera, per tutti deve saltar fuori, l’ho già promesso, altrimenti addio cantiere».

Di fronte a questa minaccia, l’ing. Raffaele storse un po’ la bocca, ma infine si acquietò e fece un cenno di “Sì”. La sera era inoltrata e l’ingegnere decise di non scendere a valle. Troppo pericolosi sarebbero stati il sentiero e la mulattiera per il ritorno. Durante la notte, però, accadde il finimondo. Una tempesta di neve di smisurata violenza sembrò volesse spazzar via tutto. «Siamo sicuri?» domandò impaurito l’ing. Raffaele. «Stia tranquillo! Tutto è ancorato a dovere» rispose Barbanera. Venne a mancare la luce e si dovette ricorrere alle lampade ad acetilene per rischiarare po’ la notte, durante la quale nessuno poté prendere sonno. Al mattino e fino al dopopranzo la situazione sembrò peggiorare.

«Metteremo in funzione il generatore di corrente – disse Barbanera – ma lo dovremo usare con parsimonia perché il carburante a disposizione non è molto». Verso sera le raffiche di tempesta cominciarono a diminuire e la notte fu per tutti più tranquilla che quella precedente. Svegliatosi di buon mattino, I’ing. Raffaele e il suo fido segretario si erano equipaggiati per scendere a valle.

Barbanera uscì dalla baracca per un momento, diede un’occhiata tutt’intorno, poi ritornò sui suoi passi. «Voi – disse rivolto all’ing. Raffaele e al suo segretario con tono duro e perentorio – non vi muovete di qui fintantoché non ve lo dirò io!»

Una nebbiolina bianca e uggiosa permetteva appena di vedere a due passi. Sarebbe stato oltremodo pericoloso avventurarsi sul sentiero, del quale non esisteva più traccia, e ritrovare la mulattiera, anch’essa certamente sconvolta dall’uragano. Barbanera uscì dalla baracca per un momento, diede un’occhiata tutt’intorno, poi ritornò sui suoi passi. «Voi – disse rivolto all’ing. Raffaele e al suo segretario con tono duro e perentorio – non vi muovete di qui fintantoché non ve lo dirò io!» I due rimasero sbigottiti.

«Ma sei tu il padrone qui o io?» «Il padrone è lei, ma il responsabile delle vite umane sono io». «Per quanto ci riguarda ve ne dispenso!». E fece per uscire dalla baracca. Barbanera non ci vide più. Rosso di collera in viso come non mai, prese per un braccio l’ingegnere e lo spinse violentemente fino in fondo alla baracca. «Là! – urlò – Piuttosto di lasciarvi scendere con questo tempo preferisco rompervi una gamba o un braccio!», e prese in mano un manico di badile e lo alzò in segno di minaccia.

«Vi licenzio in tronco! – gridò allora l’ing. Raffaele – D’ora in poi non siete più alle mie dipendenze!» «Accetto! – rispose Barbanera calmo – Prenda penna e carta e scriva di suo pugno che mi esonera da ogni responsabilità».

Fine prima parte…


Di generazione in generazione

Mi chiamo Giuseppe Tiziani e sono orgogliosamente di Lamon. Vi sono nato il 18 ottobre 1950 e dopo quasi due anni vissuti nella frazione di San Donato (precisamente in località Galline), con i miei genitori sono emigrato a Daverio, un piccolo comune in provincia di Varese. La mia vita si è svolta qui, anche se più volte, ogni anno, sono tornato e continuo a ritornare al mio paese natio, dove ho parenti, amici e conoscenti e dove ho ristrutturato la casa natale. 

Ho trascorso gli anni della mia vita studiando – con tanti sacrifici da parte dei miei genitori – e lavorando fin dai tempi della scuola, quando nel periodo estivo facevo ogni tipo di lavoro per pagarmi gli studi. Nel 1987 ho perso mio padre Celestino, morto di silicosi a causa degli anni trascorsi nelle gallerie dell’Alta Savoia, in Francia. Mia madre Adalgisa è ancora vivente e ha raggiunto la ragguardevole età di 94 anni. 

Con mia moglie Oretta, originaria del Padovano, siamo sposati da quarantadue anni. Ho avuto tante soddisfazioni professionali, in particolare durante i quasi quarant’anni di servizio per Whirlpool (ex Ignis), leader mondiale nella produzione di grandi elettrodomestici, dove ho svolto, tra gli altri, il ruolo di direttore di fabbrica in molti stabilimenti della multinazionale. 

Ho sempre nutrito questo spirito d’avventura fin da quando mio zio Giuseppe partì dal porto di Genova per l’Australia in cerca di fortuna

Ciò si è reso possibile perché ho seguito l’istinto – direi quasi la vocazione – indotto dalla mia terra di origine a spostarmi alla ricerca del nuovo inteso come opportunità, scoprendo di possedere una grande capacità di adattamento. Ho sempre nutrito questo spirito d’avventura e di approccio alle sfide fin da quando mio zio Giuseppe, nei primi anni Cinquanta, partì dal porto di Genova per l’Australia in cerca di fortuna, formando proprio in Australia la sua famiglia. 

Però ho sempre mantenuto nel cuore il ricordo di San Donato, specialmente dei tempi della mia giovinezza, delle estati trascorse dai nonni, piene di vita fatta di decorosa povertà, ma arricchita da valori impagabili. Mi sento figlio dell’epopea che i miei genitori hanno vissuto, come molti altri della provincia di Belluno a quei tempi, con la valigia in mano tra Francia e Svizzera, fino alla definitiva decisione di stabilirsi a Varese. 

Una vita di sacrifici, rinunce e tanto lavoro che alla fine hanno permesso loro un affrancamento e un gratificante riscatto sociale e in me hanno lasciato un insegnamento a una condotta morale di grande aiuto nella carriera professionale e nella vita di tutti i giorni. 

Mio figlio Stefano, ingegnere meccanico, da tre anni è espatriato per lavorare in Cina e anche mia figlia Francesca, laureata in Ingegneria Fisica, sta preparando le valigie. La tradizione dell’emigrazione, ancorché con diverse modalità rispetto al passato, si sta perpetuando di generazione in generazione.

Lo scrittore Antonio G. Bortoluzzi promuove il concorso letterario Abm “Raccontare l’emigrazione veneta”

Antonio G. Bortoluzzi testimonial del concorso letterario “Raccontare l’emigrazione veneta”. Lo scrittore bellunese, autore dell’antologia Montagna madre, Trilogia del Novecento e dei romanzi Come si fanno le cose, Paesi alti, Vita e morte della montagna e Cronache dalla valle, vincitore, con le proprie opere, di numerosi premi e riconoscimenti a livello nazionale e membro accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, sposa l’iniziativa dell’Associazione Bellunesi nel Mondo. E la promuove.
«L’epopea dell’emigrazione italiana, in particolare veneta, vive nelle memorie di chi è partito nell’Ottocento, nel Novecento e ci ha lasciato quella che possiamo chiamare “la grande narrazione della lontananza”», il suo pensiero. «Questa lunga storia ha sempre bisogno di nuove voci: anche oggi alcuni giovani fanno le valigie, certo, non è un esodo che riguarda milioni di persone, ma sono esperienze e numeri importanti. Dai nostri avi fino a noi e ai nostri figli, la memoria individuale e famigliare può diventare patrimonio comune, una terra piena di storie dove conoscerci, dove sentirci a casa e compresi».
Da qui l’invito: «l’Associazione Bellunesi nel Mondo attende il tuo racconto sull’emigrazione veneta. Buona scrittura».
«Siamo grati ad Antonio Bortoluzzi per le belle parole espresse a favore del nostro concorso», il commento del presidente Abm, Oscar De Bona. «Speriamo che l’appello di un autore così stimato e apprezzato anche fuori dai confini del nostro territorio possa stimolare tanti a prendere in mano la penna o a mettersi alla tastiera per dare forma al proprio racconto».
Il concorso è dedicato a racconti inediti e originali, reali o di fantasia, in lingua italiana, aventi a tema, appunto, l’emigrazione veneta, storica e attuale.
La partecipazione, gratuita, è aperta a chiunque abbia almeno sedici anni (bisogna essere nati entro il 31 dicembre 2006), ovunque residente (in Italia o all’estero).
Ogni autore può partecipare con un solo racconto, che dovrà avere minimo 10 mila e massimo 25 mila battute, spazi compresi. La scadenza per l’invio degli elaborati, da spedire via email a concorsoemigrazione@bellunesinelmondo.it, è fissata al 4 novembre 2022.

I dieci racconti finalisti verranno pubblicati in un libro edito dall’Abm. I primi tre saranno inoltre premiati con 500 euro (primo classificato), 300 euro (secondo) e 200 euro (terzo).
Il bando completo, con l’indicazione delle modalità di partecipazione, è disponibile sul sito: www.bellunesinelmondo.it.

Per maggiori informazioni è inoltre possibile contattare la sede Abm ai seguenti recapiti: tel. 0437 941160; email: concorsoemigrazione@bellunesinelmondo.it.

Geremia scolpisce l’America

Scultore, autore di grandi complessi monumentali in marmo e in bronzo che ancora oggi decorano alcuni dei più prestigiosi palazzi pubblici in America, Geremia Grandelis fu un illustre cittadino del Comelico.

Nato a Campolongo il 10 luglio 1869, fin da bambino dimostrò il suo talento. Si narra che a soli nove anni abbia scolpito con il temperino due statute in legno alte più di un metro. Raffiguravano San Giacomo Minore e San Giacomo Maggiore.

Delle sue abilità si accorse uno scultore già affermato come Antonio Dal Zotto, che convinse il padre di Geremia a farlo studiare. Eccolo nel 1881 a Venezia a farsi le ossa nello studio dello scultore Guglielmo Michieli. Racconta Giovanni Fabbiani, nell’Omaggio a Geremia Grandelis scultore italo americano: «Di notte disegnava vignette e caricature da pubblicare in giornali e riviste, di giorno frequentava l’accademia e lo studio del suo Maestro».

Maestro che, come da tradizione, venne presto superato dall’allievo. Nel 1886 Geremia espose alla prima Biennale di Venezia e ottenne il primo premio nella sezione umoristica, proprio davanti al suo insegnante, che finì secondo. In anticipo sui “cervelli in fuga”, nel 1893 fece le valigie diretto a New York.

Nel Nuovo Mondo collezionò un successo dietro l’altro, realizzando lavori che lo resero celebre e apprezzato in tutto il Nord America: 500 teste grottesche per il Metropolitan Opera House, il teatro d’opera più grande del pianeta; le decorazioni interne e i portoni di bronzo per la cattedrale di Washington; le statue del Tempo e della Gloria per il parlamento di Ottawa, in Canada; dodici statue per la biblioteca di New York; il portale in bronzo e diverse decorazioni per quella di Filadelfia; il monumento in onore di Abraham Lincoln, sedicesimo Presidente degli Stati Uniti; i piloni monumentali per la bandiera della città di New York e tanti altri capolavori.

Morì il 2 novembre del 1929 a Perth Amboy, nel New Jersey, dove tuttora riposa accanto al figlio.