Il vescovo dei diritti umani

Un eroe bellunese. Assassinato il 26 aprile del 1998 in Guatemala. Si tratta di Juan José Gerardi Conedera, il vescovo dei diritti umani.

Discendente di una famiglia di Taibon giunta dall’altra parte dell’oceano nel 1879, mons. Juan Gerardi nacque il 27 dicembre 1922. Nel 1946 divenne sacerdote. La sua opera religiosa fu sempre mirata all’aiuto degli ultimi: i poveri, gli indios, la gente delle campagne. «Se il povero rimane fuori della nostra vita – sosteneva – allora forse anche Gesù è fuori della nostra vita».

Nel 1967 venne nominato vescovo di Verapaz e nel 1974 assunse l’incarico di reggente del Quichè, una regione all’epoca martoriata dalla guerra civile che per quasi quarant’anni, tra il 1960 e il 1996, devastò il Guatemala. Erano gli anni in cui centinaia di catechisti, dirigenti delle comunità cristiane e contadini, quasi tutti maya, venivano assassinati brutalmente.

Coordinò un vastissimo progetto di memoria raccogliendo migliaia di testimonianze su sistematiche violazioni da parte dell’esercito e dei gruppi paramilitari legati al regime.

Lo stesso Gerardi nel 1980 fu bersaglio di un attentato dal quale riuscì a salvarsi. Sempre in quell’anno, dopo che trentanove persone erano state bruciate vive nell’Ambasciata di Spagna perché manifestavano contro la violazione dei diritti umani nel Quiché, il vescovo denunciò pubblicamente la gerarchia militare. In risposta, gli fu impedito di rientrare in Guatemala fino al 1982.

Come fondatore dell’Ufficio per i Diritti umani dell’arcivescovado, coordinò un vastissimo progetto di memoria raccogliendo migliaia di testimonianze tra i civili – perlopiù indigeni – vittime di sistematiche violazioni da parte dell’esercito e dei gruppi paramilitari legati al regime nel corso del conflitto interno.

Dall’inchiesta, cominciata nel 1988, scaturì un rapporto in grado di documentare oltre 55 mila casi di violenze, torture, sparizioni, mutilazioni, massacri e stupri. “Nunca Más”, si intitolava, “Mai più”, e venne reso pubblico il 24 aprile 1998. Due giorni dopo, Juan José Gerardi Conedera, il vescovo della verità, venne fatto tacere per sempre, assassinato in maniera talmente barbara che il cadavere potè essere riconosciuto solo attraverso l’anello episcopale.

Tre degli esecutori materiali del delitto furono individuati. Il volto dei mandanti, invece, è ancora avvolto nelle nebbie di depistaggi e omertà istituzionale.

L’Eroina di Monongah

Nata a Domegge di Cadore il 21 novembre 1864, il suo nome è poco noto nel Bellunese. La ricordano con affetto, invece, negli Stati Uniti, in un piccolo villaggio del West Virginia di nome Monongah. Qui, il 6 dicembre del 1907 avvenne il più grave disastro minerario della storia americana, con 361 vittime ufficiali. Tra queste, 171 emigrati italiani.

Uno di loro era Vittorio Da Vià, marito di Catterina De Carlo, la vedova celebrata negli States per aver eretto la “collina dell’amore”.

Dopo la scomparsa del coniuge, per ventinove anni la quotidianità di Catterina fu scandita da un rito: ogni giorno percorreva oltre tre miglia di strada e si recava alla miniera teatro della tragedia, dove prelevava un sacco di carbone che poi svuota davanti alla propria abitazione. Diceva di farlo per «alleggerire il peso che lì sotto dovevano sostenere i suoi morti».

Rimasta sola a badare ai cinque figli, riuscì a garantir loro una vita più che dignitosa, battendosi al fianco delle altre donne affinché la causa del loro dolore non cadesse nell’oblio.

E così nel tempo, sacco dopo sacco, alleggerimento dopo alleggerimento, si formò la popolare collina, simbolo di amore e di denuncia per quanto accaduto il 6 dicembre. Pare che più volte i responsabili del sito minerario abbiano cercato di negarle l’accesso al luogo dell’incidente, arrivando ad accusarla di appropriazione indebita. Ma non fu solo questo a rendere Catterina l'”Eroina di Monongah”, come recita il monumento inaugurato in West Virginia nel 2007 (in occasione del centenario del disastro) e dedicato alle vedove e agli orfani di tutti i minatori.

Rimasta sola a badare ai cinque figli, riuscì a garantir loro una vita più che dignitosa, battendosi al fianco delle altre donne, vedove e madri, affinché la causa del loro dolore – la sciagura nelle gallerie 6 e 8 della Fairmont Coal Company – non cadesse nell’oblio.

La fiamma che animava la tenacia di Catterina si spense il 9 agosto del 1936, ma il suo ricordo continua ad ardere oltreoceano.

Per la sua instancabile opera e per il valore della sua testimonianza, nel 2012 l’Ugl (l’Unione Generale del Lavoro) le conferì una medaglia d’oro, in memoria di “Una meravigliosa e coraggiosa Donna italiana”, medaglia recapitata negli Stati Uniti al nipote James Davià, il cui cognome, pur trasformato in versione “americana”, rimanda ancora al luogo da cui questa storia ebbe inizio.

Padre di una città

Il suo monumento è in bella mostra nel centro storico e gli abitanti lo ricordano come l’anima della città. Stiamo parlando di Primo Capraro, il padre di San Carlos de Bariloche, in Patagonia, oggi famosa località turistica ai piedi delle Ande ma, all’epoca di Primo, villaggio sconosciuto in una sorta di sperduto Far West sudamericano.

Una regione tutta da scoprire e da esplorare, con grandi opportunità per pionieri dallo spirito avventuroso e dalle capacità imprenditoriali. Doti che non mancarono a Primo Capraro, nato a Castion il 12 marzo 1875 e giunto in quelle terre nel 1903, quando la città, fondata solo un anno prima, contava appena qualche decina di casette in legno.

Non a caso è soprannominato
“El Emperador de Bariloche”.

Ad attrarlo in Argentina fu un vecchio amico conosciuto durante il servizio militare che gli propose di acquistare della terra in società. Grazie al duro lavoro, alle sue idee decise e lungimiranti, alla capacità di cogliere al volo le opportunità che gli si facevano incontro muovendosi agilmente tra un’attività e l’altra a caccia di occasioni di guadagno, Primo Capraro riuscì a dare enorme sviluppo a Bariloche, costruendo un vero e proprio impero. Non a caso è soprannominato “El Emperador de Bariloche”.

Ovviamente non fu solo in questa impresa. Fu il primo bellunese ad arrivare e una volta giunto chiamò amici e parenti a dargli una mano.

Catalizzatore di tutte le principali attività di Bariloche, se da un lato questo lo rese un esempio e un modello per gran parte dei suoi concittadini, dall’altro gli attirò le antipatie di quanti vedevano con invidia il suo crescente successo e lo reputavano un pericolo per i loro interessi.

Segnali di questa ostilità si ravvisarono nello strano incendio che nel 1924 mandò in fumo la sua segheria con le attrezzature e le abitazioni degli operai, fino alle oscure circostanze della sua morte, avvenuta il 4 ottobre 1932. Ufficialmente fu suicidio, ma la questione rimane tuttora avvolta in una nube di mistero.

Gloria insolita dell’umana sapienza

Custode di un segreto racchiuso con sé nella tomba. Una tecnica tuttora misteriosa che gli valse l’appellativo di “Pietrificatore”. Girolamo Segato, nato a Sospirolo il 13 giugno del 1792, l’aveva appresa nelle sue spedizioni archeologiche in Egitto, durante le quali studiò a lungo i sistemi di mummificazione. 

Il suo metodo, però, era diverso. Una procedura che ancora oggi, nonostante analisi, studi e tentativi di imitazione susseguitisi negli anni, nessuno è stato in grado di svelare. Permetteva di pietrificare gli elementi, arrestando la decomposizione della materia organica. Una tecnica che Segato applicò soprattutto a parti di corpo, umane e animali.

Esempi tuttora perfettamente integri del suo lavoro si trovano tra il Museo del Dipartimento di Anatomia, Istologia e Medicina Legale dell’Università degli Studi di Firenze – città in cui Segato si stabilì per portare avanti le proprie attività scientifiche -, Palermo e la Reggia di Caserta. Proprio all’interno della Reggia, nella Sala dell’Estate, è esposto un tavolino il cui ripiano è costituito da una sezione di quercia pietrificata, opera di Segato.

Gran parte dei suoi ritrovamenti, lasciati al Cairo al momento del ritorno in Italia, furono purtroppo distrutti in un incendio avvenuto nella città egiziana nel 1823. 

Cartografo, topografo, naturalista, egittologo, studioso degli antichi metodi di produzione dei papiri, nei suoi viaggi in Africa esplorò regioni sconosciute della Nubia e dell’Oasi di Siwa, tracciando carte e raccogliendo reperti archeologici di vario genere, molti dei quali contribuirono a far nascere il primo fondo della sezione egizia del museo di Berlino-Charlottenburg. Gran parte dei suoi ritrovamenti, lasciati al Cairo al momento del ritorno in Italia, furono purtroppo distrutti in un incendio avvenuto nella città egiziana nel 1823. 

Autore dei Saggi pittorici, geografici, statistici, idrografici e catastali sull’Egitto (1827) e dell’opera pubblicata postuma Atlante monumentale del Basso e dell’Alto Egitto (1837-1838), morì prima dei quarantaquattro anni, il 3 febbraio 1836, a Firenze.

Fu sepolto nella basilica di Santa Croce, dove il monumento a lui dedicato recita: «Qui giace disfatto Girolamo Segato da Belluno che vedrebbesi intero pietrificato se l’arte sua non periva con lui».

Un patriota tra Italia e America

Che cosa unisce il Piave, “fiume sacro alla Patria”, e il Little Bighorn, fiume americano nel Montana? Un Conte nato a Belluno il 26 agosto 1832, Carlo Camillo di Rudio, un uomo la cui biografia sembrerebbe il soggetto ideale per un romanzo o, ancor meglio, per un film hollywoodiano sul vecchio West. Un uomo d’azione che si nutriva di avventura e che con le sue gesta scrisse pagine epiche capaci di risuonare tra i continenti. 

Patriota mazziniano dalle mille peripezie, protagonista dei principali eventi della Storia del suo tempo, di Rudio impresse il proprio nome sulle due sponde dell’Atlantico, partecipando prima alle battaglie per il processo di unificazione nazionale italiano, poi alla guerra di secessione americana e infine alle guerre indiane.

Scampato alla ghigliottina, fu condannato a scontare l’ergastolo in una colonia penale della terribile Isola del Diavolo, nella Guyana francese

Ultimo esponente di rilievo dell’antico casato bellunese dei Nossadani, da convinto sostenitore della causa per l’unità d’Italia lasciò il suo segno nel Risorgimento, tra i Cacciatori delle Alpi di Pier Fortunato Calvi e al seguito di Giuseppe Garibaldi. Fu in questo contesto che il 14 gennaio del 1858, a Parigi, prese parte, assieme a Felice Orsini e ad altri congiurati, al fallito attentato all’imperatore Napoleone III. Scampato alla ghigliottina, fu condannato a scontare l’ergastolo in una colonia penale della terribile Isola del Diavolo, nella Guyana francese, dalla quale riuscì nell’impresa di evadere suscitando grande clamore e sorpresa.

Fuggito in Inghilterra, grazie all’aiuto di Mazzini emigrò in America, dove si arruolò e fece strada nell’esercito. Combatté tra le fila dell’Unione nella guerra civile con i Confederati e nei conflitti di conquista a stelle e strisce ai danni dei nativi americani. Fu ufficiale nel 7º Cavalleria del generale Custer, quello della sonora e leggendaria sconfitta nella battaglia del Little Bighorn del 25 giugno 1876, scontro nel quale persero la vita 268 soldati – e lo stesso Custer – ma non di Rudio, uno dei pochi superstiti, per questo finito sulle prime pagine di tutti i giornali statunitensi.

Congedato nel 1896 dopo una brillante carriera, nel 1904 gli fu riconosciuto il grado di maggiore. Morì a Pasadena, in California, il 1º novembre del 1910. Le sue ceneri riposano in un cimitero militare di San Francisco.

Il Conte Carlo Camillo di Rudio