Category “Vite migranti”

Storie di emigranti bellunesi

«In Belgio ci sono andato per avventura». Questa è la storia di Antonio Fistarol

Antonio Fistarol

In Belgio ci sono andato per avventura. A quel tempo – era il giugno 1947 e non avevo nemmeno vent’anni – vivevo in città a Belluno e imparavo a fare il calzolaio. Con un amico, guardando sui muri abbiamo visto che avevano affisso dei manifesti in cui chiedevano di andare a lavorare in miniera e promettevano un sacco di cose. Qui c’era miseria e perciò abbiamo deciso di andare. Tanto più che a quel tempo non eravamo nemmeno sicuri che al di là delle nostre montagne ci fosse qualcosa. Ci sembrava un’avventura. Siamo partiti tramite la Camera del lavoro di Belluno.
Era di domenica, ad accompagnarci c’era un cadorino un po’ più anziano di noi, ma nemmeno lui era troppo esperto. A Padova, aveva guardato gli orari degli arrivi anziché quelli delle partenze e così ci siamo trovati a correre da un binario all’altro. Il treno non aveva carrozze normali, erano carrozze per le merci. Abbiamo viaggiato di notte, con un po’ di paglia per terra. A Milano ci hanno sistemati alla stazione Centrale. Sotto i binari c’erano degli alloggiamenti con letti a castello. Dovevamo aspettare la visita medica. Non sono arrivati subito, siamo rimasti più di una settimana in attesa, con la paura che ci scartassero, invece… i medici ci hanno detto: «Oh, che atleti, e vanno a lavorare in miniera…». Mi hanno perfino chiesto se sapevo correre in bicicletta.
Siamo partiti alla sera su un treno. È passata una persona, ci ha guardati e ha detto: «Questi due non li mando a… – non ricordo che nome ha detto –, lì le miniere sono vecchie e pericolose, c’è la polvere e sono malsane. Li mando dove ci sono le miniere moderne» e siamo finiti nel Limburgo, ai confini con l’Olanda, era un bel posto. Abitavamo in una cantina, così la chiamavano. C’erano la mensa, il bar e le casette dove eravamo ospitati.

Il primo giorno non avevo nessuna idea di come fosse la miniera. Non se ne parlava nemmeno e nessuno sapeva cosa aspettarsi. Siamo scesi fino a 700 metri dentro a un ascensore grandissimo, nel quale caricavano anche i carrelli, tutti insieme, pigiati. Una volta arrivati, qualcuno ci ha condotti dentro il filone, ci ha messo la pala in mano e un demolitore e così è cominciata. Dentro i cunicoli bisognava strisciare carponi e portarsi appresso il motopicco con un rotolo di gomma per l’aria compressa.

Le uniche parole di tedesco che conoscevo erano: “wohin gehst du”, che significa “dove vai”. Ricordo che mentre camminavo nel cunicolo ho sentito chiamare: «Italienisch, wohin gehst du?». Era un tedesco. Lì, infatti, c’erano i prigionieri tedeschi che lavoravano. Si riconoscevano perché la loro lampada aveva un cerchio rosso. Quella dei prigionieri politici, invece, aveva un cerchio blu. Abbiamo cominciato a cavare il carbone con il motopicco e con la pala lo facevamo scivolare nel nastro che lo portava fuori dalla taglia. Vicino a me c’era uno più vecchio, uno che può essere definito un “cattivo maestro”: faceva un buchetto nel carbone, si rannicchiava lì, riparato dall’aria, e diceva: «Basta, basta, che cosa fai? Basta! Abbiamo guadagnato i soldi per noi e anche per il padrone». Poi, però, arrivava il capo arrabbiato, perché nella taglia ognuno aveva un pezzo da finire, segnato col gesso su un sostegno dell’armatura. Quando passava il capo il filone doveva essere vuoto completamente. Si levava il carbone e poi si doveva armare il soffitto, altrimenti crollava. Dopodiché misuravano e ti pagavano in base ai metri cubi di carbone che avevi asportato. Ricordo anche che questo collega più anziano diceva spesso: «L’Italia ci ha venduti per un sacco di carbone», ma io non lo sapevo ancora che c’era stato questo accordo tra il nostro Paese e il Belgio. Non tutti, comunque, ci rimanevano in miniera. C’era chi aveva paura e quelli che non volevano più lavorare li mettevano addirittura in carcere, perché avevano rotto il contratto. Ricordo uno di Nogarè che è stato tre mesi in prigione, ti punivano così.

Io, però, a spalare carbone sono rimato poco. Mi hanno spostato nel turno di notte, a disarmare quello che era armato in modo da far spazio alle macchine che venivano posizionate nei punti in cui era stato levato il materiale.

Ma di incidenti ce n’erano, altroché. A me non è capitato niente, ma dicevano che ogni tanto qualcuno moriva anche lì, era un mestiere pericoloso. Sono rimasto cinque anni. Poi ho fatto il militare e mi sono trasferito in Inghilterra, a fare un lavoraccio nei laminatoi. Per partire dovevo avere il passaporto e un certificato penale con la dichiarazione del parroco. Era il ‘55, ma questi laminatoi erano antichi, di fine ‘800. I rulli per schiacciare il ferro funzionavano ancora con le macchine a vapore. Dopo tre o quattro anni me ne sono andato via, perché quel lavoro era davvero troppo pesante, e mi sono trasferito in Svizzera, a Zugo, a lavorare in una fabbrica di elettrodomestici.
Degli anni all’estero ricordo che i rapporti tra noi italiani erano buoni, eravamo tutti amici e ci aiutavamo, ma di fatto eravamo integrati solo tra noi, mentre con la gente del luogo di amicizia ne abbiamo fatta poca.

Famiglia Ciprian, gelatieri per passione

L’Eis Salon Ciprian

Mi chiamo Attilio Ciprian, ho un fratello gemello di nome Emilio. Siamo nati nel 1945. Ricordo che quando eravamo ragazzini nostra madre e nostro padre partivano per l’estero e quindi noi eravamo accuditi da una zia, sorella di nostro papà. Stavamo con lei fino alle vacanze estive, poi potevamo raggiungere i genitori.
Mio papà era nato a Vienna nel 1908. Vienna era una grande città, che raccoglieva tantissimi emigrati. Molti andavano lì per vendere il gelato artigianale. Anche mio padre faceva il venditore ambulante. Tutte le mattine partiva col carretto e vendeva due sorbettiere di gelato. Prima di cominciare il giro, alle cinque faceva rifornimento di ghiaccio in una grande macelleria. Poi girava tutta la capitale, andando per uffici, scuole, stadi e capitava che vendesse molto di più di quelli che avevano una propria gelateria, perché i clienti lo conoscevano, sapevano l’itinerario che seguiva e l’orario in cui sarebbe passato. Aveva un campanello per richiamarli. Poi tornava e scaricava la salamoia che aveva nel carro.

Più tardi, con un fratello purtroppo morto giovane, aveva deciso di aprire una piccola gelateria in Mariahilfer Strasse, una delle vie più famose di Vienna.

In questa gelateria io e mio fratello ci abbiamo trascorso l’infanzia. Abbiamo infatti frequentato la scuola materna a Vienna. Ricordo che all’epoca, quando avevamo tre o quattro anni, il papà ci metteva uno per sorbettiera. Allora si poteva, oggi non si può più. Poi nostro padre ha deciso di farci rientrare per le elementari e le medie. Io mi sono diplomato all’Iti nel 1967 e sono sempre rimasto in Italia come insegnante tecnico-pratico. Mio fratello, invece, dopo un periodo come meccanico alla Bmw, ha lavorato in Germania. Nel 1956, infatti, nostro padre aveva aperto una gelateria nel Nordreno-Vestfalia. In quella zona la Germania era molto ricca, aveva industrie e miniere e quindi il lavoro non mancava. Purtroppo, però, lui ci ha lasciati a soli 56 anni a causa di un infarto e così mia mamma ed Emilio sono dovuti partire per continuare a mandare avanti la gelateria. Nel 2016 hanno festeggiato i 60 anni di attività.

La storia di Angelo Tabacchi

Angelo Tabacchi e Giorgina Boccingher il giorno del loro matrimonio

Una storia di vita e di emigrazione, bella e dolorosa nello stesso tempo, è quella che ci racconta un ex emigrante, socio della Famiglia emigranti del Cadore: Angelo Tabacchi, classe 1940 di Sottocastello.
«Quelle della mia vita – racconta per introdurre la sua storia – sono piccole e grandi traversie che segnano per sempre la quotidianità di una famiglia.
Finiti gli studi all’Istituto Tecnico di Pieve di Cadore, mi trovai subito faccia a faccia con il lavoro vero in un cantiere quando emigrai nel Cantone Vallese, a Mattmark, dove rimasi dal 1957 al 1959. Su consiglio della mia famiglia, secondo la quale quel lavoro non era adatto a me, rientrai in Italia e iniziai a lavorare nel settore elettrico con la ditta Vascellari di Calalzo. Devo dire che il consiglio fu giusto, perché il nuovo lavoro mi piacque subito, anche grazie alle mansioni che mi vennero assegnate. Nel 1963 lavoravo a Longarone a un compito importante, che riuscii a completare appena venti giorni prima della frana del Monte Toc che travolse il paese. Mi andò bene, visto che lo sto raccontando, contrariamente a molti miei colleghi che furono travolti dalla piena. Per me fu ugualmente un brutto colpo.

Due anni dopo, nel 1965, mi sposai con Giorgina Boccingher. Una bella giornata, in parte rovinata dalla notizia della tragedia di Mattmark, che si portò via molti miei paesani e amici.

Un anno di vita tranquilla, attendendo la nascita del primo figlio, Matteo, venuto al mondo nel novembre 1966, proprio in concomitanza con la grave alluvione che stravolse il Cadore e il Bellunese. Un avvenimento duro e tragico per chi lavorava nel settore elettrico. Seguirono anni di vita tranquilla, rallegrati nell’aprile del 1976 dalla nascita del secondo figlio, Nevio. Una vita normale, con tante gioie in famiglia e in attesa di festeggiare le nozze d’oro, che ricorrevano nel settembre del 2015.
Furono anni felici, nei quali la nostra famiglia visse facendo anche terminare la scuola ai due figli. Purtroppo, all’inizio di quell’anno mia moglie venne colpita da un tumore che si aggravò velocemente, tanto che a malapena riuscì a sopravvivere alla festa e morì il 31 dicembre. Fu un dolore immenso, l’amavo molto. Si era dimostrata veramente una madre di famiglia come avevo desiderato.
Un dolore reso ancora più forte dal fatto che solo due mesi prima, il 28 ottobre, era morto anche mio fratello Giovanni.
Ora vivo nella casa di famiglia a Sottocastello, sempre vicino ai miei figli Matteo e Nevio, che mi stanno dando tante soddisfazioni.

Storia raccolta
da Vittore Doro

Vida e Laoro. Storie della Famiglia di Quintino Padoin e Irma Scarpato

Irma Scarpato e Quintino Padoin

La storia della famiglia di Quintino Padoin e Irma Scarpato inizia nel Nord Italia, da dove partirono i loro nonni. Domenico Padoin ed Eleonora Teresa de Doni, nonni di Quintino, provenivano da Pieve di Soligo, in provincia di Treviso. Luigi Scarpato e Maddalena Seraffin, i nonni di Irma, provenivano da Polcenigo, in provincia di Pordenone.
La nave “Umberto I” partì dal porto di Genova diretta a Rio de Janeiro, in Brasile. Su questa nave c’erano Domenico Padoin, sua moglie Teresa, i figli Pietro, Gregorio e Luigi, e suo fratello Giuseppe.
Da Rio de Janeiro arrivarono a Laguna, nel Sud dello stato di Santa Catarina. Da Laguna, attraverso il fiume Tubarão proseguirono fino alle colonie di Azambuja e Urussanga.
Gli immigrati trevisani occupavano le terre inferiori del fiume Urussanga, dove si trovano le comunità di São Pedro, De Villa, Estação Cocal e Morro da Fumaça. La terra in cui si insediarono si trovava nella comunità di San Pedro, in una fitta foresta; poi con molto lavoro si dedicarono alla coltivazione delle piantagioni, all’allevamento degli animali e alla costruzione di una piccola residenza. Tutto questo nel 1879. Lì nacque Pellegrin Padoin, padre di Quintino.
Pellegrin Padoin nacque il 13 maggio 1884, all’età di venticinque anni sposò Joana Zaccaron con cui ebbe otto figli: Antônio, Ida, Amélio, Quintino, Aurora, Izélia, Zuleima e Agenor. La coppia viveva nella comunità di Linha Pagnan, vicino a Estação Coal. Pellegrin era considerato un bravo lavoratore. Insieme ai figli e alla moglie aveva grandi piantagioni e allevamenti di bestiame.
Quintino crebbe intorno alla comunità di Estação Cocal. Nei primi giorni di scuola, rimase sorpreso dal modo in cui l’insegnante parlava in portoghese. Dopotutto, in quella zona parlavano italiano, o meglio, il dialetto veneto. Il suo divertimento era quello di andare nei boschi con gli amici e a pescare sul bordo del fiume Urussanga. Una volta non riuscì più a pescare – ricorda Quintino – perché l’estrazione del carbone a Urussanga nei primi anni ‘30 inquinò le acque del fiume, facendo sparire ogni tipo di pesce. Lavorava alla fattoria, a volte caricava i vagoni dei treni con sacchi di grano per guadagnare un po’ di più, e produceva anche scope da vendere, fatte con le foglie di alberi di cocco.
La famiglia di Luigi Scarpato si stabilì nel 1885 nel Núcle Accioly de Vasconcelos, attuale località di Linha Espanhola, dove nacque João Scarpato, il padre di Irma.
João Scarpato sposò Joana Brunato, con la quale ebbe tredici figli: Primo, Angelica, Otávio, Zeferino, Domingo, Vitório, Irma, Maria, Quintino, Agenor, Rosalino Amelia e Zuleima. João era un abile costruttore e trascorse molto tempo lontano dalla famiglia, operando in tutta la regione e anche nello stato di Rio Grande do Sul.

Mina Fluorita

Irma Scarpato da piccola lavorava alla fattoria con i suoi fratelli e la madre, viaggiava in carrozza trainata dai buoi, guidata da suo fratello Octavio. Frequentava la scuola al Rio Comprudente e ci andava alle prime ore del mattino, anche durante l’inverno, con i prati coperti di brina. A mezzogiorno tornavano a casa per il pranzo e di solito mangiavano formaggio, polenta, radicchio e salame. Ogni volta si fermavano durante il cammino, guardavano gli alberi pieni di frutti e raccoglievano la araçá, un frutto molto buono.
Irma terminò gli studi al quarto anno elementare perché, com’era comune per le donne dell’epoca, doveva prepararsi per diventare sposa e per prendersi cura di una famiglia generalmente numerosa. Negli anni ‘40, tra i quindici e i sedici anni, iniziò a frequentare le domingueira, ovvero le feste nel pomeriggio domenicale che si svolgevano nel centro comunitario della chiesa. I genitori erano molto severi, lei e le sue amiche dovevano tornare a casa prima che il sole tramontasse, quando il padre non le accompagnava alle feste. Andavano a piedi nudi, tenendo le scarpe in mano fin quando erano vicine al posto della festa, si lavavano i piedi e si mettevano le scarpe pulite.
In una di queste domeniche, nella comunità di São Pedro, Irma incontrò Quintino Padoin, ma lui, che era molto timido, esitò a rivolgerle la parola. Prima parlò con gli amici e solo più tardi con lei. Una volta la accompagnò a casa nel ritorno da una delle feste. Poco tempo dopo chiese di sposarla al padre di lei, e ciò avvenne il 22 giugno 1952.

Irma e Quintino, dopo il matrimonio vissero con i genitori di Quintino nella comunità di Linha Pagnan. Ebbero cinque figli: Ademar, Neiva, Natal, Vanilda e Edson. Dopo la nascita del secondo figlio costruirono una casa nella comunità di Linha Torrens, vicino alle famiglie Casagrande e Sartor. La vita rurale continuò, Quintino in agricoltura e allevamento di maiali, Irma, invece, produceva formaggi per venderli.

La storia di questa tipica famiglia di immigrati italiani cambiò direzione in seguito a un sogno. Uno dei vicini, Venicio Casagrande, sognò che c’era della pietra fluorite in un corso d’acqua nella proprietà di Quintino, vicino a dove si trovavano i maiali. Quintino, che sapeva poco del minerale, disse: «Nella terra dei poveri non c’è nulla, solo serpente, rospo e rana». Il giovane Venicio sognò altre tre volte la stessa cosa e un giorno, mentre lui e suo fratello stavano pescando in quel piccolo fiume, trovarono delle pietre verdi e gialle. Poco tempo dopo tornarono con i picconi per cercare altre di quelle stesse pietre e trovarono pezzi più grandi di quelli che avevano mostrato a Quintino; lui fu entusiasta e da quel momento, nel 1960, iniziarono in modo rudimentale a scavare la pietra fluorite nel posto.
Quintino e i giovani Giacco, Cuba e Venicio Casagrande estraevano mucchi di pietre, ma senza sapere se ci fosse realmente valore commerciale. Nessuno aveva conoscenze tecniche su quel tipo di lavoro, ma iniziarono con quello che avevano: picconi, pale, mazze, sudore e coraggio. Dopo la scoperta del valore commerciale, vennero costruite delle miniere, e intorno ad esse venne fondata una nuova comunità: la comunità Vila Mina Fluorita. La gente iniziò a cercare lavoro e si stabilì in quella zona; altre miniere furono scoperte, come la miniera della famiglia Sartor. Nel 1961 fu fondata la Mineração Santa Catarina.
Anche se l’attività principale della famiglia era quella mineraria, a Quintino e Irma piaceva la semplice vita rurale. Nella loro nuova casa, più lontano dall’area mineraria, crebbero i loro figli, nipoti e pronipoti.
Quintino ha salutato il mondo nel 2006, dopo una domenica in famiglia alla festa di Sant’Antonio.

Fernando Luigi
Padoin Fontanella

Giampiero Selle. Da Tiser di Gosaldo allo stato del New Jersey, Stati Uniti

Giampiero Selle
Giampiero Selle

Giampiero Selle è nato a Tiser di Gosaldo, provincia di Belluno, il 30 aprile del 1932, è deceduto il 16 febbraio 2018 nello stato del New Jersey, Stati Uniti. 
E’ cresciuto a casa con sua madre Bruna, sua nonna Giovanna e la zia Irma, perchè suo padre era emigrato diversi anni prima a New York negli Stati Uniti e abitava nel quartiere chiamato Little Italy. Nel 1949 a soli 17 anni Giampiero a Manhattan ha raggiunto suo padre. Per un po’ di anni ha lavorato in diversi ristoranti della città, diventando un bravo cuoco.
Questo gli è servito qualche anno dopo, quando nel 1952 è stato chiamato a fare il militare per due anni al tempo della guerra in Corea. Nel 1958 è ritornato in Italia e si è fermato per un anno. Ha conosciuto Giuseppina Bedont e si sono sposati in ottobre di quell’anno.
Nel 1959 è andato a vivere nello Stato del New Jersey, ha cambiato lavoro, ha fatto il piastrellista per il resto della sua vita, anche con l’aiuto della moglie. Hanno avuto due figli e una figlia e ora la famiglia si è ingrandita e conta dodici nipoti che gli volevano tanto bene.

Giampiero aveva un fratello che vive a Belluno, sposato con due figlie e due nipoti.

Giampiero ha vissuto una vita molto produttiva, era un artista sul lavoro e un bravissimo cuoco, cucinava spesso per la famiglia, la sua specialità era la torta di formaggio, chiamata cheese cake.

Giuseppina (Josephine) Bedont Selle